tag:blogger.com,1999:blog-33307503912464108302024-03-14T04:36:08.326-07:00andrei awayDiario di un viaggio lungo due anni e di un ritorno desiderato e temuto. Una raccolta di racconti dalle strade di Stati Uniti, America Latina, Nuova Zelanda, Cina... E poi l'Italia.Unknownnoreply@blogger.comBlogger115125tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-34235940950485438662014-11-26T16:11:00.000-08:002014-12-05T10:42:13.443-08:00Divieto di sosta. Cronaca di un ritorno<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh3AI_3lrRiaFRwzIZfsb-1JTEzbwhm_ZDxR4AoPeqcg9mSxze2WHAdV3zil7p6if8xIf-DuKeVkEQWoOVymJ0P9G-_1mwfacZaJcjXcp2c_0yJof4-z0EiTMZtTPncRRoOeV18OnUKRUnJ/s1600/divieto+di+sosta.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh3AI_3lrRiaFRwzIZfsb-1JTEzbwhm_ZDxR4AoPeqcg9mSxze2WHAdV3zil7p6if8xIf-DuKeVkEQWoOVymJ0P9G-_1mwfacZaJcjXcp2c_0yJof4-z0EiTMZtTPncRRoOeV18OnUKRUnJ/s1600/divieto+di+sosta.jpg" height="320" width="240" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Divieto di sosta su cielo lombardo</td></tr>
</tbody></table>
<div style="text-align: justify;">
Quattordici mesi fa un aereo della Etihad, partito da Pechino una manciata di ore prima, mi ha scaraventato a terra all'aeroporto di Malpensa. Alla vigilia di un viaggio è logico essere carichi di aspettative. Ma non c'è meta sulla faccia della terra che metta allegria e angoscia come la propria casa, soprattutto se si è lontani da tanto tempo. Era il 16 luglio e faceva caldo. Il cielo non era limpido come nelle migliaia di volte in cui avevo immaginato quel momento, ma di un grigio piatto che definirei tipicamente lombardo.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Da allora non ho scritto più una riga. Non che non avessi nulla da riferire, ma questo era nato come un diario di viaggio, in cui si raccontava di luoghi remoti, gente bizzarra incontrata per strada, aneddoti ed equivoci linguistici. Non mi sentivo in diritto di ammorbare la gente sulle poche soddisfazioni del mio ritorno.</div>
<div style="text-align: justify;">
Balle. La verità è che non mi sentivo più in grado di raccontare, ora che non c'erano più nomi esotici dietro ai quali farmi forte. Sì, perché il fatto di essere lontani da casa, per qualche ovvio motivo, conferisce un'autorevolezza e un credito spropositati. È bello, ma anche imbarazzante.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Mi rendevo conto però che tacere era come asserire che lo straordinario non alberga nel quotidiano, che viene sempre e solo dall'altrove. Invece, come ho scoperto a mie spese, il ritorno può essere un'esperienza più sbalorditiva di molte partenze. Di sicuro più anonima, inosservata, difficile da raccontare. Tutti possiamo farci un'idea di una traversata in barca in un mare caraibico. Ma come potevo spiegare di quella volta che sono rimasto due ore in un bosco, con la schiena appoggiata ad un albero, inebetito dall'idea di non avere più un posto da chiamare casa? Ero di nuovo in Italia da circa tre mesi e mi ero accorto che il luogo a cui avevo pensato di tornare non era che un'illusione cresciuta durante la lontananza. Le mie radici, rimaste sospese per tutto quel tempo, non attecchivano più al terreno d'origine. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Cosa mi ha riportato a casa? Un sentimento inedito; un impasto dalle percentuali incerte di nostalgia, stanchezza e mal di schiena. C'era la frustrazione per la continua precarietà logistica e la voglia di tornare, più saggio e più forte, per iniziare una nuova vita.</div>
<div style="text-align: justify;">
Inizialmente il ritorno è stato un tuffo piacevolissimo in tonnellate di pizza, nella famiglia, nei vecchi amici. E una serie di visite nei luoghi che, in preda alla nostalgia, mi ritrovavo di fronte quando chiudevo gli occhi in Guatemala, in Nuova Zelanda, in Cina: il cortile in cui giocavo da bambino, un sentiero nel bosco, un casello autostradale. A migliaia di chilometri di distanza mi capitava di sentirne gli odori, di percepirne i suoni.</div>
<div style="text-align: justify;">
Poi la festa è finita. Tante rimpatriate, tante birre, tanti “Allora, racconta!”. Tante pacche sulle spalle. Ma in fondo agli sguardi leggevo sottotitoli amari alla parola bentornato: “Ora basta barare con la storia del giramondo, ora si gioca alle stesse regole. E sono cazzi tuoi.”</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Avevo le idee troppo chiare. Aspettative troppo alte. Pensavo: se ho raggiunto con successo certi obiettivi – casa, lavoro, relazioni sociali – in paesi che non erano il mio, qui di sicuro sarà più facile. Sono nato e cresciuto qui, conosco la lingua parlata e quella taciuta. Basta sapere dove voglio arrivare e ci arrivo.</div>
<div style="text-align: justify;">
Ho provato a prendermela comoda, a fare tesoro delle lezioni imparate là fuori. Grazie a Michael, negli Stati Uniti, avevo capito che il lavoro che fai ti deve piacere: non puoi sprecare il tuo tempo a ingoiare bocconi amari per soldi. Con Steve, in Nuova Zelanda, avevo imparato che non devi per forza abitare in mezzo al cemento solo perché sei nato alle soglie di Milano. Grazie ai ragazzi di strada di Città del Guatemala avevo intuito che anche ciò che è molto difficile non è impossibile.<br />
Sceso da quell'aereo avevo un'insana fiducia in me stesso che mi portava a pensare che non c'era alcuna fretta di mettersi in coda alle otto del mattino su qualche Statale. Una fiducia però sfiancata da una domanda insistente, che mi sentivo rivolgere cento volte al giorno. “Hai trovato lavoro?” Condita, a seconda di chi la poneva, con note di sincera preoccupazione, considerazioni sulla crisi e sulla vergogna del sistema politico italiano, offerte di impiego buone per tamponare in attesa di un lavoro vero... Ma non ero disposto ad accontentarmi di un lavoro qualsiasi. Preferivo godere del mio tempo piuttosto che venderlo ad altri senza criterio.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Ma il punto non era il lavoro. Il punto non era il luogo in cui abitavo. Il punto era l'abisso emotivo nel quale ho rischiato di affogare. </div>
<div style="text-align: justify;">
Ci ho riflettuto e queste sono le mie conclusioni: puoi anche essere il primo uomo sulla Terra a scoprire l'origine dell'Universo; puoi incontrare Dio alla sagra del cinghiale e vedere che faccia ha. Ma se non sei in grado di dirlo agli altri non ti serve a niente. La tua vita resta uguale a prima e tu rischi di impazzire. </div>
<div style="text-align: justify;">
Io per fortuna non vado spesso alle sagre di paese. Mi ero solo chiarito un poco le idee su come volevo vivere. Ma non ho saputo entrare in sintonia con chi in quei due anni era rimasto a casa, spiegare quello che pensavo e volevo. Mi sentivo alieno, un cavallo dal benzinaio.</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
A distanza di tempo continuo a sentirmi così. Dicono che gli alcolisti restano alcolisti per sempre, anche se non toccheranno mai più un goccio. Per me è lo stesso: potrò anche restare qui fino all'ultimo dei miei giorni, ma in cuor mio sono uno che vuole partire. Partire come tendere a qualcosa di meglio, come ricerca continua che non dà alcuna importanza alla meta. </div>
<div style="text-align: justify;">
Ci penso affacciato all'unica finestra di casa mia, quella del bagno, dove il panorama è un muro grigio che delimita una casa abbandonata dall'altro lato della stretta via. Mi appoggio coi gomiti al davanzale, un po' scomposto a causa della lavatrice che mi lascia appena lo spazio per la gambe. Oggi piove, l'acqua anima il quadro alterandone la trama, deformando i contorni e diluendo i colori. Attaccato al muro grigio con quattro viti, proprio all'altezza del mio sguardo, c'è la metafora perfetta: un divieto di sosta. È così che mi sento. In lontananza mi par di vedere la sagoma di un uomo col cappello di ghisa. Ha in mano un blocchetto per le contravvenzioni. Non posso stare fermo qui ancora a lungo.</div>
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-27498724534213478602013-07-17T12:04:00.001-07:002013-11-08T07:58:41.333-08:00Stiamo arrivando. Forse siamo già lì!<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXazcLgVnnBzVj6ZJPhIC-jrWgTXZa9or08MKTfYUHwVuWizDVLbPql1bgSKSSLvKy6egNV7i0H3QVDinAH_XxVFmW96ppOfMMR4wy8YsDIjmzPm9qlyHEY-4E3tj9RV2JSsaZ6Vyj9cFt/s1600/italia.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXazcLgVnnBzVj6ZJPhIC-jrWgTXZa9or08MKTfYUHwVuWizDVLbPql1bgSKSSLvKy6egNV7i0H3QVDinAH_XxVFmW96ppOfMMR4wy8YsDIjmzPm9qlyHEY-4E3tj9RV2JSsaZ6Vyj9cFt/s1600/italia.jpg" /></a></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Quel pomeriggio di giugno me ne stavo
seduto sui gradini d'ingresso del Viet Lotus Hotel a fissare la
pioggia. Una pioggia battente che, sul centro di Hanoi come su tutta
l'Indocina, avrebbe continuato a scendere per i prossimi tre mesi. Ma
non era affar mio, questo lo sapevo: l'indomani Laura e io saremmo
partiti in treno per il confine cinese e presto avremmo cambiato
latitudine, orizzonte e stagione.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Non so da quanto tempo fossi lì, mi
ero semplicemente imbambolato e quasi non sentivo più i clacson e lo
sciabordare dell'acqua sotto le ruote dei taxi. Il traffico
continuava nel suo solito tenore; la gente mi passava davanti agli
occhi nelle mantelle colorate, in bici, a piedi o in motorino. Ma io
non vedevo i dettagli, non percepivo ogni passante come un individuo.
Vedevo solo macchie liquide di colore.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Una donna camminava lungo il
marciapiede dall'altro lato della strada. Non so perché misi a fuoco
proprio lei. Procedeva senza schivare le pozzanghere, avvolta nella
sua mantella nera. La sua faccia rimaneva nell'ombra del cappuccio e
non riuscivo a darle un'età, non potevo dire se fosse bella o
brutta. La vidi attraversare la strada proprio all'altezza in cui mi
trovavo io, senza guardare a destra o a sinistra. Veniva verso di me
e ora potevo vederle il viso: aveva un'espressione che giudicai
saccente, di quelle facce che hanno le persone che la sanno lunga
e stanno per rivelare, a te che non capisci un cazzo, come gira il
mondo.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Mi si parò davanti e io mi sentii
subito in imbarazzo. Ero anche irritato per esser stato privato del
mio status di osservatore e per il fatto di dover ora partecipare a
una qualche conversazione.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“Hello.” dissi.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“Non mi riconosci?” mi rispose in
italiano, mentre la sua mantella nera mi gocciolava sui piedi
bagnandomi i sandali.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
La guardai più attentamente: non mi
ricordava proprio nessuno. E poi, pensai, mi sarei ricordato di
un'asiatica che parla italiano. Diventai diffidente, come sempre.
Pensai che il gestore dell'albergo le avesse detto che ero italiano e
che, col pretesto di quella lingua imparata chissà come, avessero
ordito un piano per abbindolarmi e derubarmi.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“Non credo che ci conosciamo.”
dissi.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“Sicuro che non ci siamo visti
prima?”</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“Assolutamente sicuro.”
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Rimasi in silenzio. Toccava a lei ora:
doveva dirmi chi era. Oppure poteva spremersi in un sorriso
imbarazzato, se ne era capace, e dirmi che si era sbagliata. Invece
avvicinò le labbra al mio orecchio. La sua mantella mi gocciolava
addosso, bagnandomi i pantaloni e la maglietta. Mi sussurrò il suo
nome.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“Non conosco nessuna Lara” dissi.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Roteò gli occhi verso l'alto, tra il
divertito e lo spazientito.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“Non Lara, <i>Lora</i>!”</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“Nemmeno.”</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“Ma allora sei proprio stupido!
L'ora! ELLE-APOSTROFO-ORA.”</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Ma certo, l'ora! Sapevo che sarebbe
arrivata e adesso che ci pensavo aveva ragione lei: ci eravamo già
incrociati. Ma ogni volta avevo trovato un pretesto per evitarla,
infilandomi in un negozio all'ultimo momento, attraversando la
strada, o cacciando la testa sott'acqua. L'ora di tornare a casa...</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Quando la donna sparì (quando tornò a
non esistere) rimasi a riflettere. Passai un momento difficile su
quel gradino. Mi accorsi che un'ombra si era allungata su di me,
silenziosa, senza che me ne fossi accorto. Qualcosa si era rotto, una luce s'era spenta da qualche
parte e io non trovavo l'interruttore. Non avevo nemmeno in tasca un
fiammifero. Buio.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Iniziai a farmi delle domande, a darmi
delle risposte. Non ero andato fin là per ammalarmi di un male che
mai in vita mia mi aveva sfiorato. Non avevo attraversato mezzo mondo
per sentirmi oppresso come quand'ero un uomo bloccato nel traffico e
avevo un orologio al polso.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Immaginate di essere stati a una festa
di matrimonio. Avete mangiato e bevuto a volontà, senza badare al
portafoglio né al fegato, e ora siete stanchi ma soddisfatti, pronti
per tornare alla normalità e ricordarvi di questo giorno magico.
Entrate in casa e quando accendete la luce tutti i vostri amici sono
lì, con dei cappellini buffi in testa: “Sorpresa!” Vi eravate
dimenticati che oggi è anche il vostro compleanno ed è appena
cominciata un'altra festa. Intorno a voi c'è musica, c'è da bere e
da mangiare, ma voi avete altro per la testa.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
È più o meno così che mi sentivo in
quel momento. Pensai che sarebbe stato uno spreco continuare ad
attraversare paesi e continenti senza riuscire a vedere più niente,
senza avere fame.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Tornai dentro e ne parlai con Laura.
Anche lei era stanca; aveva raggiunto un livello d'entusiasmo minimo
e non aveva certo la forza per risollevare il mio, fisiologicamente
più basso. Cercammo di ragionare insieme, mettendo su un piatto
della bilancia il nostro progetto (non ufficiale ma nemmeno segreto)
di tornare a casa via terra attraversando la Cina, la Mongolia, la
Russia, eccetera. Oltre alle infinite traversate c'erano anche da
considerare i problemi relativi ai passaporti e ai visti: tutti guai
che solo un anno prima avremmo affrontato con spirito d'avventura e
che ora ci sembravano solo insormontabili rotture di coglioni.
Sull'altro piatto della bilancia ci abbiamo messo la stanchezza e la
voglia di essere a casa, tra le nostre cose e i nostri cari. E la
voglia di tornare ai nostri progetti, alle migliaia di cantieri
aperti con la fantasia negli ultimi due anni alla voce “Quando
torneremo...”</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Se il nostro viaggio era un cerchio,
quel cerchio andava chiuso. Su questo non avevamo dubbi. Forse
l'errore era stato pensare di doverlo chiudere sulla carta
geografica, mentre bastava farlo nella nostra testa.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Ci abbiamo messo un altro mese a fare
di quelle sagge parole un'intenzione, e infine un'azione. Ormai
avevamo il visto per la Cina, e la Cina era ciò che avevamo
aspettato per tanto tempo. E poi, poteva anche darsi che la Cina
stessa ci avrebbe rigenerati, che ci avrebbe ridato le energie e la
voglia di farci frullare ancora sugli autobus, di farci stipare nei
vagoni di terza classe, di passare notti insonni in stanze troppo
calde.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Ma non è successo. A Xi'An, nella
lussuosa suite di un ostello (!), il giorno del mio compleanno,
abbiamo messo uno stop a tutti i <i>se</i> e a tutti i <i>ma</i>.
Abbiamo comprato un biglietto aereo. Per Mosca? Per Berlino? Parigi,
Londra, Riga, Helsinki? No. Per Milano. Tutte le altre sarebbero
state inutili consolazioni simboliche di cui non avevamo più
bisogno. Tanto valeva avere il coraggio di tornare, così come
avevamo avuto quello di partire. Appena la compagnia aerea ha
confermato l'ordine via e-mail abbiamo iniziato a ridere come due
scemi. Due scemi contenti.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<br />
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Stiamo arrivando. Forse siamo già lì!</div>
Unknownnoreply@blogger.com8tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-38704672850980870942013-07-14T09:48:00.000-07:002013-07-14T09:55:18.531-07:00Ultime da Pechino: tenetevi pronti<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhUisq6CB5vRPS2yxIR9M4L6KLCliBoyPSRKWKdWDoQDF5KdLTRGNerr9hZ3FsJYnHQjtVq7Ac8y9eaWi_A5SyolzKL3-RwdGhuQeu0e9eXU24okiok08wDyeGKGVqjm-51SGkFbIjoHbpJ/s1600/metropolitana+pechino.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhUisq6CB5vRPS2yxIR9M4L6KLCliBoyPSRKWKdWDoQDF5KdLTRGNerr9hZ3FsJYnHQjtVq7Ac8y9eaWi_A5SyolzKL3-RwdGhuQeu0e9eXU24okiok08wDyeGKGVqjm-51SGkFbIjoHbpJ/s320/metropolitana+pechino.JPG" width="320" /></a></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Leo, il mio collega cinese in Nuova
Zelanda, mi aveva descritto la Cina come un paese sovrappopolato,
caotico ai limiti dell'invivibile. Lui veniva da Pechino ed
evidentemente non era mai stato al Sud. Probabilmente frequentava
poco le remote zone di provincia, così come io non sono mai stato in
Sardegna o in Basilicata.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Qui ad Anyang, come a Hekou, la
tranquillità regna sovrana. Il traffico è più che sostenibile,
fatto più che altro di biciclette elettriche, e ogni individuo ha il
suo spazio. Non c'è certo da sgomitare per camminare sui marciapiedi
o per entrare nei negozi.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Ci rimaniamo cinque giorni, in attesa
del treno per Pechino. Trascorriamo il tempo nell'ozio, nella
spaziosa stanza del 7 Days Inn o camminando per il quartiere. Stiamo
bene: ci sentiamo a nostro agio nella quiete e nei ritmi lenti di una
città che non ha motivo di correre.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Mangiamo quasi sempre ravioli al vapore
in un ristorante dietro l'angolo: è il nostro organismo che ce lo
chiede. Basta schifezze. Basta esperimenti ai suoi danni. La cuoca è
molto gentile con noi. Ci lascia sbirciare nelle padelle in modo che
possiamo indicare il ripieno che preferiamo: funghi, carne,
verdure... perché, ovviamente, qui nessuno parla inglese e noi il
cinese non l'abbiamo certo imparato in due settimane.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
La gente è curiosa di noi, ancor più
di quanto lo siamo noi di loro. L'ultimo giorno di permanenza
lasciamo libera la stanza e ci sediamo sui divani della hall, in
attesa che sia ora di andare a prendere il treno. Due uomini e una
donna si avvicinano, ci guardano, parlano di noi tra loro. Poi si
siedono vicino a noi e ci fanno delle domande, ma noi non capiamo
niente e glielo diciamo, in un'altra lingua. Quelli allora vanno
avanti argomentando qualcosa sul fatto che noi non capiamo niente e
via così. Per darci un taglio chiedo a Google di tradurre per me:
“Io non capisco il cinese.” Mostro il display del telefono a uno
dei due uomini e quello fa capire che non mi devo preoccupare. Ma
poi, come se si fosse già dimenticato di quanto ha appena letto,
prende in mano il mio cellulare e inizia a farmi altre domande,
immagino riguardo a certe funzioni che anche lui vorrebbe avere sul
suo enorme smartphone. È imbarazzante e divertente al tempo stesso.
Più imbarazzante che divertente a dire il vero. Prendo dalla tasca
dei pantaloni il mio taccuino per annotare quanto quella situazione
sia imbarazzante e li ritrovo tutti e tre alle mie spalle, a
commentare la mia scrittura, così strana ai loro occhi.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Che Leo non dicesse il falso l'avevo
capito già alla stazione di Xi'An e sul treno che ci ha portati fin
qui. Ma è alla stazione di Pechino capisco esattamente cosa
intendeva. Non credo di essere in grado di descrivere la quantità di
esseri umani che brulicano, si muovono, si scontrano. Più di un
formicaio, più di una miriade. Un puttanaio insomma.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Appena scesi dal treno non possiamo che
seguire la fiumana, che rallenta sempre più fino a fermarsi. Ma noi
non sappiamo perché: non riusciamo a vedere oltre le centinaia di
teste che abbiamo davanti. Lo scopriamo quando viene il nostro turno:
non è altro che un ordinario imbottigliamento all'imbocco delle
scale del sottopassaggio.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
La metropolitana di Pechino è moderna
e ben sviluppata: 14 linee, treni ogni 3-4 minuti nelle ore di punta
e ottimi collegamenti. Ma non basta per avere la certezza di riuscire
a entrare nel vagone.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Questo capita anche a Milano, è vero,
anche se non esattamente allo stesso livello. Ciò che a Milano non
succede, però, è di trovarsi imbottigliati nei sottopassaggi di
raccordo tra una linea e l'altra, di metterci dieci minuti per
raggiungere una scala mobile.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Piede sinistro, piede destro. Un
centimetro alla volta. Il tale che cammina accanto a me non guarda
nemmeno dove va, si lascia portare dalla corrente mentre legge e
scrive messaggi sul suo telefono. Probabilmente vive questa scena
tutti i giorni. Anche quello accanto a lui ha il telefono in mano,
anche quello davanti. Praticamente tutti hanno in mano il cellulare,
appoggiato alla schiena della persone che li precede. Sento qualcosa
di freddo toccarmi il collo, penso sia un insetto, mi giro di scatto:
è quello dietro e mi guarda indispettito. Quasi gli facevo cadere il
telefono.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<a href="http://www.blogger.com/blogger.g?blogID=3330750391246410830" name="eow-title"></a><a href="http://www.blogger.com/blogger.g?blogID=3330750391246410830" name="watch-headline-title"></a>
Ci muoviamo tutti in modo meccanico, con lo sguardo altrove. I
piccoli passi di centinaia di piedi mi fanno tornare in mente i
bambini di Another Brick In The Wall, il video dei Pink Floyd, che
alla fine finiscono nel trita-carne. Oppure si ribellano e
distruggono tutto.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
A Pechino troviamo anche il tempo di
fare il nostro dovere di turisti: Muraglia Cinese, Città Proibita e
Piazza Tienanmen. Fatto, fatto, fatto.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
La stanchezza ha raggiunto livelli mai
visti. Bisognerà farci qualcosa, e una mezza idea ce l'abbiamo già.
Tenetevi pronti.</div>
<br />
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-52806698233067051772013-07-13T04:38:00.001-07:002013-07-13T04:56:05.040-07:00Kunming-Anyang: la Cina in treno<div class="mobile-photo">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi3wMge8xj2CWU-9IGJA-KQWKEj1qokU0xKA74eduOIbwGIJHzmlsd9VhdKoTUZJTv_cKTAnYiZzKZIOdC-pBKg761pO5i6UIcCI4fJdtmNMTbOeK4WU6_v52JS4hZpb2X5NpXAjqGwEMGZ/s1600/DSC01287-798486.JPG" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img alt="" border="0" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5900063144568573458" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi3wMge8xj2CWU-9IGJA-KQWKEj1qokU0xKA74eduOIbwGIJHzmlsd9VhdKoTUZJTv_cKTAnYiZzKZIOdC-pBKg761pO5i6UIcCI4fJdtmNMTbOeK4WU6_v52JS4hZpb2X5NpXAjqGwEMGZ/s320/DSC01287-798486.JPG" /></a></div>
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A Kunming, capoluogo dello Yunnan, trascorriamo circa cinque giorni. Giorni oziosi fatti di brevi passeggiate, chiacchiere da ostello con altri viaggiatori e pasti consumati sui marciapiedi, ai tavoli di ristoranti improvvisati che offrono carni alla griglia, riso, noodles e ravioli al vapore.</div>
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Più o meno lo stesso copione si ripete a Xi'An, una città antica (più di 3100 anni di storia), capoluogo dello Shaanxi. Solo che qui la questione alimentare si risolve in ristoranti al chiuso, in cui sperimentiamo pietanze mai viste prima. Costante è la difficoltà di comunicazione, che ci porta a non sapere mai con certezza cosa abbiamo ordinato e ad affidarci alla fortuna e alla buona fede di chi ci sta servendo.</div>
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Kunming e Xi'An. Due grandi città, due capoluoghi. Iniziamo a sentire il richiamo della provincia, del posto tranquillo. Siamo diretti a Pechino, la Grande Capitale, ma nulla ci vieta di fare una tappa intermedia. Così, consultata la mappa delle ferrovie, scegliamo Anyang. Una città di una certa rilevanza storica, ma luogo di scarso interesse turistico, in cui non c'è motivo di andare. È il luogo che fa per noi.</div>
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Il vasto piazzale della stazione di Xi'An è affollato di gente che si muove in tutte le direzioni. Attraversarlo vuol dire muovere piccoli passi, schivare di continuo, non lasciarsi scoraggiare dalle urla e dalle spinte di chi, senza guardarci in faccia, vuole passarci oltre. Nella confusione generale capiamo che c'è una lunghissima coda da fare per entrare nella stazione. Uno alla volta si passa accanto alla guardiola, dalla quale un poliziotto ammette solo le persone munite di biglietto. È una seccatura, ma se non lo facessero la stazione rimarrebbe semplicemente bloccata. Una volta dentro, infatti, siamo come due pesci in un acquario troppo piccolo. Sono solo le 19:00, il nostro treno è in partenza alle 21:30 e non ci resta che fare come tutti: scegliere un punto a caso del pavimento, sederci sugli zaini a guardare i piedi della gente schivarci e farsi strada nella corrente. </div>
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Verso le 20:00 il numero del nostro treno compare sul tabellone luminoso. Ci mettiamo in coda. C'è già molta gente accampata sul pavimento: pochi hanno avuto la fortuna di trovare una sedia libera. Qualcuno mangia, qualcun altro gioca a carte. Famiglie, gruppi di amici, anziani con grossi sacchi di iuta al seguito. Ci sediamo di nuovo sugli zaini ad aspettare che aprano le porte metalliche e che ci facciano accedere al binario. Accanto a noi una mamma fa fare la cacca al proprio bambino nel piatto in cui ha appena finito di mangiare. Abbandonerà il tutto con noncuranza sotto il sedile sul quale è seduta. Alle 21: 20 la calca si serra a ridosso delle porte, ma quelle non si aprono. Venti minuti più tardi, mentre sto fissando il piccolo fazzoletto di pavimento libero davanti ai miei occhi, sento un boato. Il tabellone luminoso comunica che il treno partirà alle 22:20. Manca l'aria e fa caldo, ma non c'è molto da fare.</div>
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Nel salire sul treno mi trovo faccia a faccia con un tale. Ha un grosso sacco di iuta caricato su una spalla e un ventilatore, con piantana e tutto, nell'altra mano. Io ho il solito zainone sulle spalle, lo zaino piccolo sul davanti e la chitarra in mano come Toto Cutugno. Siamo all'entrata del vagone, già affollato di viaggiatori. Non ci passiamo. Le persone in fila dietro di me si bloccano sui gradini e mi spingono in avanti; l'uomo col ventilatore mi spinge indietro. Per farla breve, faccio l'errore "culturale" di indietreggiare. Mi troverò a percorrere un intero vagone in retromarcia, ad impigliarmi nella maniglia di una porta e prendere a zainate praticamente tutti i passeggeri, più divertiti che infastiditi dalle mie goffe manovre. L'uomo di fronte a me continua ad avanzare, io non trovo un'ansa nella quale ritirarmi e alla fine non mi resta che spingere anch'io, spremermi contro quel tale e contro la gente ai lati finché non riusciamo a sgusciare via, ognuno nella sua direzione. Se l'avessi fatto subito avrei evitato di congestionare il traffico e di passare per ridicolo, dato che non mi sembra essere una questione di educazione. La gente è semplicemente troppa e lo spazio troppo poco: per starci non c'è altro modo che stringersi. Stringersi molto.</div>
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Ripercorro il vagone e raggiungo Laura, che ha già preso posto. Noi siamo fortunati: per quanto i sedili siano scomodi e angusti, noi abbiamo i posti assegnati. C'è talmente tanta gente che si sposta in treno che, nonostante la rete sia moderna e ben sviluppata, vengono venduti più biglietti di quanti siano i posti a sedere: i cosiddetti posti "in piedi". Noi abbiamo comprato i biglietti con cinque giorni di anticipo ed erano gli ultimi due sedili rimasti su questo treno. Ci sarebbero i vagoni con le cuccette, o altri con sedili più grandi e reclinabili, ma i posti erano esauriti per settimane. </div>
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Seduta di fronte a noi c'è una ragazza che parla un po' di inglese. Ci offre delle piccole prugne e vuol fare un po' di conversazione. Siamo gli unici stranieri nel vagone (e forse in tutto il treno) e la gente è curiosa. Molti chiedono alla ragazza da dove veniamo: "Yìdàlì" risponde lei, e quelli annuiscono guardandoci. </div>
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Abbiamo tutta la notte davanti. Molte donne hanno comprato un solo biglietto e tengono in braccio i loro bambini. Finiranno col dormire per terra e lasciare il sedile ai figli. C'è gente seduta sul pavimento lungo tutto il corridoio, gente davanti ai bagni, gente sui gradini, gente sulle soglie, gente che dorme in piedi accasciata sui poggiatesta dei sedili. </div>
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Ma non uno screzio. Non un litigio. Solo tanta pazienza. Ogni volta che qualcuno deve andare in bagno tutti si svegliano e senza dire beh si alzano, lasciano passare, si risiedono. Lo stesso al passare del carrello dei cibi o ad ogni stazione, quando scendono e salgono i passeggeri con le loro valigie. Quando a scendere è un passeggero che aveva un posto a sedere, le persone usano quel sedile a turni, comunicando i cambi con semplici sguardi.</div>
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A me manca un po' il respiro. Sono seduto tra Laura e una signora con la figlia in braccio; posso appena muovere i piedi di qualche centimetro, incastrato come sono tra le gambe degli altri, i bagagli, la chitarra... E poi le sigarette, anche se il cartello dice che non si può. Certo, le persone vanno a fumare nello spazio tra un vagone e l'altro, ma che differenza fa? L'aria è pesante e non c'è altra soluzione che aspettare con pazienza l'indomani mattina.</div>
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Ci sveglia un sole pallido pallido. Una luce grigia illumina il vagone. Il treno entra nella stazione di Anyang alle otto del mattino e la gente ci aiuta a caricarci gli zaini in spalla, ci fa spazio per uscire. Lasciamo loro altri due posti liberi da spartire. </div>
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Per prima cosa compriamo il biglietto per Pechino, con largo anticipo, determinati a viaggiare di giorno e su un sedile comodo. Ma tutto ciò che troviamo, dopo un'ora di coda allo sportello, sono due posti come quelli che abbiamo appena lasciato, per un treno che parte quattro giorni dopo. </div>
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-70345453159079934342013-07-10T01:03:00.001-07:002013-07-13T05:02:04.561-07:00Siamo onesti: siamo ipocriti<div class="mobile-photo">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg3Mqe5-iNOwFQhzCI2IYco1uatzchEpr1N6wt7WUO4YNWsuNsB_t1M6GcyjRU5qZ-wV4kWWHjc37lUy3ejBsbv9LOr0G_hawzwmdDJ2ybNdB7dZCItPXkCg3K5sinYUFCX1oooTMbb6UMO/s1600/kunming+bambini-783650.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img alt="" border="0" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5898894420770085874" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg3Mqe5-iNOwFQhzCI2IYco1uatzchEpr1N6wt7WUO4YNWsuNsB_t1M6GcyjRU5qZ-wV4kWWHjc37lUy3ejBsbv9LOr0G_hawzwmdDJ2ybNdB7dZCItPXkCg3K5sinYUFCX1oooTMbb6UMO/s320/kunming+bambini-783650.jpg" /></a></div>
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La piazza del centro di Kunming è un enorme monumento al capitalismo più genuino, quello entusiasta degli albori, che ancora non ha imparato a mascherarsi dietro i banchetti per le adozioni a distanza, o a scaffali di prodotti biologici. Una zona a traffico limitato assediata da decine di banche, luccicanti centri commerciali, fast food americani.</div>
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Proprio in uno di quei fast food ci eravamo rifugiati, presi da fame improvvisa. (D'accordo: che senso ha andare in Cina per poi mangiare da McDonald? E soprattutto, che senso ha mangiare da McDonald? Ma mettiamo per un attimo da parte gli integralismi. Un occidentale, per quanto dica peste e corna dell'Occidente – seduto sulla poltrona di casa sua – sente poi bisogno dell'Occidente quando i punti di riferimento vengono a mancare. Come un bambino abbandonato torna sempre, anche se con rancore, a cercare i suoi vecchi, così l'occidentale, almeno una volta al mese, si trova a cercare conforto tra le braccia tossiche della Grande Distribuzione).</div>
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Inizia a piovigginare e stiamo per tornare verso l'ostello. Verso l'uscita della piazza c'è una ragazzina, in piedi accanto a una fioriera. Ha una frangia di capelli dritti come spaghetti che le copre completamente gli occhi, un paio di jeans e uno zainetto dagli spallacci lunghi che le poggia sul sedere. Non ne ho mai letto uno in vita mia, ma mi fa pensare a un personaggio di un manga giapponese. Con lei ci sono un uomo e una donna che potrebbero essere i genitori. Lui, in una polo lilla, preme dei tasti su un piccolo lettore mp3 e fa partire la base di una canzone cinese. Il suono esce pulito e potente da un amplificatore poggiato sul lastricato, al qual è collegato anche un microfono. L'uomo attacca a cantare sulla base con una voce impostata e vibrante, con la sicurezza di chi conosce il proprio lavoro a memoria. Solo sugli acuti mi sembra che stoni un poco, ma ciò nonostante i passanti iniziano a radunarsi intorno ai tre e sembrano entusiasti. La donna inizia una danza armoniosa e saltellante, facendo svolazzare la larga gonna. La gente deve arretrare un poco per lasciarle spazio e le fa cerchio intorno.</div>
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Alla fine della prima canzone i due adulti sembrano incitare la ragazzina a cantare. Lei non reagisce. Non dice nulla; non scuote la testa per dire no, non prende il microfono per dire sì. L'uomo canta una seconda canzone. La donna ricomincia a ballare. Qualcuno, prima di andarsene, lascia una banconota nella custodia floscia dell'amplificatore.</div>
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Finita la seconda canzone prende il microfono la ragazzina. Ora è chinata a terra, con il lettore mp3 in mano. Inizia a cantare tenendo la bocca lontana dal microfono, seguendo la voce originale di una canzone. Canta bene, comunque: soave e intonata. Penso che forse è agli inizi e sta prendendo coraggio. Alzo lo sguardo per vedere le facce di quelli che forse sono i suoi genitori: saranno fieri? Commossi? Severi?</div>
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Sono semplicemente spariti. La musica smette d'improvviso, come se avessero tagliato i fili della corrente. Vedo la ragazzina discutere con un tipo sui trenta, in camicia bianca e scarpe lucide, che nel frattempo sta chiamando qualcuno dal suo gigantesco smartphone. Compaiono delle guardie private e la ragazzina raccoglie di corsa la strumentazione. C'è la polizia poco distante, quella vera. Gli agenti chiacchierano distrattamente al chiuso di una piccola stazione di controllo, ma non sembrano occuparsi di queste cose. Le guardie private, appurato che la musica è cessata, lasciano stare la ragazzina e partono alla ricerca dei due adulti (che ormai saranno lontanissimi).</div>
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Nel silenzio lasciato dall'amplificatore spento mi accorgo che c'è altra musica nell'aria, proveniente da altri angoli della piazza. Altre voci di bambini, anche quelle troncate una ad una al passare delle guardie.</div>
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Alcuni minuti più tardi la ragazzina dalla lunga frangia si riunisce ad altri bambini, quasi tutti più piccoli di lei. In tutto sono poco meno di una decina, alcuni con un amplificatore caricato sulla schiena, altri con un microfono in mano. Confabulano tra loro e decidono che è meglio andarsene di lì.</div>
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Mettete pure, accanto al banco dei prosciutti, un banchetto per adottare (si intende a distanza) un tenero negretto del Burkina Faso (ma dov'è il Burkina Faso?). Ma non metteteci sotto gli occhi i bambini poveri del quartiere. Quelli non sono teneri. Quelli ci ricordano chi siamo stati ieri e chi siamo veramente oggi.</div>
Unknownnoreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-24622741794617349262013-07-06T05:54:00.001-07:002013-07-13T05:10:48.593-07:00Da Hekou a Kunming, the Toilet Experience<div style="text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi0RatF9l7a-ggzWjhaldWni2oXXlUA9eFpkrGBJHUnj-IQbND3lQxLoypXTyIXKPkrAwqMzLBrdiUQ2frYw1STk10Dx3Xc2BUOlzi9wih1NsSIAqzzm4v_depW8kREFmrrJE1jygPzx07I/s1600/_MG_0870.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="265" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi0RatF9l7a-ggzWjhaldWni2oXXlUA9eFpkrGBJHUnj-IQbND3lQxLoypXTyIXKPkrAwqMzLBrdiUQ2frYw1STk10Dx3Xc2BUOlzi9wih1NsSIAqzzm4v_depW8kREFmrrJE1jygPzx07I/s400/_MG_0870.JPG" width="400" /></a></div>
Lasciamo la desolata stazione di Hekou in tarda mattinata. Il bus scivola dentro a un'autostrada nuova di zecca: asfalto regolare, guardrail e arredi impeccabili, stazioni di servizio immacolate e deserte. Intorno a noi coltivazioni a perdita d'occhio, terra rossa e terrazzamenti. </div>
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C'è un rumore fastidioso a bordo, una specie di <i>beep </i>intermittente che comincia di quando in quando. Inizialmente i <i>beep </i>sono distanti l'uno dall'altro, ma si fanno progressivamente più frequenti, fino ad essere quasi un suono continuo, per poi scemare di nuovo e scomparire. Si tratta di un marchingegno che, oltre a perforare i timpani della gente, serve all'autista per sapere dove sono i controlli della velocità. Ma potrebbe anche farne a meno, dato che questi controlli sono <i>ovunque</i>.</div>
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A parte quel suono fastidioso, non mi sembra vero di viaggiare ad una velocità accettabile, su una strada dritta e priva di buche, senza sorpassi, sbandate e brusche frenate. Ma la festa dura poco, perché l'autostrada è interrotta (forse non è stata ancora completata). E allora è all'autista che non sembra vero di potersene finalmente infischiare dei controlli e lasciarsi andare a sorpassi, sbandate e inchiodate a suo piacimento. </div>
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Inizialmente passiamo attraverso una città dalle decine di semafori, tutti rossi, a distanza regolare l'uno dall'altro. Poi, appena fuori dalla zona urbana, l'asfalto viene a mancare per un po' ed è come essere in barca. In mezzo alla tempesta. A un certo punto rimaniamo bloccati in un ingorgo, in attesa che una gru rimuova un enorme pannello pubblicitario crollato in mezzo alla strada.</div>
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Il nostro autista, va detto, è proprio uno stronzo e ce la mette tutta per rendersi antipatico. Se c'è una coda, lui sente il dovere morale di occupare l'altra corsia e sorpassare tutti. Se c'è un valido motivo per rallentare, lui accelera. Poi inchioda.</div>
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Finalmente una sosta: mi serve un bagno e sto morendo di fame. Ancora non lo so che risalirò sull'autobus con la pancia vuota e con la vescica piena, pur avendo pagato sia per il pranzo che per l'entrata al bagno. Laura non ha appetito, dice. L'ultimo tratto di strada le ha dato la nausea e preferisce rimanere a bordo.</div>
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Ad un lato dello spiazzo, delimitato da costruzioni fatiscenti e spazzatura, c'è una piccola mensa. C'è poco tempo e la gente si accalca in una coda cinese: chi si impone sugli altri viene servito per primo. Io, almeno secondo Darwin, sarei destinato all'estinzione, se non altro per il fatto che non so una parola di cinese. Decido però che voglio sopravvivere: mi piazzo davanti all'espositore e indico le due cose che mi sembrano meno disgustose. La signora dall'altro lato del banco spiaccica due cucchiaiate di cibo in un vassoio di metallo a scompartimenti (l'ultima volta che ci ho mangiato dentro è stato alla mensa dei poveri a Città del Guatemala) e mi liquida in fretta, dandomi come resto delle banconote impiastrate di salsa di soia.</div>
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Riuscirò a mandar giù solo una parte di quel cibo. In uno degli scompartimenti, quello che mi era sembrato essere pollo si è rivelato un avanzo di macelleria: ossa e articolazioni di animali vari con ben poca carne attaccata, e comunque piccante da farmi grondare di sudore. Per fortuna nell'altro scompartimento riuscirò a isolare dei brandelli di uovo e qualche pezzo di pomodoro.</div>
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Bene. Di fame non si muore per così poco. Almeno fatemi andare in bagno. </div>
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C'è una scritta di vernice azzurra su di un muro grigio: WC. All'ingresso una signora mi chiede 1¥. Pago e faccio un passo avanti, oltre il muretto che mi separa dalla soglia dei bagni. E sulla soglia rimango, pietrificato, per mezzo minuto buono. Davanti a me c'è un tale, accovacciato. Fuma una sigaretta e sembra rilassato. Sta cagando. Sotto di lui un buco pieno di merda. Cerco di capire come dovrei comportarmi: la stanza è larga circa due metri e si restringe verso il fondo. Sul lato sinistro c'è una specie di fossato di cemento, per i bisogni liquidi; sul lato destro tre piccole buche, per quelli solidi. Un odore terribile e niente muri, niente porte, niente sciacquoni. Niente di niente. </div>
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Il tipo accovacciato mi guarda. Sto facendo la figura dello scemo. Ormai sono qui, penso, ci devo almeno provare. Mi dirigo al lato sinistro e provo a fare il mio dovere. Ci provo ma non ci riesco. Tiro su la cerniera dei pantaloni ed esco di corsa, imprecando nella mia lingua. La signora all'ingresso mi guarda perplessa.</div>
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Allora mi è tornato in mente quel ragazzo di origine cinese, cresciuto nel Sultanato del Brunei. Eravamo in una strada del centro di Siem Reap, in Cambogia, coi piedi in ammollo in una vasca piena di pesci carnivori che si occupavano di ripulirci da calli e pelli morte. Era sera, intorno a noi un gran baccano di gente in giro per locali, musica e venditori. Gli avevo chiesto del suo paese d'origine, se ci fosse mai stato. Lui si era limitato a dire che in Cina aveva fatto la peggior "toilet experience" della sua vita e che ci consigliava vivamente di portarmi dietro delle pastiglie contro la diarrea. La sua fidanzata annuiva, mentre io e Laura ci guardavamo confusi. Ora so che cosa intendeva.</div>
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Ritorno alla mensa. Questa volta provo a farmi dare dei noodles e li porto a Laura, ma anche quelli sono immangiabili: li abbandonerò su un paracarro. Infine mi guardo intorno in cerca di un angolo per fare ciò che non ho potuto fare prima, ma l'autista ha appena finito di fumare. Butta il mozzicone in una pozzanghera, si siede al posto di guida e suona il clacson: è ora di ripartire.</div>
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L'ultimo tratto del viaggio torna ad essere piacevole. Riprendiamo l'autostrada e attraversiamo la Foresta di pietra, una distesa di rocce calcaree simili a stalagmiti che danno l'impressione di essere tronchi d'albero pietrificati.</div>
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Arriviamo a Kunming prima del tramonto, ma sarà buio da un pezzo quando avremo trovato un posto per la notte, dopo ore passate a disperarci e a camminare schiacciati dal peso degli zaini. Impossibile trovare un taxi libero, e se c'è non ci capisce e preferisce trovarsi un cliente più facile. Verso le undici finiamo in un ostello che ha un solo posto letto e mi trovo ad implorare la ragazza della reception di lasciarmi dormire da qualche parte sul pavimento. Sarà magnanima abbastanza da concedermi il divano del bar, dove per tutta la notte le zanzare approfitteranno senza scrupoli del mio corpo. </div>
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Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-20812221085757897192013-07-02T05:06:00.001-07:002013-07-13T05:12:26.044-07:00Hekou, Cina: una cena da dimenticare<div class="mobile-photo">
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La sera ad Hekou c'è musica per le strade. Un gruppo di uomini sui cinquanta, seduti in cerchio su sedie di plastica, suona l'erhu, una specie di violoncello cinese dalla voce di donna. Uno di loro canta e tutti gli altri lo seguono, all'unisono sulla stessa melodia. Pochi loro compaesani si fermano a sentire, ma forse li ascoltano i vietnamiti, dall'altra parte del fiume. Poco più in là un impianto audio suona musica dance, e lì ci sono i giovani che ballano e si divertono. Nella piazza davanti al nostro albergo, invece, gente di mezza età è impegnata in una specie di danza aerobica.</div>
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Usciamo dalla nostra stanza che è già buio, in cerca di qualcosa da mangiare. Potremmo andare da KDS, una specie di Burger King locale: facile e indolore, un'esperienza nota e uguale in tutte le parti del mondo. Invece ci buttiamo a kamikaze in un locale dai divanetti rossi e tavoli in due file lungo i muri. In due secondi sfodero tutto il mio vocabolario cinese: entrando dico buonasera e rispondo con un grazie quando una ragazza mi porge il menù. Ma il menù è in cinese e la mia pronuncia di quelle due semplici frasi dev'essere stata orribile, a giudicare dal sorrisetto della mia interlocutrice. Per un momento mi sembra che tutti i clienti smettano di mangiare per guardare noi, due animali esotici, due orsi polari paracadutati in piazza del Duomo. La situazione è imbarazzante, ma anche divertente: le donne che lavorano nel locale si radunano intorno a noi e si sforzano di capire, mentre noi ricorriamo a strategie varie per spiegarci. Digito "pollo" e "patate fritte" sul traduttore che ho installato all'occorrenza sul cellulare, mostro loro il risultato in caratteri cinesi e sembra che ci siamo capiti. Per sicurezza una di loro ci porta al tavolo dei surgelati, per chiedere conferma che sia proprio quello che volevamo. Io e Laura ci guardiamo, e in quel breve sguardo comunichiamo più o meno quanto segue: <i>Cos'è 'sta roba? Boh, è tutto scritto in cinese... Dovremmo provare a chiedere del cibo fresco? Sì, e come? Lasciamo perdere va', questa roba andrà benissimo. Sì dai, ho fame, quel che arriva arriva.</i></div>
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Ad arrivare invece è un ragazzo sui trenta dalla faccia butterata dall'acne, tale Gong Hu, che si offre come interprete. È gentilissimo, ma combina solo casini. Il suo inglese è davvero elementare e a nulla vale dirgli che abbiamo già ordinato: lui <i>vuole </i>aiutarci.</div>
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Le donne stavano già preparando quello che avevamo ordinato, ma Gong Hu dà loro dei contrordini. Quelle gli gridano dietro, ma lui è solo l'interprete, un ambasciator che non porta pena, quindi che facciano come dice, poche storie. Dopo aver impartito gli ordini ritorna da noi, appoggia sul tavolo il suo succo di frutta bevuto a metà e chiede se può sedersi con noi.</div>
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La conversazione procede a stento, ma la gentilezza di Gong Hu vale la fatica. Ci racconta che lavora nelle costruzioni e fa un sacco di quelle cerimonie tipiche delle persone timide: "Sank you, sank you very much!" mi dice arrossendo quando gli chiedo dove ha studiato inglese. Forse ha pensato che gli stessi facendo un complimento, e io non ho nessun motivo per precisare il contrario. Comunque mi risponde poco dopo, quando parlando si sé dice che sa un po' di inglese perché suo padre insegnava la lingua in una scuola media.</div>
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La cena è orribile. Prima arrivano delle crocchette bisunte dal sapore inconsistente. (Non sembra proprio pollo. Ma allora cos'è?) Poi arriva una scodella di banane fritte (forse dono di Gong Hu, che ne mangia con noi). Infine ci vengono servite le patate fritte, mollicce e crude all'interno. Ingoiato il tutto, Gong Hu chiede più volte se vogliamo ordinare altro e noi, terrorizzati, facciamo scene da mani sulla pancia: "No, grazie, siamo pieni da scoppiare!"</div>
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Una cena da dimenticare, un'esperienza da ricordare. Usciamo in fretta, diretti al KDS. </div>
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-10176597520410059582013-06-30T00:54:00.001-07:002013-07-13T05:24:45.015-07:00Storie di frontiera: tra Vietnam e Cina<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgUNrJgv25syBcpGkFyNGkobfcBR0DZIAOPO4iAPPWHMurFckhTZyGewNN9PgCj-f1nWH-sYzpIJynVxRXLwnI3-uUOO86QEX7SvqXNoZn0-Td3J96k8MSXRWvMatVyq8VI7u2U4E7O__OH/s1600/DSC01203.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgUNrJgv25syBcpGkFyNGkobfcBR0DZIAOPO4iAPPWHMurFckhTZyGewNN9PgCj-f1nWH-sYzpIJynVxRXLwnI3-uUOO86QEX7SvqXNoZn0-Td3J96k8MSXRWvMatVyq8VI7u2U4E7O__OH/s320/DSC01203.JPG" width="320" /></a></div>
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Arriviamo alla frontiera con la Cina nel tardo pomeriggio, dopo un'estenuante giornata iniziata alle 5 del mattino, quando picchiettando sul finestrino di una piccola Hyundai Gets nel centro di Hanoi abbiamo svegliato un taxista per farci portare alla stazione. Non l'ho invidiato, il taxista, mentre si stropicciava gli occhi, tirava dritto lo schienale del sedile e si chinava a cercare le scarpe, finite dietro ai pedali.</div>
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Dieci ore e mezza di treno. Lento. Lentissimo. Ma sempre meglio dei famigerati <i>sleeping bus</i> sui quali abbiamo viaggiato fin ora: nient'altro che carri bestiame per turisti che pagano bene. Non ci sono sedili sugli <i>sleeping bus</i>, solo tre file di lettini minuscoli con lo schienale leggermente rialzato, di solito non regolabile. Non puoi stendere del tutto le gambe se sei più alto di un metro e mezzo, non puoi dormire sul fianco per via dell'inclinazione, non c'è spazio per le braccia e non puoi fare altro che intrecciare le dita sul petto come i morti. E non puoi fare a meno di pensare che una bara, con la sua fodera bianca e quel minimo, ormai inutile, spazio vitale, sarebbe più confortevole. </div>
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Una volta ci è anche capitato di finire in fondo al bus, dove i lettini sono cinque, attaccati l'uno all'altro. Io mi trovavo tra Laura e un australiano alto un metro e novanta, pelosissimo. Faceva caldo, nonostante l'aria condizionata, e non potevo muovermi: ognuno doveva fare la sua parte nel gioco di incastri. Non potevo alzarmi perché una volta riempito il bus, non contento, l'autista ha venduto una serie di posti sul pavimento a viaggiatori locali, che si sono stesi lungo i corridoi sulle loro stuoie. </div>
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Per fortuna alle due e mezza della notte abbiamo rotto lo sterzo e abbiamo potuto scendere per un po', per quelle tre ore che l'autista ci ha messo a smontare il braccio a martellate, farlo riparare da un meccanico lungo la strada e rimontarlo, ricominciando poi a guidare come un cane. (Un cane alla guida di un carro bestiame. Non è divertente? No.) Insieme agli altri occupanti del bus ci siamo riversati lungo il marciapiede, dove una donna stava aprendo il sue "negozio". (Sarebbe a dire che stava togliendo un telone che copriva un paio di scatole di polistirolo piene d'acqua, nella quale erano immerse le bibite in vendita, e una serie di sedie e sgabelli di plastica erosi dalle piogge.) Si è affrettata a far accomodare quanta più gente possibile: non le sembrava vero di iniziare a fare affari così presto.</div>
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<br /></div>
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Dieci ore e mezza di treno, dicevo, per arrivare al confine con la Cina. Decidiamo di sconfinare subito, anche se siamo stanchi, in modo da agevolare la ricerca di un bus per Kunming l'indomani mattina. Abbiamo imparato che essere già dalla parte giusta fin dal mattino può evitarci eventuali imprevisti e code che rischierebbero di farci perdere intere giornate. Così ce le becchiamo subito le code. E gli imprevisti.</div>
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Ogni frontiera comporta almeno due controlli: uno per uscire dal paese in cui si è stati, l'altro per entrare nel nuovo. Io passo il primo controllo egregiamente, il poliziotto non ha niente da obiettare. Oltre il metal detector mi fermo e aspetto Laura, che era in coda dopo di me. Ma la cosa va per le lunghe, il tipo si rigira il passaporto tra le mani infinite volte, guarda le pagine in controluce. Poi si sofferma sulla copertina, che è un po' scollata per via delle piogge prese, l'umidità, il sudore e le varie avventure in barca. Laura prova a spiegarglielo, ma il tipo scuote la testa. La fila di viaggiatori in attesa cresce continuamente. Alcuni si affacciano per chiedere se possono passare, ma il poliziotto li ricaccia indietro. Infine si gira verso di me e mi chiede di nuovo il passaporto: lo ricontrolla, lo confronta con quello di Laura e me lo restituisce. </div>
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Decide che non si fida, le chiede di seguirlo. Vedo che vanno verso una stanza, forse un ufficio dietro oltre la fila dei terminali, ma li perdo di vista. Io sono ufficialmente uscito da Vietnam e non posso rientrare. Laura, a quanto sembra, non può uscire. Pochi minuti dopo il poliziotto mi chiede di tornare indietro, di andare anch'io in quell'ufficio.</div>
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Nella stanza c'è solo una scrivania e un armadio di metallo, appoggiato al muro per il lato corto, che nasconde dietro di sé una porzione di stanza che non possiamo vedere (ma dev'esserci un bagno, a giudicare dai rumori che il poliziotto emette quando vi sparisce dietro). Le pareti sono bianche e spoglie, appena chiazzate di giallo dall'umidità. Nessun quadro, non un calendario o una foto di Ho Chi Minh: solo un condizionatore nuovo di zecca. C'è un ragazzo cinese insieme a noi, e un altro poliziotto seduto alla scrivania intento a parlare con quello che ci ha accompagnati. Insieme esaminano i passaporti, discutono. Poi ci dicono di aspettare ed escono dalla stanza. Il ragazzo cinese ci spiega il suo problema: si sono "dimenticati" di timbrargli il passaporto quando è entrato e ora, probabilmente, dovrà pagare "qualcosa".</div>
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Il poliziotto che ci fermati allo sportello rientra nella stanza. Con lui ce n'è un altro che non abbiamo mai visto. Quello che ci ha fermati fa cenno al ragazzo cinese di seguire il suo collega, indica l'armadietto di metallo. Il ragazzo si alza e insieme al poliziotto vi sparisce dietro. Ne escono dieci secondi dopo, entrambi sorridenti. Il ragazzo cinese sembra decisamente sollevato e nell'andare via cerca la mano dell'altro poliziotto (quello che ha "arrangiato le cose", apparentemente). Vuole stringergliela in segno di gratitudine, ma quello lo liquida sbrigativamente. <i>Quanto gli sarà costato questo scherzo?</i> mi chiedo.</div>
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Ci lasciano di nuovo soli nella stanza. Io e Laura decidiamo che, dovessero chiederne, soldi non gliene diamo. Assolutamente. Per principio. </div>
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Come prima cosa chiediamo che ci facciano una ricevuta ufficiale (tra Messico e Guatemala è una mossa che funziona). Se dicono di no, chiediamo di telefonare all'ambasciata italiana (il che sarebbe solo un bluff, visto <a href="http://andreiaway.blogspot.com/2013/06/sicuro-di-voler-tornare-in-italia.html">come funzionano le cose da quelle parti</a>). Infine, se si impuntano a non far uscire Laura e non mi lasciano tornare indietro, diciamo "Grazie, arrivederci." Laura torna indietro e prova a passare il confine domani mattina, mentre io l'aspetto ad Hekou, in Cina.</div>
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La cosa va avanti a lungo. Di noi si occupa un agente più giovane, che parla inglese e ha un'aria distinta. Porta gli occhiali e la sua divisa è più ordinata, meglio stirata. Fa diverse telefonate, ispezionando di continuo i nostri passaporti. Poi ci interroga rispetto ai nostri dati personali e ai nostri spostamenti, per confrontarli con le informazioni registrate sui passaporti. Fa altre telefonate, altri controlli. Infine ci fa spostare di nuovo nei pressi dei terminal e ci fa aspettare ancora. Lì ci rendiamo conto che questi problemi di passaporti sono un vero e proprio business. Altri turisti che erano sul treno con noi sono in attesa di capire quale sia il problema. A diversi cinesi, che fanno avanti e indietro per questa frontiera, hanno "dimenticato" di mettere il timbro di entrata e ora, se vogliono tornare a casa, devono "sistemare le cose".</div>
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Non so perché, ma a noi alla fine non chiedono soldi. Fanno il loro lavoro con scrupolo, ci fanno aspettare molto (e su questo non ho nulla da obiettare, i nostri passaporti sono effettivamente rovinati), ma poi ci lasciano andare.</div>
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Tiriamo un sospiro di sollievo e ci avviamo al prossimo controllo. Anche questo è lento e scrupoloso, fatto di domande incrociate e controlli ripetuti. Ma l'atteggiamento è molto diverso, decisamente più accogliente.</div>
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Facciamo i primi passi sul suolo cinese, lungo una strada che costeggia il fiume che divide la Cina dal Vietnam. Sarà solo una suggestione, ma mi sembra che da questo lato della linea si respiri un'aria diversa. A cominciare dal fatto che non c'è nessuno ad aspettarci, a offrirci passaggi, stanze, gite organizzate... Qui di turisti se ne vedono pochi (sono sicuro che siamo gli unici due "bianchi" in città) e la gente è curiosa. Non ti assale pensando di sapere esattamente cosa cerchi per offrirtela a prezzo <i>cheap</i> (cioè il doppio del prezzo che un locale considererebbe onesto). </div>
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Dei ragazzini scoppiano petardi sul marciapiede lungo il fiume, le famiglie mangiano sui tavoli all'aperto dei ristoranti, uomini e donne passeggiano. Nella piazza antistante il nostro albergo una decina di persone ballano a ritmo di musica cinese, mentre ragazzi e ragazze sfrecciano sui motorini, diretti non so dove.</div>
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Sarà una suggestione, ma mi piace. </div>
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Unknownnoreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-59612328275473565122013-06-28T04:42:00.001-07:002013-07-13T05:21:32.083-07:00Sicuro di voler tornare in Italia?<div class="mobile-photo">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEik8IsC03KmcGNSdVerOXyEicVo-hu2N0QypkV1RPBpHp5-cwpcILh6IU8921vne7COcq14VyWaIqDtibR9_Hqw9CvstjYUcewrwPF85aVMGrlPq8ZlK79sQiHxUeV8tldoG-x1qk0eAlhW/s1600/pagina+passaporto-766493.JPG" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img alt="" border="0" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5894498016595706418" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEik8IsC03KmcGNSdVerOXyEicVo-hu2N0QypkV1RPBpHp5-cwpcILh6IU8921vne7COcq14VyWaIqDtibR9_Hqw9CvstjYUcewrwPF85aVMGrlPq8ZlK79sQiHxUeV8tldoG-x1qk0eAlhW/s320/pagina+passaporto-766493.JPG" /></a></div>
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Poco tempo fa un vecchio amico mi chiedeva via e-mail se fossi proprio sicuro di voler tornare in Italia e se non temessi, una volta in patria, di ritrovarmi a dire: "Ma io qui che ci sto a fare?" Io rispondevo che sì, ero sicuro di voler tornare perché ogni posto in cui ero stato nascondeva i suoi guai e che, vista da fuori, l'Italia non è poi tutta una merda. Aggiungevo però che rimandavo il mio giudizio al momento in cui sarei effettivamente tornato, perché il mio punto di vista poteva anche essere distorto dalla nostalgia.</div>
<div style="text-align: justify;">
Evidentemente doveva proprio essere la nostalgia, perché mi è bastato passare un'oretta all'ambasciata italiana di Hanoi per ricordarmi di che pasta è fatto il mio paese.</div>
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<br /></div>
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All'ingresso ci accoglie un uomo sui quarantacinque, dall'accento campano, gentilissimo. "Prego, venite avanti" dice uscendo dalla guardiola. Lo segue un ragazzo giovane in divisa, dal sorriso timido.</div>
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"Oh, finalmente un carabiniere!" mi scappa di dire, sinceramente contento di vedere colori familiari. (La lontananza fa brutti scherzi, riescono a mancare anche le cose più strane.)</div>
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"Due carabinieri!" precisa quello più anziano, che però veste con pantaloni larghi, una camicia a maniche corte e una borsa a tracolla. "Allora, ditemi, come vi posso aiutare?"</div>
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Gli spieghiamo che ci restano solo due pagine libere sul passaporto e che, quindi, ce ne serve uno nuovo, dato che siamo diretti in Cina, Mongolia e Russia e che ciascuno di quei paesi chiede almeno due pagine libere, per il visto e per i timbri. L'uomo ci parla con un calore che sento sincero, dice che non dovrebbe essere un problema, che di solito ci vogliono una decina di giorni per ottenere il nulla osta dall'Italia.</div>
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Prima di entrare per parlare con l'incaricata scambiamo due parole. L'uomo vive qui da due anni e mezzo e sa parlare il vietnamita. Non lo dice direttamente, ma capisco che è assolutamente contento di vivere qui. Dice che ci invidia un po' per il viaggio che stiamo facendo, che è sempre stato anche il suo sogno stare in giro tanto tempo, perché quello è l'unico modo per conoscere davvero il mondo. Io gli rispondo che lavorare all'estero come fa lui è anche meglio dal punto di vista della conoscenza, e lui riconosce che ho ragione. Poi indica il suo giovane collega, che ci ascolta sulla soglia della guardiola "Lui è appena arrivato invece". Il ragazzo è al suo primo giorno di servizio. Fa una faccia disperata, dice "Mi mancano ancora 50 giorni per tornare a casa!"</div>
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Il carabiniere più anziano ci accompagna in una piccola sala d'attesa e avvisa l'incaricata della nostra presenza.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Arriva subito" dice.</div>
<div style="text-align: justify;">
Noi ci sediamo, assolutamente fiduciosi, e aspettiamo di essere ricevuti.</div>
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<br /></div>
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Dopo 45 minuti si affaccia alla porta una donna italiana.</div>
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"Qual è il problema?" chiede, senza invitarci a entrare.</div>
<div style="text-align: justify;">
Glielo spieghiamo. A metà del discorso la vedo scuotere il capo.</div>
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"Ma voi siete iscritti al registro degli italiani all'estero?" chiede.</div>
<div style="text-align: justify;">
"No..." diciamo in coro io e Laura. Il sorriso ci si spegne in faccia.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Ah, no no no," attacca lei "noi non rilasciamo passaporti ai non residenti in Vietnam. Abbiamo troppo lavoro. Al limite possiamo farvi un documento di viaggio fino alla prossima destinazione o per rientrare in Italia."</div>
<div style="text-align: justify;">
Chiusura totale, atteggiamento teatrale. Si aspetta che ce ne andiamo, si comporta come una che è stata fin troppo paziente con due testimoni di Geova, sulla porta di casa sua, la domenica mattina. Io insisto, voglio capire.</div>
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"Ma a queste cose bisogna pensarci prima," dice lei "prima di partire!" Senza conoscerci minimamente ci tratta come fossimo idioti, due sprovveduti rimasti schiacciati con la macchina sotto la sbarra di un passaggio a livello.</div>
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Le faccio notare che siamo in viaggio da quasi due anni, che siamo partiti con due passaporti nuovi di zecca. Lei non sembra prendere in considerazione nulla di quanto le diciamo, ripete che hanno troppo da fare, che noi non ci rendiamo conto della mole di lavoro, tanto più che sta iniziando la stagione turistica e c'è un sacco di gente che ha bisogno di assistenza. Laura le fa notare che due di quei turisti bisognosi d'aiuto ce li ha proprio di fronte in questo momento.</div>
<div style="text-align: justify;">
Per togliersi d'impiccio l'impiegata decide di chiamare la responsabile, un'altra italiana, che ci raggiunge nella sala d'aspetto. Nel frattempo entra un signore, un altro italiano, che ha un appuntamento proprio con lei.</div>
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"Mi libero dei signori e sono subito da lei" dice la nuova venuta in tono cordiale. Non avrebbe potuto scegliere una frase più infelice e appropriata.</div>
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Ci ripete, in sostanza, la stessa tiritera: niente passaporti per i non residenti, hanno troppo da fare, soprattutto in questi giorni... Io a questo punto me ne andrei anche. Deluso e arrabbiato, ma me ne andrei. Ma alla responsabile scappa di aggiungere in tono paternalistico che uno a queste cose ci deve pensare per tempo. Ripeto anche a lei che siamo in giro da molto tempo.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Ah," dice inarcando le labbra e facendo roteare la mano "beati voi!"</div>
<div style="text-align: justify;">
"Guardi che i soldi ce li siamo guadagnati lavorando!" dice Laura, indignata. Noi... vorrei precisare io.</div>
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Non ci vedo più dalla rabbia. Le dico che se non possono aiutarmi mi sta anche bene, anche se è assurdo che un italiano all'estero non possa contare sulla propria ambasciata, ma che non si permetta di farci la ramanzina sull'essere previdenti.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Noi ci pensiamo per tempo" le dico "tant'è che siamo qui all'ambasciata da Hanoi ora per non rimanere bloccati a Pechino tra un mese. Ma purtroppo essere previdenti non basta, visto che a volte si incontrano problemi di questo tipo." Punto l'indice verso di lei e la sua collega.</div>
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Non so perché, ma invece di incazzarsi la tipa si ammorbidisce un poco. Ovviamente quella di Hanoi resta l'ambasciata più intasata del mondo, ma a quanto pare la richiesta per un nuovo passaporto si potrebbe fare, ma solo in caso di emergenza.</div>
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"Ma voi ce l'avete un biglietto aereo?" chiede la responsabile.</div>
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"No." rispondo, ormai deciso ad andarmene sbattendo la porta.</div>
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Lei sgrana gli occhi come se avessi bestemmiato e sputato in un tabernacolo.</div>
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"Ma scusate, voi viaggiate e non avete neanche un biglietto aereo?"</div>
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"Sa com'è, esistono i treni..."</div>
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"Se aveste i biglietti aerei che lo giustifichino potremmo avviare una procedura di emergenza. Lo abbiamo fatto una volta per un ragazzo che stava facendo il giro del mondo. Sapete, lui non poteva aspettare."</div>
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"Perché, noi che cosa stiamo facendo, scusi?"</div>
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"Sì, ma ci vogliono i biglietti dell'aereo." dice, barricandosi dietro la nuova barriera burocratica.</div>
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<br /></div>
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Se c'è una cosa che mi fa incazzare sono le regole non chiare, e la gente che gode del proprio piccolissimo potere per creare problemi anziché risolverli. Dal mio punto di vista, o si può o non si può. Se c'è una procedura, deve essere quella per tutti. Faccio notare alla funzionaria che dal non si può siamo passati al si può in certi casi, per certe persone e a loro discrezione.</div>
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"A quanto pare" aggiungo "noi non rientriamo nella schiera dei fortunati. Arrivederci."</div>
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"Quando ripartite voi?" dice mentre apro la porta per uscire.</div>
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"Il nostro visto scade il tre luglio." le risponde Laura.</div>
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"Se volete potete fare la richiesta, ma non vi garantisco che facciamo in tempo."</div>
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"Questa mi sembra già una risposta" dico. La responsabile dice all'impiegata di consegnarci i moduli e torna al suo lavoro. Ci faranno sapere loro se e quando avranno ottenuto il nulla osta.</div>
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"Ma di dove siete voi?" chiede l'impiegata.</div>
<div style="text-align: justify;">
"Di Milano!"</div>
<div style="text-align: justify;">
"Uuuh, Milano è anche peggio di Napoli. Ci mettono una vita!"</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
Usciamo dall'ambasciata furiosi, ci riversiamo in strada come un fiotto d'acqua da un tubo appena scoppiato. Laura prende a calci le cartacce per strada e inveisce, rossa in volto. Io sono troppo arrabbiato per manifestare qualsiasi emozione. Entrambi pensiamo la stessa cosa: probabilmente non avremo i nostri passaporti in tempo, ma chi se ne frega. Una soluzione si trova sempre e noi la troveremo a Pechino, o a Ulan Bator. Il problema è l'Italia, è casa nostra. Perché questa non è un'eccezione, un caso sfortunato: questa è una storia italiana, una situazione-tipo che entrambi abbiamo già vissuto, mille volte. Una gran tristezza ci assale mentre camminiamo guardando l'asfalto. Non sentiamo più nemmeno i clacson e il rombo acuto dei motorini lungo la strada. Pensiamo all'Italia. </div>
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-35200434240081160772013-06-27T06:53:00.001-07:002013-07-13T05:22:28.379-07:00I tunnel di Cu Chi<div class="mobile-photo">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEguvLwzVYoEOW0bGAArN9000MPBshclqZP-GY2TMr7qdLz2ulmICE0uz492CPQPbcuE81laNdz5x9YmutwykeXAykN_GFydoGC5_VjvnKp1nhYveCDBxFH8qElW_0spk7f1AvgmTDXpIeKf/s1600/munizioni+in+vendita-786400.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img alt="" border="0" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5894160521175465282" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEguvLwzVYoEOW0bGAArN9000MPBshclqZP-GY2TMr7qdLz2ulmICE0uz492CPQPbcuE81laNdz5x9YmutwykeXAykN_GFydoGC5_VjvnKp1nhYveCDBxFH8qElW_0spk7f1AvgmTDXpIeKf/s320/munizioni+in+vendita-786400.jpg" /></a></div>
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Poco distante dalla città di Saigon si trova Cu Chi, un' area percorsa da centinaia di chilometri di tunnel sotterranei, costruiti inizialmente dai Viet Minh durante la guerra di liberazione contro i francesi (1945-1954) e poi ricondizionati e ampliati in occasione della nuova guerra di liberazione, quella contro gli americani, combattuta tra il 1960 e il 1975. Si tratta di una complessa rete di gallerie, costruite su tre livelli di profondità, che consentivano ai VietCong di muoversi senza essere visti, di far muovere informazioni e rifornimenti e, infine, di sopravvivere alla schiacciante superiorità di mezzi dei nemici, che bombardavano innanzitutto per via aerea. Sotto terra si trovavano anche ospedali, depositi di armi, dormitori, cucine... A garantire la quantità d'ossigeno necessaria erano una serie di condotti che collegavano le gallerie con la superficie.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Per noi tutto inizia quando troviamo, in una stanza d'albergo in Cambogia, un libro abbandonato. Si intitola "The tunnels of Cu Chi". Laura lo legge, mi racconta quello che viene a scoprire, ed entrambi veniamo incuriositi da quella storia. Decidiamo di andarci.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm;">
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Per pigrizia facciamo l'errore di prenotare una visita guidata ai tunnel direttamente dall'albergo, a Saigon. Le visite guidate hanno di solito un ritmo imposto, in genere si è in molti e ci si affolla tutti insieme intorno ad uno stesso oggetto. E poi manca il silenzio, necessario a far lavorare l'immaginazione, per poter ricreare nella propria mente situazioni passate, fatti accaduti in quel determinato luogo. Comunque ormai è fatta, vada come vada. </div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Viene a prenderci un ragazzo magro dagli occhi affilati che sarà la nostra guida per la giornata e ci accompagna attraverso il vicolo fino alla strada principale, dove ci aspetta un bus già riempito di altri turisti di diverse provenienze.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Siamo una trentina di persone. La guida dice di chiamarsi Em: "Da non confondere con Am! Non mangiatemi per favore!" dice, prendendo un piglio sarcastico che manterrà per tutto il tempo.</div>
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<br /> </div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Mentre fa i biglietti per tutti, lo aspettiamo in una sala le cui pareti sono percorse da fuciliere piene di armi da guerra, prevalentemente di fabbricazione americana e cinese. Carabine, mitragliatrici, lanciagranate e altra artiglieria lasciata sul terreno dai soldati durante la guerra. Em ci raggiunge pochi minuti dopo: "Scegliete la vostra preferita!" dice "AK47? Come John Rambo? Ta-ta-ta-ta-ta."</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Dopo aver visto un video documentario dal sapore propagandistico, datato 1967, che illustra la vita dei soldati rivoluzionari e la collaborazione dei civili nella lotta armata, ci spostiamo all'imbocco di uno dei tunnel. Em indica un punto sul terreno dove non vedo altro che foglie e terra: nessun buco, nessun segno visibile. Poi muove alcune foglie col piede e scopre una piccola botola di legno rettangolare, non più lunga di 40 cm e larga 30. La apre e spiega che quella è un'entrata "standard", ovvero che è stata lasciata delle misure originali e non allargata per meglio consentire le visite turistiche. Chiede se qualcuno se la sente di provare ad entrarci e a chiudere il coperchio dietro di sé. Dentro non si vede altro che una biforcazione e poi il buio, in entrambe le direzioni: sembra la tana di una talpa. "Il volontario deve essere magro," spiega, "a misura di vietnamita." Poi prepara un'altra frecciata: "I GI, i soldati americani, rimanevano bloccati quando cercavano di entrare nei tunnel perché erano grassi." Simula una pancia gonfia con le braccia. "Gli piaceva troppo fumare la marjuana, e la marjuana mette fame." </div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Un rumore molto simile a uno sparo in lontananza mi distrae, poi un altro e un altro ancora. "Hai sentito?" chiedo a Laura. Lei non l'ha sentito, e io mi sto sicuramente sbagliando. Deve essere una suggestione dovuta al luogo in cui mi trovo e ai troppi film spazzatura che Hollywood ha dedicato al tema e che io mi sono sorbito da bambino.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Proseguiamo attraverso le trappole atroci che i VietCong nascondevano per impedire ai loro nemici di trovare i tunnel: vecchie gabbie per tigri, buche con una varietà di spuntoni in bambù (o in metallo recuperato dai detriti delle bombe americane) che andavano a conficcarsi in diverse parti del corpo a seconda del tipo. I malcapitati rimanevano così bloccati e feriti, finché i VietCong non andavano a recuperarli per portarli nelle prigioni e trasferirli poi ad Hanoi, nel Nord.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Riprendiamo a camminare attraverso un bosco di alberi della gomma, che tra l'altro a quel tempo non c'era. Non un albero era rimasto, solo terra bruciata, grazie ai bombardamenti al Napalm e agli agenti chimici a base di diossina usati dai GI. </div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Ci avviciniamo ad un carro armato americano, probabilmente danneggiato da una mina anticarro, e sento di nuovo gli spari. Una vera e propria mitragliata questa volta, e molto vicina. E poi altri spari ancor più vicini, finché non arriviamo alla sorgente di quel rumore e io rimango a bocca aperta: c'è una cava di terra rossa alla cui estremità sono sistemate diverse armi: gli AK47 vanno per la maggiore, ma c'è anche un M16 montato su un cavalletto, a bordo di una Jeep dell'esercito americano. Capisco che Em non scherzava quando diceva "Scegliete la vostra preferita". Per una cifra che va dai 20.000 ai 40.000 VND (da circa 1 a 2$) è possibile sparare con una di quelle armi. Solo uno di noi, un australiano, lo farà. Mi avvicino incuriosito: non mi aspettavo proprio di trovarmi in una sorta di parco dei divertimenti. Una raffica di mitra mi assorda e devo portarmi le dita alle orecchie: era un italiano a sparare, ed ora se ne va col figlio in adulazione sottobraccio. "Papà, com'era?" </div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
La situazione è paradossale: in un luogo in cui un'atroce guerra d'aggressione ha avuto luogo, turisti occidentali provenienti da quello stesso mondo un tempo sconfitto impugnano quelle stesse armi per gioco, sotto gli occhi annoiati dei locali. Quegli stessi locali che hanno organizzato tutto, e che ora ne ricavano profitti. </div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Il nostro australiano divarica le gambe nude una davanti all'altra, avvicina un occhio al mirino, si concentra. Poi fa fuoco, sembra soddisfatto. Un soldato vietnamita, responsabile di quell'arma, lo guarda con un'espressione incolore ad una distanza di un metro. Si avvicina per ricaricare il fucile, senza dire una parola, poi torna al suo posto. Ho la sensazione che tutto questo non gli piaccia affatto. Quanto a me, che ho fatto obiezione di coscienza, perdo volentieri l'occasione di impugnare un'arma per la prima volta.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Lasciato il rustico poligono di tiro, entriamo finalmente in uno dei tunnel, nel quale sono stati allargati gli ingressi e sistemate alcune fioche luci. Facciamo un tratto di soli 100m, ma ne esco con le gambe a pezzi e fradicio di sudore. Penso ai VietCong, che a volte ci rimanevano per mesi senza uscire. Le donne ci partorivano, i malati ci morivano. C'era perfino una compagnia di teatro che girava per i tunnel intrattenendo i soldati, cercando di tenerne alto l'umore facendo la parodia degli americani.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Em si guarda bene dall'accompagnarci sotto terra e ci aspetta dall'altra parte. "Se volete continuare a camminare" dice "da quella parte potete sbucare fino in Cambogia! E pensate" continua " che una parte dei tunnel si trovava proprio sotto una delle basi americane. Loro cercavano Charlie, e ce l'avevano sotto al culo!" Continua poi raccontando che a volte i VietCong si travestivano da civili e si avvicinavano alle basi americane. "Ma non per spiare, per ascoltare la musica!" Mi domando se questo ragazzo abbia un motivo per essere così spietatamente sarcastico nei confronti degli sconfitti americani, o se sia solo orgoglio patriottico. Gli chiedo se abbia avuto qualche parente coinvolto nella guerra e lui mi dice di sì. Suo padre. Ma non stava coi VietCong, stava con l'esercito sud vietnamita, e quindi ha combattuto <i>con</i> gli americani. Ora sì che sono confuso.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm;">
<br /> </div>
<div style="margin-bottom: 0cm;">
<a href="http://en.wikipedia.org/wiki/Cu_Chi_tunnels">http://en.wikipedia.org/wiki/Cu_Chi_tunnels</a> </div>
Unknownnoreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-34988698845257566002013-06-26T22:24:00.001-07:002013-06-26T22:24:21.022-07:00Benvenuto in Cina, ma non dirlo a nessunoSiamo finalmente in Cina. Welcome! ci hanno detto in tanti, fin dalla frontiera di Hekou. Ero così entusiasta che volevo raccontarvelo subito, ma ho scoperto che la piattaforma Blogger rientra tra quelle censurate, insieme a Facebook, Twitter, Youtube e compagni. Vabbè, troverò una soluzione. (Tra l'altro, se state leggendo questo post e vi risulta intelligibile, vuol dire che forse una soluzione l'ho già trovata...)<div> <br></div><div>A presto</div> Unknownnoreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-79301779946087336092013-06-19T05:00:00.001-07:002013-06-19T05:00:46.565-07:00L'agente Orange per le strade di Saigon<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjXtvPqxkomffHQBBbqTcNPrbTvcTbsjAkQUAOezEKUZySdAmFh0RnIjtHQGIX_PBxQttdJcJ6gTpG3au3wJqO1Kgieqja1X8H5jr1-NHOcT3zU8Q4ZkmDrn2Us7e1PIZI9ivXyHZa1TX8w/s1600/vietnam+agent+orange.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjXtvPqxkomffHQBBbqTcNPrbTvcTbsjAkQUAOezEKUZySdAmFh0RnIjtHQGIX_PBxQttdJcJ6gTpG3au3wJqO1Kgieqja1X8H5jr1-NHOcT3zU8Q4ZkmDrn2Us7e1PIZI9ivXyHZa1TX8w/s320/vietnam+agent+orange.jpg" width="223" /></a></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Stamane
l'ennesimo piccolo grande contrattempo mi ha guastato la giornata. Ora cammino per le strade di Saigon accanto a Laura, con le spalle
curve più del solito, come avessi addosso chili di abiti bagnati.
Dopo essere stati all'ambasciata cinese (e aver scoperto che per
varie ragioni non possiamo ottenere il visto qui, ma “forse ad
Hanoi sì”) abbiamo fatto due calcoli sui paesi che ci mancano da
attraversare e ci siamo resi conto che i nostri passaporti non hanno
abbastanza spazio libero per i timbri. Questo vuol dire guai, noie
burocratiche che vanno a complicare un quadro già abbastanza
incasinato per ottenere i visti stessi. Laos, Cina, Mongolia e Russia
(questo l'itinerario che avremmo in mente prima di rimettere piede in
Europa) pretendono almeno due pagine vergini a testa sul passaporto,
mentre noi ne abbiamo due in tutto. Questo vorrebbe dire arrivare in Laos e
poi rimanere bloccati, visto che a Vientiane non c'è un'ambasciata
italiana in cui chiedere un nuovo documento.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“Hai detto qualcosa?” mi chiede
Laura.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“Non ho aperto bocca.” rispondo
bruscamente.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
In realtà stavo mugugnando tra me e
me, mandando maledizioni ai quei bastardi dei poliziotti di frontiera
(messicani, australiani e statunitensi in prima fila) che nell'ultimo
anno e mezzo, con lo scazzo proprio di chi non aspetta altro che
tornare a casa ad accendere la televisione, hanno messo timbri a caso
sul mio passaporto ancora nuovo, portandosi via intere pagine che ora
sarebbero preziose.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Ci sediamo al tavolo di un
ristorantino, in un vicolo affollato di venditori, motorini
parcheggiati e viandanti. Ordiniamo due piatti di noodles e non
diciamo una parola. Mentre aspettiamo i nostri piatti inizia a
piovere, come succede ogni giorno quasi sempre alla stessa ora (siamo
agli inizi della stagione delle piogge) e io, che sono seduto di
fronte a Laura, con le spalle al vicolo, devo spostarmi e andare a
sederle accanto per poter stare sotto la tettoia. Mangiamo in
silenzio guardando la pioggia che scende e la gente che passa,
avvolta nelle mantelle di plastica colorate. Di fronte a noi,
dall'altro lato del vicolo, un uomo è seduto a terra nel suo
minuscolo negozio e gioca coi suoi due figli piccoli. Di tanto in
tanto si affaccia un avventore per comprare una bottiglia d'acqua o
una birra, e allora lui si tira su con la forza delle braccia,
appoggiandosi all'espositore di vetro pieno di saponette e
deodoranti. Ha le gambe corte, sottilissime, e un piede girato in una
posizione innaturale che non gli permette camminare. È uno dei
tanti, e tra i più fortunati, che a oltre trent'anni dalla fine
della guerra contro gli americani ancora pagano le spese dell'uso di
armi chimiche. Il cosiddetto “Agent Orange” in particolare, usato
dagli americani per fare “terra di nessuno” grazie all'azione
devastante della diossina.* A questa schiera impressionante di
deformi, che si incontrano ad ogni angolo di strada, si uniscono le
migliaia di mutilati che, anche dopo la fine della guerra, hanno
lasciato le gambe e qualche volta le braccia sul terreno a causa
delle mine.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Col piatto ormai vuoto, aspettiamo in
silenzio che spiova, ma venti minuti più tardi dobbiamo deciderci ad
alzarci, visto che non accenna a diminuire. Attraversiamo in un balzo
il vicolo, schivati all'ultimo da un motorino in transito, e
compriamo nel piccolo negozio dell'acqua e una bevanda al cioccolato
per la colazione di domani. L'uomo ci dà il resto e ci saluta con un
sorriso, poi si risiede a terra accanto ai figli. Noi camminiamo muro
muro cercando riparo sotto le tende parasole dei negozi, ma quasi
sempre ci ritroviamo in mezzo alla strada per aggirare mercanzie in
esposizione, tavoli di ristoranti, macchine e motorini parcheggiati
che rendono il marciapiede impraticabile.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Infine viene la parte più difficile:
attraversare la strada. Aspettare non serve a niente: non ci sarà
mai un momento in cui il flusso del traffico (un fiume di migliaia di
motorini) smetterà. Il trucco è iniziare a camminare lo stesso,
senza fare l'errore di fermarsi o esitare, e aver fiducia nel
principio di autoregolazione del flusso.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br />
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br />
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
*Si stima che tra il 1961 e il 1971
siano stati gettati sul territorio del Vietnam del Sud circa 77
milioni di litri di diserbanti, nell'ambito dell'operazione americana
“Ranch Hand”, mirata alla distruzione della vegetazione nella
quale i Vietcong si nascondevano. Di questi, 49,3 milioni di litri
erano di Agent Orange e contenevano più di 360 Kg di diossina,
distribuita a più riprese su oltre 2,6 milioni di acri. Anche i
soldati americani (e australiani, neozelandesi, sud-coreani e
vietnamiti dell'esercito “regolare”) hanno subito l'esposizione
all'Agent Orange, ma i civili sudvietnamiti hanno continuato – e
continuano – a pagarne le spese negli anni a causa della profonda
contaminazione del terreno. Secondo diversi studi scientifici vi
sarebbe una correlazione diretta tra l'uso dell'Agent Orange e le
malformazioni alla nascita.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Agente_Arancio">http://it.wikipedia.org/wiki/Agente_Arancio</a>
</div>
<br />
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<a href="http://ije.oxfordjournals.org/content/35/5/1220.full">http://ije.oxfordjournals.org/content/35/5/1220.full</a>
</div>
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-11181210454142222092013-06-16T09:24:00.000-07:002013-06-23T07:03:59.100-07:00In Cambogia non portarmi a vedere i sassi<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhWAuyGKiH08jQKgC2x98B45hihSX6Lg0YjP2JWedNYIfCJpBC0q1x3BXy3Q4rWZrE9fAhyNpUZPYTHn3gFWN51tdZ-0-SaBEMThGqnGIUMXN65O6eAlVxAqoZ9-JzlUj69b6N0Lv17Vb0U/s1600/IMG_9668.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhWAuyGKiH08jQKgC2x98B45hihSX6Lg0YjP2JWedNYIfCJpBC0q1x3BXy3Q4rWZrE9fAhyNpUZPYTHn3gFWN51tdZ-0-SaBEMThGqnGIUMXN65O6eAlVxAqoZ9-JzlUj69b6N0Lv17Vb0U/s320/IMG_9668.JPG" width="320" /></a></div>
“Io in Cambogia voglio andare ad
Angkor.” mi aveva detto Laura. Io come al solito non avevo voglia
di fare ricerche e non avevo idea di cosa si trattasse, quindi ho
detto che mi stava bene. Chi non si informa si arrangia, giusto?
Avremmo dovuto fare una piccola deviazione verso nord per poi
continuare a scendere in direzione Phnom Penh, dove ci saremmo
fermati per le solite seccature burocratiche, in questo caso il visto
per il Vietnam. Poi però, come sempre all'ultimo, non me la sono
sentita di arrivare in un posto di cui non sapevo assolutamente
nulla, e ho fatto le mie ricerche...</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“No! I sassi no!” dico appena
capisco a cosa vado incontro.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“Non ricominciare, non sono sassi.
Sono rovine.”</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“Che poi, alla prova dei fatti, sono
sassi transennati. E per giunta rovinati, lo dice la parola stessa.”</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“No invece! Sono luoghi in cui si è
fatta la storia, in cui rimane la testimonianza di civiltà passate.”</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Non voglio avere ragione, non posso. Ma
è più forte di me: mi annoio a morte in giro per rovine, monumenti
e musei archeologici. Sarà perché di architettura non capisco
niente, di arte nemmeno. Sarà che la mia preparazione in storia
pre-coloniale è pari a zero.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Angkor Wat si rivela poi essere un
maestoso tempio indù, fatto costruire dal re khmer Suryavarman II
tra il 1113 e il 1150. Si trova immerso nel verde, insieme a numerosi
altri templi che insieme formano il sito archeologico di Angkor. Ha
un perimetro di 3,6 km, è formato da tre gallerie rettangolari
concentriche ed è circondato da un enorme fossato pieno d'acqua
verdastra su cui il tempio stesso si riflette. C'è gente che ci
arriva prima dell'alba e poi vi rimane fino al tramonto, per poterlo
fotografare con la luce migliore.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Per arrivarci da Siem Reap, la città
in cui alloggiamo, dobbiamo ingaggiare un autista per tutto il
giorno. Non c'è altra scelta, ci dicono, funziona così e basta.
L'autista ci accompagnerà di tempio in tempio e ogni volta ci
aspetterà fuori, anche per ore, seduto all'ombra della carrozza del
suo <i>tuk tuk</i>. Appena ci fa scendere davanti ad Angkor Wat
rimango affascinato dalla sua imponenza solitaria ed equilibrata,
dalla sua forma simmetrica ma per niente spigolosa. Ci incamminiamo
lungo il ponte che attraversa il fossato, ma a metà strada dobbiamo
rifugiarci per dieci minuti sotto un chiosco di informazioni
turistiche dal tetto di foglie di palma. Piove a dirotto.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
La magia, per quanto mi riguarda,
svanisce in fretta quando mi trovo accalcato insieme a centinaia di
turisti chiassosi e a gruppi di giapponesi in posa per farsi
fotografare ad ogni angolo e... ad ogni sasso. Come puoi godere
dell'atmosfera di un luogo simile con tutto questo casino? Poi
finalmente imbocchiamo un corridoio silenzioso, dove ci accoglie un
vecchio. Ci mette in mano dei bastoncini d'incenso e ci guida verso
la statua di una divinità indù, davanti alla quale, con modi
bruschi, ci fa cenno di inginocchiarci. Dice delle preghiere, credo,
poi ci chiede di toccare la statua. Infine solleva un panno rosso
alla base, scoprendo una banconota da 10 dollari, chiaramente
invitandoci ad aggiungerne un'altra uguale. Questo è troppo, mi
girano veramente le palle.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
A fine giornata siamo entrambi stanchi.
Siamo contenti di farci portare a casa e lasciare libero con anticipo
il nostro bravo e silenzioso autista, che per scrupolo ci chiede se
siamo sicuri di non voler aspettare il tramonto.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Ok, forse Angkor Wat (e il Colosseo, i
templi greci...) non è solo un ammasso di sassi, ve lo concedo. Ma
se guardo indietro al nostro viaggio, i luoghi che più hanno
suscitato il mio interesse sono stati quelli trovati per caso. Quelli
in cui ci siamo fermati per una notte mentre eravamo diretti altrove,
come <a href="http://andreiaway.blogspot.com/2012/05/panajachel-san-cristobal-e-semuc.html" target="_blank">San Cristobal</a> in Guatemala o <a href="http://andreiaway.blogspot.com/2013/06/phatthalung-thailandia-avventure-in-un.html" target="_blank">Phatthalung </a>in Thailandia. Posti in
cui non c'è assolutamente nulla “da vedere”, eppure c'è un
mondo in carne e ossa da scoprire. Là dove la gente è spaesata
quanto te nell'incontrarti, perché non è abituata a relazionarsi
con gli stranieri. In quei posti non esistono due mondi paralleli:
quello in cui vive la gente normale e quello dorato (e salato)
inventato apposta per i turisti. Lì nessuno ti aspetta fuori dalla
stazione per proporti soluzioni facili, con l'intenzione di tenerti
dentro la bolla del turismo, in un'enclave invisibile che ha poco a
che fare con la realtà del posto in cui ti trovi. E Angkor Wat è
servita a ricordarmi la lezione: i sassi proprio non mi interessano.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Comunque è andata, sono sopravvissuto
un'altra volta. Dopo una breve escursione in <i>tuk tuk</i>
attraverso i villaggi di palafitte intorno a Siem Reap, dove i
bambini giocano nudi in strada e gli uomini si radunano nell'ombra
scura dei bar, si riparte per Phnom Penh, dove rimaniamo alcuni
giorni in un triste albergo accanto alla stazione dei bus, in attesa
che i visti vietnamiti siano pronti. Ammazziamo il tempo passeggiando
per una città grigia, caotica e deprimente. O forse siamo noi che
siamo sulla via della depressione, anche se non manchiamo di
sorridere quando, sul largo spiazzo pedonale sulla riva del Mekong,
ci troviamo di fronte a decine di persone che si muovono a ritmo di
musica, seguendo i movimenti del maestro di aerobica. C'è la giovane
donna in tenuta ginnica, l'anziano col cappello, l'uomo d'affari
appena uscito dall'ufficio e una serie di altri divertenti
stereotipi. E pensare che al Parco Sempione la gente fa taiji!
</div>
<br />
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Quella stessa sera, per disperazione,
compriamo un pacco di pasta e la cuciniamo sul fornello elettrico
nella nostra stanza. Non ne possiamo più di riso e noodles, e da
queste parti non si trova altro (nemmeno il McDonald!). Di sicuro a
stare in Indocina si diventa più magri. Un po' per il caldo
tropicale che toglie l'appetito, un po' per la scarsezza delle
porzioni (e della scelta dei cibi), farsi un giro da queste parti può
essere una soluzione alternativa alla dieta.</div>
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-84496162652320529842013-06-06T08:03:00.001-07:002013-06-06T08:03:33.152-07:00I guerrieri della thai boxe<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEijKZ9-IWBFZjfHcTgOPSmgve1wjkOTmeH-dNmWbvCPQii2S3R8y11_pyweE_tXja_a0eKTH8EjpGzLP8rU6ZJf3Bkya8uw8GR6Sq-UvG-UZMnqQ2duiMSGusicqOlgXvDhrVeWfc49-zcF/s1600/DSC00752.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEijKZ9-IWBFZjfHcTgOPSmgve1wjkOTmeH-dNmWbvCPQii2S3R8y11_pyweE_tXja_a0eKTH8EjpGzLP8rU6ZJf3Bkya8uw8GR6Sq-UvG-UZMnqQ2duiMSGusicqOlgXvDhrVeWfc49-zcF/s320/DSC00752.JPG" width="320" /></a></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Dovendo parlare di Bangkok, potrei
raccontarvi delle nostre avventure in <i>tuk tuk</i>, i moto-taxi a
tre ruote tipici di queste parti. Allora dovrei dirvi di come sia
difficile ingaggiarne uno per un prezzo onesto senza per questo
doversi sorbire “visite gratuite” a negozianti loro amici, che
pagano loro la benzina in cambio di nuovi avventori. Ci abbiamo
provato:</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
- Noi dobbiamo andare al tempio del
Budda sdraiato, quant'è?</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
- 30 bath.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
- Un prezzo fantastico, dov'è la
fregatura?</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
- Che vi porto anche qui, lì e là.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
- Ma noi vogliamo andare al tempio e
basta...</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
- Allora andate a piedi.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Potrei anche dirvi delle nostre lunghe
camminate (per il motivo di cui sopra), dei nostri su e giù per il
fiume Chao Phraya a bordo del ben più economico ed affollatissimo
traghetto di linea, o della movida notturna del quartiere Banglamphu
fatta di offerte a raffica di cibo, massaggi e spettacoli a luci
rosse.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Potrei anche dilungarmi sul “business
del buddismo”, col suo merchandising, i riti “su offerta” e le
visite guidate ai templi.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Ma la verità è che l'evento più
interessante del nostro breve soggiorno a Bangkok è stato andare a
vedere gli incontri di thai-boxe al Rajadamner Stadium. Nove
incontri, due dei quali terminati con lo sconfitto portato fuori in
barella privo di sensi.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br />
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Il luogo è esattamente quello che un
qualsiasi regista di Hollywood sceglierebbe per girare una scena di
incontri clandestini. Il ring è l'unica parte illuminata, al centro
di tre anelli di tribune, l'ultimo dei quali è privo di sedili e
protetto da una rete metallica.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
All'ingresso ci consegnano una
fotocopia in bianco e nero del programma, in cui sono riportati i
pesi in libbre dei pugili (da un minimo di 100 a un massimo di 165) e
i nomi delle palestre di appartenenza. Tre telecamere riprendono
l'evento, trasmesso in diretta nazionale.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Appena si fanno avanti i primi due
pugili, quattro musicisti muniti di due tamburi, un campanello e una
sorta di corno, iniziano a suonare una musica ossessiva chiamata
Dontree Muay, che durerà per tutta la durata dell'incontro,
facendosi più intensa durante le fasi più cruente.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
I due pugili, dal fisico asciutto e
un'altezza non superiore al metro e settanta, iniziano a girare in
tondo sul ring passando una mano lungo le corde, ognuno per conto
proprio, assorti, come se né l'avversario né il pubblico
esistessero. Poi si fermano ad ogni angolo del ring, facendo una
sorta di inchino. Infine si inginocchiano al centro del quadrato,
flettendo il busto a destra e a sinistra. Si muovono a ritmo della
musica, in quella che è a tutti gli effetti una danza, la Ram Muay,
che racchiude in sé significati magici e scaramantici, oltre che
essere una sorta di stretching. Entrambi indossano il Mongkon, un
amuleto di forma circolare che cinge loro il capo e che i rispettivi
maestri rimuoveranno prima dell'inizio del combattimento, sfiorando
con le labbra il capo dell'allievo nel sussurrare una formula
propiziatoria.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Finalmente ci siamo. La musica smette
d'improvviso e una campana dà il via all'incontro. La musica
riprende e i pugili sembrano di nuovo ballare, questa volta insieme,
con la guardia alta e una delle gambe in avanti, pronta a sferrare il
primo colpo. Il pubblico partecipa urlando, incitando i pugili e
talvolta avvicinandosi all'angolo tra un round e l'altro per dare
consigli.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
All'inizio tutto mi sembra
incredibilmente lento e innocuo, anche quando i due iniziano a
colpirsi sul serio e ad azzuffarsi, prendendosi a ginocchiate
attaccati alle corde. Cambio idea durante il sesto incontro, quando
vedo Muenarkhom, 117,4 libbre, sferrare una gomitata rapidissima
sulla testa di Jeff, 115,4 libbre, e quest'ultimo cadere a terra ad
occhi chiusi. L'arbitro gli toglie il paradenti, i barellieri entrano
e lo sollevano senza che lui dia il minimo segno di vita.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
L'incontro successivo, il settimo, è
quello più atteso. A combattere sono i pesi massimi della
situazione. Nel secondo anello, dietro di noi, gli scommettitori si
scaldano più di quanto non abbiano fatto fino adesso, urlando a
squarciagola, alzando le mani per comunicare agli allibratori le
proprie intenzioni e facendo passare banconote. Quando l'incontro
entra nel vivo, i sostenitori di ciascun pugile urlano all'unisono ad
ogni colpo sferrato, facendo salire la tensione in tutto lo stadio.
Uno di loro inizia a percuotere con la mano un tabellone
pubblicitario attaccato alla balaustra, producendo un suono che
rimbomba nella penombra degli spalti. La musica è quasi scomparsa
nel frastuono generale.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Purtroppo la magia del momento non dura
a lungo. Verso la metà del primo round Trairat mette a segno un paio
di diretti ben assestati e Suwuthlek inizia a barcollare. Tiene duro
per un lunghissimo minuto, ma non appena i colpi dell'avversario lo
raggiungono di nuovo cade a terra e non riesce più a rialzarsi.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Durante i due incontri successivi la
tensione cala un poco, di pari passo col peso dei pugili. Le
scommesse continuano, ma gli animi sembrano più calmi.</div>
<br />
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Alla fine del nono incontro lo stadio
si svuota in fretta e la musica tace. Io rimango incantato ancora per
un po' e mi dirigo a passo lento verso l'uscita, ancora sbalordito
dall'esperienza appena vissuta. Fuori ci aspetta una pioggia battente
e una città da attraversare.</div>
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-33827027491977186802013-06-02T00:37:00.002-07:002013-06-02T00:37:35.721-07:00Phatthalung, Thailandia: avventure in un posto a caso<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjqeUdCBeGoGDT6T7P78UJZ5-RcMnshVRg1Vv5e08jaHufWYui1L_rtkaJCdLoQO36VfOdOkoMBiQiYuCKzP6se_UbsNCtJd8BFgDV1kNiBDKjj4gldkvbIsg6X07KWS1vl4LP9F0Nxxhzx/s1600/DSC00406.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjqeUdCBeGoGDT6T7P78UJZ5-RcMnshVRg1Vv5e08jaHufWYui1L_rtkaJCdLoQO36VfOdOkoMBiQiYuCKzP6se_UbsNCtJd8BFgDV1kNiBDKjj4gldkvbIsg6X07KWS1vl4LP9F0Nxxhzx/s320/DSC00406.JPG" width="320" /></a></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
A Su-Ngai Kolok passiamo accanto ad
alcuni soldati in divisa mimetica che presidiano l'entrata della
stazione. Le mitragliatrici sono la prima cosa che notiamo entrando
in Thailandia e la gente, almeno in questo piccolo paese di
frontiera, sembra aver fatto l'abitudine all'esercito e alle mascelle
serrate dei militari.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Attraversiamo i binari sotto il sole,
camminando su tavole di legno messe a patchwork per dare una parvenza
di passerella. In biglietteria scopriamo che un treno diretto per
Bangkok ci sarebbe, ma ci mette 20 ore ad arrivare a destinazione. Il
che vorrebbe dire passarci l'intera giornata e tutta la notte. L'idea
non ci piace affatto, visto lo stato dei treni che ci sfilano
davanti.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Il bigliettaio indossa una divisa
impeccabile in stile militare, con tanto di cappello. Ma in inglese
sa dire solo i numeri, quindi è difficile spiegargli che, anziché
andare direttamente a Bangkok, vogliamo fare una tappa intermedia.
Non importa dove, ma vogliamo scendere dal treno di pomeriggio. Alla
fine tiriamo fuori la mappa dallo zaino e puntiamo il dito su
Phatthalung (nient'altro che un nome per noi, ma ad una distanza che
sembra essere un quarto della strada per Bangkok). Il bigliettaio ha
capito: “5:00 pm” dice sorridendo.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Credo sia la prima volta che mi
avventuro in un paese senza preoccuparmi di imparare una sola parola,
o senza procurarmi un dizionario. Forse perché mi sento solo di
passaggio, già proiettato in Cina. Forse per pura pigrizia, o magari
per l'arroganza propria di quelli che “con l'inglese vai
dappertutto”. Fatto sta che mi trovo a rimproverarmi per ragioni
etiche e che, presto, me ne pentirò per ragioni pratiche.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Le sei ore in treno sono lunghe come
sei giorni. La carrozza è vecchia di decenni, con le pareti interne
in legno e i sedili spaziosi ma scomodi. Si viaggia con le finestre
aperte,mentre grossi ventilatori in fila al centro del soffitto
girano senza sosta alla massima velocità. Ma né l'una né l'altra
cosa aiutano: finestre aperte e ventilatori non fanno che spararci
addosso raffiche di aria calda, procurandoci uno dei peggiori mal di
testa della nostra vita. Il paesaggio fuori dal finestrino è quasi
sempre verde: foreste interrotte da qualche villaggio o piccola
città. Le moschee della Malesia qui lasciano il posto ai templi
buddisti, coi loro tetti rossi e le statue dorate.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Mentre il treno rallenta, entrando
nella stazione di Phatthalung, un tale sui 50 ci guarda caricare gli
zaini in spalla per dirigerci verso l'uscita del vagone. Ci ripete
per due volte il nome della stazione, evidentemente convinto che
stiamo per scendere alla fermata sbagliata: che cosa ci vanno a fare
due turisti con lo zaino a Phatthalung? Buona domanda.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Quando arriviamo in un posto
sconosciuto, abbiamo una strategia: uno di noi sta fermo in un punto
sicuro con gli zaini mentre l'altro va in esplorazione e alla ricerca
di una sistemazione per la notte. Oggi tocca a me. Appena fuori dalla
stazione mi guardo intorno nel tentativo – vano – di individuare
la scritta “Hotel”. Mi rendo conto che oggi non sarà facile:
tutte le insegne sono in alfabeto Thai. Provo a chiedere in giro, ma
mi rendo conto, con un certo imbarazzo, che nessuno sa una parola
d'inglese. Alcune persone capiscono cosa sto cercando e mi indicano
con le dita strade e svolte da prendere, ma non potendo fare
riferimento alle insegne non ho davanti altro che file di edifici
tutti uguali. Alla fine busso ad una serranda dietro la quale mi
sembra esserci la hall di un hotel. È in realtà una gioielleria, ma
l'errore mi porta comunque alla soluzione, dato che il gioielliere
parla un po' d'inglese (e si compiace di poterlo finalmente fare con
qualcuno).
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
L'albergo ha ampi corridoi e larghe
scalinate. Malgrado le macchie di muffa sulle pareti della stanza e
le bruciature da sigaretta sui mobili, si capisce che deve aver
conosciuto tempi migliori. Comunque poco importa: è solo per una
notte, visto che domani riprenderemo a muoverci verso Bangkok.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br />
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
La prima cosa che mi viene in mente,
appena sganciato lo zaino sul pavimento della stanza, è buttarmi
sotto l'acqua fredda della doccia. E sotto l'acqua fredda della
doccia, un minuto più tardi, mi ritrovo al buio: è saltata la
corrente. Dietro al pallido fascio di luce di una torcia elettrica
(ma perché le pile sono sempre scariche in queste circostanze?)
decidiamo di uscire in cerca di cibo. L'intera città è al buio,
illuminata ad altezza pube dai fari delle automobili e dei motorini.
Attraversiamo le bancarelle del mercato seguendo la corrente: gli
ambulanti continuano ad arrostire carne e la gente continua a
comprarne, come se tutto fosse normale. Come se ci fosse la luce. Sul
marciapiede della via principale prendiamo posto al tavolo metallico
di un ristorante, illuminato da una candela consumata per metà.
Ordiniamo a gesti e onomatopee una zuppa di riso e pollo. Intorno al
nostro tavolo la città continua al buio la sua esistenza ed è
questo fatto, più della mancanza di luce, a rendere la situazione ai
miei occhi surreale. A pochi metri di distanza c'è un passaggio a
livello (che per fortuna continua a funzionare grazie ad un
generatore di emergenza). Le sbarre si chiudono e veniamo investiti
dalla luce rossa intermittente del semaforo, mentre auto e motorini
si accatastano in una fila scomposta e rumorosa. Ripartiranno qualche
minuto dopo in un rombo polifonico, lasciandosi alle spalle l'odore
dei gas di scarico.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br />
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Il mattino seguente cerchiamo il modo
di andarcene con un autobus visto che ieri, al nostro arrivo, abbiamo
scoperto con un certo sconforto che i treni per Bangkok partono solo
di pomeriggio. È stata quindi una pensata inutile quella di fermarci
per riprendere a viaggiare con la luce del giorno ed evitare di farlo
di notte. Consultiamo il tabellone con la mappa della città, appena
fuori dalla stazione. Accanto all'icona del treno, a indicare appunto
la stazione, ce n'è un'altra raffigurante un autobus, ma non è
chiaro dove sia esattamente. Proviamo a chiedere alla gente, ma ci
ritroviamo sempre nella stessa situazione di incomunicabilità. Dopo
vari tentativi una ragazza ci fa capire con qualche parola d'inglese
che il posto che vogliamo raggiungere è lontano e dobbiamo andarci
con la moto. (“Questa è una piccola città,” mi ha spiegato ieri
il gioielliere “non ci sono taxi. Solo moto-taxi.”) La ragazza
chiama uno dei moto-taxisti in attesa fuori dalla stazione e gli
spiega in thai dove vogliamo andare. Il tipo si passa una mano sui
capelli pettinati all'indietro, poi si sistema gli occhiali fumé con
le dita rinsecchite che gli spuntano da un paio di guantini da
ciclista. Sembra venuto fuori da un film italiano degli anni ottanta.
“Sono 100 bath,” traduce per noi la ragazza, “50 a testa.”
“Ok” dico, ormai curioso di sapere come diavolo pensa di portarci
tutti e due in moto. Con un sidecar? Ingaggerà un collega e andremo
su due mezzi diversi? La risposta è ovvia quanto disarmante. Una
manciata di secondi dopo eccoci tutti e tre schiacciati l'uno dietro
l'altro, lanciati a 50 Km/h per le strade della città in sella ad un
piccolo scooter Honda dal rumore di taglia-erba. L'unico a mettersi
il casco è il nostro autista, ma lo toglierà poco dopo per
ravviarsi i capelli e fare una telefonata. Il mio stupore non dura
che un minuto: il tempo di venir sorpassati da un altro scooter, a
bordo del quale ci sono mamma, papà e due bambini nel mezzo. Più
uno più piccolo davanti, sulle ginocchia del papà.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
La stazione dei bus è davvero fuori
mano, ma ormai siamo qui e tanto vale chiedere informazioni. Il
problema è sempre lo stesso: le insegne con le destinazioni sono in
thai e in thai parlano tutti gli addetti di tutte le compagnie. La
cosa più difficile,comunque, è far capire al nostro moto-taxista
che deve aspettarci: all'arrivo pago la prima parte della corsa e gli
faccio cenno con la mano aperta di aspettare. Ma lui pensa sia un
saluto e ripete lo stesso gesto chinando il capo, mentre l'altra mano
già gira l'acceleratore . “No, no, wait!” gli dico. Lui sembra
confuso. Scende di sella e entra con noi per chiedere ai bigliettai
che gli traducano quello che diciamo. È una scena patetica: facciamo
il giro di tutti gli sportelli di tutte le compagnie di autobus, ma
nessuno ci capisce e il nostro uomo è sempre più confuso (e noi
sempre più mortificati). Alla fine approfitterà di un momento di
nostra distrazione per andarsene.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Con gli impiegati della compagnia di
autobus comunichiamo a gesti, con molta fatica, e riusciamo a capire
prezzi e orari. Ma ci rendiamo conto che non è una soluzione
praticabile: come ci arriviamo alla stazione, all'alba, con gli
zaini... e in motorino? Ci rassegniamo al treno.
</div>
<br />
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Ma sul sito delle ferrovie ci aspetta
una bella sorpresa: esistono vagoni letto con aria condizionata. Così
arriviamo a Bangkok il mattino seguente, non proprio freschi ma
nemmeno distrutti.</div>
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-50612235249234493732013-05-28T09:53:00.000-07:002013-05-28T09:53:08.509-07:00Terrorismo da Lonely Planet (Km 1 in Thailandia)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgDy5BcyCx-6swhaZJXAvsdZJXQNhlFIPw2JamZzq8i51yeIjaI1PJd-6awGe1ZNO-V3-TpgDZC7x3N-N8em0oj3RtkXtl_EbFlPf5G0gksiVKM-xhc0apnTV1EBweOfBW3h1kKRuy_q7L-/s1600/lonely+planet.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgDy5BcyCx-6swhaZJXAvsdZJXQNhlFIPw2JamZzq8i51yeIjaI1PJd-6awGe1ZNO-V3-TpgDZC7x3N-N8em0oj3RtkXtl_EbFlPf5G0gksiVKM-xhc0apnTV1EBweOfBW3h1kKRuy_q7L-/s320/lonely+planet.jpg" width="208" /></a></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Nel taxi che da Kuala Besut (Malesia)
ci porta a Rantau Panjang (confine thailandese) nessuno apre bocca. Il
ragazzo cileno siede davanti mentre la sua giovane sposa, seduta
accanto a noi sul sedile posteriore, si addormenta a bocca aperta a
pagina 114 della biografia di Steve Jobs. Il tassista, mani serrate
sul volante, schiena piegata in avanti e occhi stretti, porta a
termine le sue manovre ai limiti dello scontro frontale. Ma non fosse
per quelli che vengono in senso contrario, che si buttano di lato per
lasciargli strada, la sua carriera – e forse la nostra – sarebbe
finita da tempo. Fuori dal finestrino scorrono palme a perdita
d'occhio e poche case isolate. Molte sono baracche piuttosto mal
messe, in legno o lamiere ondulate, ma non mancano le case in
muratura dai portici ombrosi, sotto i quali la gente cerca sollievo
dal sole stendendosi su un'amaca o sedendo in compagnia.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Coi due cileni non siamo amici. La
nostra è una di quelle collaborazioni tra viaggiatori nate in un
secondo e lunghe un minuto: li abbiamo sentiti contrattare il prezzo
del passaggio verso la nostra stessa destinazione e abbiamo chiesto
loro se volevano dividere la spesa. A volte queste situazioni portano
alla nascita di belle intese, conversazioni interessanti e la
promessa (quasi di certo vana, ma non si sa mai) di vedersi ancora da
qualche parte nel mondo. Ma non è questo il caso.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Se i nostri tentativi di iniziare
conversazioni non hanno avuto successo, i nostri compagni di strada
ci fanno almeno la gentilezza di prestarci la loro Lonely Planet,
visto che non abbiamo idea di dove andare una volta passato il
confine. E proprio alla voce “Entrare in Thailandia dalla Malesia”
mi trovo a leggere che il punto in cui stiamo per passare è
pericolosissimo. L'autore sconsiglia fermamente l'intera zona,
riferendo di “attacchi imprevedibili” da parte di banditi.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“La vostra guida dice che è
pericoloso il posto dove stiamo andando. Lo sapevi?” dico a José
(non che si sia presentato, ma la sua signora lo chiama così).</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“Sì,” dice lui girandosi appena
verso di me “ma ormai siamo qui, non ci possiamo fare niente.”</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Non fa una piega.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Inizio ad innervosirmi, a sudare,
nonostante l'aria condizionata. Continuo a leggere, pressato tra il
braccio di Laura e la portiera. Scopro che dopo il punto di controllo
tailandese c'è un chilometro da fare a piedi prima della stazione
dei treni, che è la nostra destinazione. Penso a quante cose possono
succedere in un chilometro: in quella terra di nessuno mi immagino
coltelli, sgommate, urla, sangue e morte sicura. E poi teschi (i
nostri) lasciati a marcire nella giungla.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Non appena scesi dal taxi i cileni ci
salutano e vanno per conto loro verso l'ufficio immigrazione. Li
ritroviamo pochi minuti dopo, in coda poco più avanti di noi, ma
continuiamo a non avere niente da dirci. Subito dopo il controllo
Laura e io ci fermiamo in bagno per i soliti aggiustamenti da “zona
pericolosa”: carte di credito e passaporti nascosti nelle zone più
recondite e... scongiuri.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Iniziamo a camminare, di buon passo. Fa
caldo, sento la fronte gocciolare di sudore, lo zaino mi pesa sulle
spalle e mi costringe a piegarmi in avanti. Dei tipi con delle
casacche blu ci fanno cenni in lontananza. Quando gli passiamo
accanto ci propongono un passaggio in motorino fino alla stazione.
“No.” dico. A priori. Ignoro le timide proteste di Laura: non ci
fidiamo di nessuno.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Dopo trecento metri di marcia siamo già
stravolti. Altri turisti ci superano a tutta velocità, coi capelli
al vento sui motorini. “Vedrete!” penso io “Vi ritroverete in
mutande in un fosso insieme ai coccodrilli!”
</div>
<br />
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Avanziamo lungo il ciglio della strada
per altri cento metri e veniamo affiancati da un vecchio magrissimo
alla guida di una bicicletta con sidecar tutta arrugginita. Ci offre
un passaggio. Siamo sudati fradici e la strada, a guardarla meglio,
sembra una strada normale: gente che viene e che va, venditori
ambulanti, bambini per mano ai genitori, biciclette, macchine,
motorini... e io inizio a pensare che come al solito ho esagerato. Ci
accordiamo sul prezzo e accettiamo. Il vecchio ci fa caricare gli
zaini su un portapacchi posteriore e ci fa accomodare sul sidecar,
con la delicatezza di girare il cuscino di finta pelle nera per non
farci scottare le chiappe. Ma appena fa per montare in sella il
trabiccolo si impenna e si ribalta all'indietro per il peso. Il
pover'uomo è desolato e cerca di riportare le ruote (e i clienti) a
terra, mentre sulla strada i turisti sfrecciano comodamente sui
sedili posteriori dei motorini, voltandosi per godersi la scena.
Risistemato il carico partiamo. Il vecchio deve spesso scendere a
spingere, ogni volta che la strada non è in discesa. Vorrei scendere
ad aiutarlo, ma lui mi fa cenno di restare al mio posto. Io e Laura
sorridiamo e io mi ricordo, d'improvviso, il motivo per cui non ho
mai voluto comprare una guida turistica.</div>
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-34422523250009617672013-05-24T06:38:00.001-07:002013-05-24T06:55:59.572-07:00I camerieri di Kuala Lumpur<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhHQ4pp5g3mzfB_4tdeLYb5B683mXWaZoiTgPDIZ19zlP6E0sBWIBaHTSfT-i1y8YcJJhPcAOv24YIsEJfAGHFfIN2d8LHTjD53z7JANXjCH01lvTCFNwF1dBd9uQh7LMujC9Ti4FmOK8Bb/s1600/DSC00230.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhHQ4pp5g3mzfB_4tdeLYb5B683mXWaZoiTgPDIZ19zlP6E0sBWIBaHTSfT-i1y8YcJJhPcAOv24YIsEJfAGHFfIN2d8LHTjD53z7JANXjCH01lvTCFNwF1dBd9uQh7LMujC9Ti4FmOK8Bb/s320/DSC00230.JPG" width="240" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Palazzo abbandonato a Kuala Lumpur</td></tr>
</tbody></table>
<div style="text-align: justify;">
Mi chiedo cosa li stampino a fare i menù, qui in Malesia. Ancora prima che tu ti sieda, già il cameriere vuol sapere cosa ordinerai. Magari tu gli dici “Scusa, ho bisogno due minuti”, e fai la faccia dispiaciuta di chi chiede comprensione. Allora lui ti guarda come se fossi un animale buffo: “Ok” ti risponde. Ma non si muove. Aspetta, con la punta della matita sul foglio di carta. E quindi tu, che hai dei problemi con la lingua e nessuna esperienza di cucina asiatica, finisci col puntare il dito su una pietanza a caso. È più o meno così che a Kuala Lumpur ci siamo beccati la diarrea.<br />
Al Korner, un ristorante immenso all’angolo tra due strade, fanno cucina indiana, cinese e malese. La gente entra e esce a sciami, dato che non ci sono pareti esterne a dividere lo spazio occupato dai tavoli di plastica dal marciapiede affollato. Sul soffitto girano pigramente le pale unte dei ventilatori e, in fondo alla sala, un televisore trasmette il GP di Spagna. Per un lungo minuto provo a reggere la tensione e a concentrarmi sul menù, ma mi sento addosso lo sguardo di quel tale, in piedi nelle sue infradito a pochi centimetri dal tavolo. “Tandoori chicken”, dico puntando il dito sul menù. Laura invece ripiega su un più conservativo riso con carne. Ciò che mi viene servito, in un piatto di plastica rigida e dopo una lunga attesa, è un pezzo di pollo dal colore violaceo, così tenero che si taglia con un grissino e così piccante da far invidia al cibo messicano. Anche Laura, errore fatale, ne assaggia un boccone. Quella notte stessa mi sveglieranno i crampi alla pancia.<br />
Non posso dire che sia per scelta, quindi, se a Kuala Lumpur ci restiamo cinque giorni (quattro in più del previsto). Abbiamo bisogno di rimetterci in sesto.<br />
La città è enorme. Il cemento è ovunque si rivolga lo sguardo, anche in alto, e non fa che amplificare la sensazione di soffocamento data dal clima equatoriale e dal rumore dei motori, surriscaldati nelle code tra un cantiere e un semaforo.<br />
Bighelloniamo in giro cercando di sfuggire il caldo, su e giù dalla piccola monorotaia (solo due vagoni) e dentro e fuori dagli enormi centri commerciali (quello più vicino al nostro albergo è di nove piani). Se ci aspettavamo (chissà poi perché) una città arretrata, quello che troviamo è una città poliglotta e tecnologica. Poliglotta perché quasi tutti i suoi abitanti, siano essi malesi, cinesi o indiani, oltre alla loro lingua madre e al malese, parlano anche l’inglese. Tecnologica nel senso che è difficile guardarsi attorno e trovare qualcuno che non stia facendo scorrere il dito sullo schermo di uno smartphone o di un tablet.<br />
È davvero impressionante, ma allo stesso tempo settoriale. Mentre siamo alla ricerca di una chiavetta USB nella quale archiviare le migliaia di foto che Laura continua a scattare, ci ritroviamo in un centro commerciale di cinque piani, tutto dedicato alla tecnologia. I prezzi sono molto convenienti e ci viene l’idea di comprare un eReader (che pesa meno dei libri di carta e, soprattutto, ci consentirebbe di tornare a leggere in italiano). Ma in esposizione non vediamo altro che computer portatili, tablet e telefoni cellulari. E tutti gli accessori del caso. Chiediamo in giro: dal primo piano ci mandano al quarto, poi al terzo. Alla fine ci arrendiamo, e la sensazione è che non sappiano proprio di cosa stiamo parlando.
Al Korner non ci siamo fatti più vedere. Per mangiare andiamo sempre dai cinesi, e la scelta è ampia tra i tanti ristoranti di Jalan Alor, una strada sovrastata da centinaia di lanterne rosse che la sera si riempie di odori di carne e pesce alla griglia, di tavoli apparecchiati e di pentoloni fumanti. La folla invade il poco spazio rimasto al centro della strada, rendendo difficile il transito delle auto. L’ambiente ci piace, e soprattutto sappiamo che dai cinesi possiamo sempre trovare riso bianco e pollo. Quasi riesco a battere sul tempo il cameriere, fingendo di guardare il menù e ordinando a tempo record, ma ho ancora tanto da imparare. Tempo tre giorni e stiamo di nuovo bene, pronti per ripartire. Verso il mare del nord.
Arrivati a Kuala Besut ci troviamo una stanza per la notte e compriamo i biglietti per la barca che l’indomani mattina ci porterà sull’Isola di Perhentian. Passiamo una notte infernale, sudati sotto le pale traballanti del ventilatore. Verso mezzanotte sento dei rumori in corridoio, poi vedo girare la maniglia della nostra porta. Infine uno spiraglio di luce sempre più ampio illumina brutalmente la stanza. Salto seduto sul letto, in mutande, e abbaio qualcosa verso l’intruso. Laura si sveglia, si spaventa, urla anche lei. Il malintenzionato è in realtà un povero giapponese col cappellino rosso e il trolley, e ha sbagliato stanza. Richiude cerimoniosamente la porta, con un mezzo inchino, e se ne va. “Ci siamo dimenticati di chiudere!” “Eh già.” “Ti alzi tu?” “No.”<br />
Arrivati sull’isola prendiamo in affitto una casetta sulla spiaggia e proviamo a rilassarci per qualche giorno: passiamo il tempo leggendo, guardando film e facendo bagni nel brodo caldo e cristallino che è il mare da queste parti. Noleggiamo anche una canoa, con la quale solchiamo lentamente le acque alla ricerca di spiagge nascoste. Ma, soprattutto, mangiamo un sacco di pesce al Mama’s Place, un ristorante sulla spiaggia del quale siamo presto diventati habitué. Il pesce è fresco e cucinato ad arte, ma la vera attrazione è il loro succo di mango. Buono da far scoppiare il cervello.
È piacevole trascorrere le giornate senza avere niente di particolare da fare. Spesso si finisce col combinare molto di più che nelle giornate frenetiche, nel senso che si ha finalmente il tempo di occuparsi di se stessi e di fare cose rimandate da tempo. Ma la solita inquietudine chiama, ci ricorda che c’è un viaggio da continuare, altri mari da vedere, altre grigie città da cui scappare.
Il quinto giorno risaliamo in barca e torniamo sul continente. A Kuala Besut prendiamo un taxi insieme a due cileni appena conosciuti e in un’ora e mezza di sorpassi assassini siamo a Rantau Panjang, al confine con la Tailandia.
</div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
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<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
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<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
Unknownnoreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-21743197083806169322013-05-18T05:59:00.003-07:002013-05-18T06:07:15.696-07:00Singapore è Disneyland con la pena di morte<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgCJms5_r6wVdUXSHh4gXC_MpKBhzwdzvdug6si-pMjZCgjHU-yqp6v-Cdd3UK9WyMoCPbQQfOanVCBk48s0n2QRvS6PDNeQ0Rc7_zx4d17jJF6izLnDvY2l3YkTLkEk9c8m8l2lZqAQ3yq/s1600/DSC00101.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgCJms5_r6wVdUXSHh4gXC_MpKBhzwdzvdug6si-pMjZCgjHU-yqp6v-Cdd3UK9WyMoCPbQQfOanVCBk48s0n2QRvS6PDNeQ0Rc7_zx4d17jJF6izLnDvY2l3YkTLkEk9c8m8l2lZqAQ3yq/s320/DSC00101.JPG" width="320" /></a></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Atterriamo a Singapore alle sette di
sera, ora di cena. Il che è perfetto, dato che siamo affamati e che
abbiamo un'ora di tempo libero. Un'ora per aspettare che un altro
volo, proveniente da Kathmandu, atterri. Chiamiamole coincidenze.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Tra un'ora incontreremo Tomi e Tei, una
coppia di finlandesi al rientro di uno dei loro numerosissimi viaggi.
Abitano a Singapore, sono scienziati informatici e lavorano per
l'Università Statale. Cos'hanno a che fare con noi? Coincidenze. E
la disposizione all'incontro di cui si gode quando si viaggia o si
vive lontano da casa.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<i>Wanaka, Nuova Zelanda</i>. Una
coppia varca la soglia del Francesca's Italian Kitchen, il miglior
ristorante in città. Chiedono un tavolo, ma non hanno prenotato e
devono accontentarsi di sedere al banco. Ordinano antipasti misti e
una pizza al barista Zack, un americano del Colorado. Accanto a loro
c'è una cameriera gentile, dal forte accento italiano, che trascrive
l'ordine per trasmetterlo alla cucina. Mentre trascrive nota che
l'uomo sa quello che dice: dice “Bruschetta”, non “Bruscedah”,
come le capita di sentire ogni giorno. Così la cameriera italiana si
avvicina al barista del Colorado e dice sottovoce: “Scommettiamo
che sono italiani?” Perde la scommessa. Viene fuori che i due sono
finlandesi e tutti insieme si fanno una bella risata.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Due giorni dopo i due tornano al
Francesca's. Questa volta hanno prenotato e si godono il tavolo fino
a chiusura. Verso le undici rimangono gli unici avventori in sala. La
cameriera italiana è stanca, vuole andare a casa e si avvicina per
chiedere se vogliono ordinare altro. I due sono sazi, ma fanno
volentieri due chiacchiere sui soliti argomenti noti ai viaggiatori:
da quanto tempo sei qui, dove sei stato prima, dove andrai dopo. La
cameriera dice che la sua prossima tappa è Singapore, ed ecco la
prima coincidenza: i due a Singapore ci vivono, e la invitano a stare
a casa loro. (Col suo compagno di viaggio, s'intende!)</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Così eccoci in attesa della prossima
coincidenza: i due finlandesi tornano proprio oggi da un viaggio in
Nepal, proprio un'ora dopo il nostro arrivo. Laura fa le
presentazioni: “Tei, Tomi, Andrea.” “Nice to meet you!”</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Insieme prendiamo un taxi. Tomi è un
fiume in piena di entusiasmo e informazioni, e lungo il tragitto ci
racconta qualche aneddoto su Singapore. Ingaggia anche una disputa
col taxista riguardo al raggio d'estensione della Città: “40 Km”
dice Tomi “Sono almeno 60!” dice l'altro.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Quando arriviamo a casa loro rimango a
bocca aperta. È un appartamento ultra-moderno, in un complesso
residenziale nuovo di zecca dal nome “Reflections”, le cui
palazzine si riflettono, appunto, in una serie di fontane: vasche di
vetro incastonate tra giardini curatissimi, illuminate durante la
notte da luci colorate. Vi sono guardie armate all'ingresso, eserciti
di giardinieri continuamente all'opera, due piscine e una palestra.
Cancelli, ascensori e porta di casa si aprono e si chiudono grazie ad
un'unica chiave elettronica. All'interno dell'appartamento tutto è
bianco e lucido e funzionale, compresa la cucina a scomparsa (se non
me l'avessero mostrata non sarei stato in grado di trovarla).
L'ufficio di Tomi, per così dire, è una <i>chaise long</i> di pelle
nera in fondo alla quale, dalla parte dei piedi, c'è il monitor di
un computer dotato di mouse a tastiera senza fili.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Il tour della casa continua. Ci
mostrano la nostra stanza e il nostro bagno.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“C'è anche il rifugio anti-bomba”
dice Tomi mostrandomi lo sgabuzzino.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“Come scusa?” dico io, convinto di
aver capito male.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Me lo ripete. Ha detto proprio
“anti-bomba”. Mi fa notare la porta d'acciaio rinforzato, i muri
spessi e la presa d'aria con relativa protezione d'acciaio.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
“E cosa ve ne fate di un rifugio
anti-bomba?” chiedo, dato che non mi risulta che Singapore sia o
sia stata di recente al centro di conflitti armati. Tomi dice “Non
lo so”, ma mi informa che tutte le case di Singapore ne hanno uno,
anche se probabilmente finisce sempre per essere usato come
sgabuzzino.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Singapore è Disneyland con la pena di
morte. Così almeno la descrive il giornalista William Gibson. Di
sicuro è la città più moderna e funzionale che abbia mai visto:
architettura dalle forme improbabili, slanciate verso l'alto;
trasporti pubblici veloci e puntuali che coprono tutto il territorio;
immensi centri commerciali nei quali è più facile perdersi e
prendersi una polmonite che trovare quello che si cerca. Singapore è
il luogo in cui si può aprire una società in dieci minuti, ma è
anche il luogo in cui puoi ritrovarti completamente nudo, piegato a
novanta gradi e legato ad un trespolo, pronto per la fustigazione.
Per reati quali furto, stupro e traffico di droga, ma, a discrezione
delle autorità, anche per le infrazioni del codice della strada. E
poi, sì: c'è la pena di morte.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
È una città multiculturale, in cui
vivono fianco a fianco (ma ciascuno nel suo quartiere) persone di
origine cinese, malese, indiana... Tutti sono cittadini di Singapore,
e spesso comunicano tra loro in inglese. Ci sono anche molti
occidentali, attirati dalle opportunità che questa Disneyland offre.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Benché conti oltre cinque milioni di
abitanti, (quasi un milione in più dell'intera Nuova Zelanda!), il
traffico sembra sostenibile. Tomi mi spiegherà il perché: non basta
possedere una macchina e una patente per poter circolare: è
necessario comprare una – costosissima – licenza. Ecco spiegato
perché in giro, a parte i taxi e i motorini, si vedano quasi solo
auto di lusso.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
La città è molto pulita e non ricordo
di essere entrato in un bagno pubblico senza inciampare nell'addetto
alle pulizie intento nel suo lavoro. È ancora Tomi a suggerire una
possibile spiegazione: qui la legge non prevede alcun salario minimo,
quindi bisogna darsi da fare per sbarcare il lunario.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
A Singapore rimaniamo sei giorni, e
sono abbastanza. Il nostro fedele compagno è il caldo, che qui a due
passi dall'equatore incolla i vestiti alla pelle e rende faticosi
anche i pensieri. A complicare le cose ci si mette l'aria
condizionata, che ci investe sulla soglia di ogni edificio o mezzo di
trasporto gelandoci addosso il sudore. Per poi ripiombare sotto un
caldo pesante come un macigno, e così via.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Teniamo un ritmo rilassato, direi
vacanziero. Ci svegliamo tardi e usciamo per fare un giro da qualche
parte: un giorno al Museo delle Civiltà Asiatiche, un altro lungo il
Singapore River. Poi una visita a China Town, una a Little India...
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Il quinto giorno prendiamo un autobus a
caso e arriviamo fino al capolinea, decisi a vedere coi nostri occhi
i luoghi in cui vive la gente normale (quella che dopo aver curato i
giardini dei ricchi e pulito i cessi dei centri commerciali del
centro torna a casa a far da mangiare). Fuori dal centro la città
cambia faccia, ma non di molto. I grattacieli avveniristici lasciano
il posto ad altrettanto alti palazzoni dai balconi tutti uguali, coi
loro panni stesi come bandiere alle aste che sporgono dalle finestre.
Sono immensi formicai di cemento, ma almeno dall'esterno non c'è
traccia di degrado: non c'è spazzatura in giro, gli intonaci sono
intatti e la poca erba tagliata di fresco. Accanto ad un palazzo un
cartello dice “Allerta crimine”. Leggendo oltre, si capisce che
fa riferimento ad un'attività di prestiti non autorizzata segnalata
in quella zona in un determinato periodo di tempo.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
L'ultimo giorno è un sabato. Con Tomi
e Tei andiamo a Wetland, un parco naturale in cui avvistiamo
lucertole giganti, coccodrilli, lontre e un orribile serpente.
Assistiamo anche alla scena di alcuni ragazzi cinesi che, camminando
in infradito, mentre cercano di avvistare una lucertola nel fiume che
gli scorre accanto, quasi inciampano in un'altra lucertola, ben più
grande, che se ne sta tranquilla a scaldarsi in mezzo al sentiero.
Quando se ne accorgono fanno un salto all'indietro.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Ripartiamo la domenica mattina con un
autobus diretto a Kuala Lumpur, Malesia. E sono sei ore di maledetta
aria condizionata.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhi0lC5kswuRcHB0U3GhWN30ehu2YQjQOfGVFZYApHdouwfbi_ucBBYqk0EI5t_hbi5FIqgxO0aeVgwcmtgPkRaO9C-Zil2LB9VrcDT_lk2B3nnNH-rBG3EhrXP3nY39bGAn_4jxi8iq9G_/s1600/DSC00121.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="240" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhi0lC5kswuRcHB0U3GhWN30ehu2YQjQOfGVFZYApHdouwfbi_ucBBYqk0EI5t_hbi5FIqgxO0aeVgwcmtgPkRaO9C-Zil2LB9VrcDT_lk2B3nnNH-rBG3EhrXP3nY39bGAn_4jxi8iq9G_/s320/DSC00121.JPG" width="320" /></a></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
Unknownnoreply@blogger.com6tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-722070316974727752013-05-14T04:05:00.002-07:002013-05-14T04:05:42.023-07:00Ultimi mesi in Nuova Zelanda: le fotoIl viaggio che da Taupo ci ha portati a Wanaka, nell'Isola sud.
<embed flashvars="host=picasaweb.google.com&captions=1&hl=it&feat=flashalbum&RGB=0x000000&feed=https%3A%2F%2Fpicasaweb.google.com%2Fdata%2Ffeed%2Fapi%2Fuser%2F108822589440766939736%2Falbumid%2F5877695526614080641%3Falt%3Drss%26kind%3Dphoto%26hl%3Dit" height="400" pluginspage="http://www.macromedia.com/go/getflashplayer" src="https://picasaweb.google.com/s/c/bin/slideshow.swf" type="application/x-shockwave-flash" width="600"></embed>
I nostri quasi tre mesi a Wanaka.
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh9Imd-LssV5oCuAgpfLKomFuPONNpLscuvuB4UyDd2XghUzqM8RFpG-1k9I5tU0pl4VbDSvHCJWlpDlVXHEUsEbIhiryrjDzrE_Hbqm6pq6KSDWC17wIHWzWj9VPKwAGy_PKlimdY1UGji/s1600/_MG_8773.JPG" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh9Imd-LssV5oCuAgpfLKomFuPONNpLscuvuB4UyDd2XghUzqM8RFpG-1k9I5tU0pl4VbDSvHCJWlpDlVXHEUsEbIhiryrjDzrE_Hbqm6pq6KSDWC17wIHWzWj9VPKwAGy_PKlimdY1UGji/s320/_MG_8773.JPG" width="320" /></a></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<i>1-3 maggio</i></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Abbiamo lasciato Wanaka sotto un
tappeto di foglie, giusto un attimo prima che arrivasse l'inverno. Le
giornate erano ormai brevi e le cime intorno al lago bianche di neve.
Ma le infinite gradazioni di gialli e di rossi non si erano ancora
spente, e a seconda della posizione del sole ogni albero cambiava
faccia e colori. Colori che non avevo mai visto prima.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
A Wanaka abbiamo lasciato un mondo che
era ormai il nostro. Luoghi, abitudini e soprattutto persone. Due
sere prima di partire abbiamo cenato con Gersende e Cyril, una coppia
di francesi con cui avevamo fatto amicizia e che avrebbe poi preso
alloggio nella roulotte in cui vivevamo noi, in cambio di qualche ora
di lavoro al campeggio. Rimarranno lì per l'inverno, come noi siamo
rimasti per l'estate. Anche loro, stregati da quel luogo, non hanno
voluto sentire ragioni. Vani sono stati i miei consigli di spostarsi
in un luogo magari più “contaminato” dal turismo, ma meno
disperatamente isolato. Anche loro hanno bisogno di risparmiare
qualche soldo prima di riprendere il viaggio e tuffarsi in Indocina.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Alla cena erano invitati anche Nick e
Karen, una coppia di inglesi che da qualche giorno avevano preso il
nostro lavoro al campeggio, mentre noi recuperavamo energie e
regalavamo cose in giro per rendere gli zaini di nuovo leggeri. Anche
Nick e Karen passeranno l'inverno a Wanaka, anche loro risparmieranno
soldi per viaggiare ancora. Ma non in Asia, perché è da là che
arrivano. Hanno passato alcuni mesi in Corea del Sud, dove lui ha
lavorato come ingegnere, e poi hanno viaggiato per tutta l'Indocina.
La loro prossima tappa sarà l'America del Sud.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
A Wanaka abbiamo lasciato anche <a href="http://andreiaway.blogspot.sg/2013/04/larca-di-natsuko.html" target="_blank">Natsuko</a>, che da un paio di settimane aveva comprato un furgone Ford e
si era trasferita in una zona remota del campeggio, dove i suoi
animali possono scorrazzare liberamente. “Stare nel bungalow è
troppo costoso e il mio conto va sempre più giù” ci aveva detto
durante uno dei tè pomeridiani presi insieme nella nostra roulotte.
Peccato che ora stia arrivando l'inverno, che da quelle parti è
decisamente rigido. Per il momento si arrangia scaldando il piccolo
ambiente del furgone con taniche d'acqua bollente, dato che dove ha
deciso di stare non c'è elettricità. Ma a scaldarla, immagino, sono
soprattutto gli animali. Yashi, il cane dagli occhi grandi, e i suoi
quattro gatti. Ognuno di loro ha un piccolo spazio dedicato nel
piccolo abitacolo, a seconda delle sue esigenze. Il gatto Kyu, con
problemi di deambulazione, può salire e scendere dal letto a suo
piacimento grazie a una rampa fatta di due cuscini e una tavola
<i>bodyboard</i>.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
La sera prima di partire abbiamo cenato
da Francesca's, il ristorante di cucina italiana in cui ha lavorato
Laura. Insieme a noi c'erano Nicolas e Silvia, suoi colleghi
italiani, entrambi giovanissimi (19 anni lei, 24 lui) che hanno
deciso di andarsene dall'Italia e farsi una vita altrove. In Nuova
Zelanda per il momento, poi chissà.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Prima di partire per un lungo viaggio
credi di stare facendo qualcosa di eccezionale, qualcosa che molti
hanno sognato, ma che pochi hanno avuto il coraggio di fare prima.
Invece ne abbiamo incontrate tante di anime fuori posto, lontana da
casa e dagli affetti. Gente che ha viaggiato per anni, magari a più
riprese. Persone che hanno chiamato casa la Norvegia, e poi allo
stesso modo la Thailandia o l'Australia. Qualcuno sembra aver perso
l'orientamento e non sapere più su quale sedia appoggiare il sedere,
qualcun altro invece mostra una lucidità assoluta e la
consapevolezza che dovunque vai, alla fine, è sempre con te stesso
che te la devi vedere.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
C'è chi si muove per soldi, chi per
cercare se stesso, chi semplicemente per curiosità o per “vedere
il mondo prima di sistemarsi”. E in Nuova Zelanda più che altrove
ne abbiamo incontrati molti, soprattutto provenienti da quei paesi in
cui la gente normale può permettersi il lusso di avere un vuoto da
colmare: europei, statunitensi, canadesi, australiani, giapponesi...
Pochi italiani, questo sì.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Ma tutta questa gente, di cui anche noi
facciamo parte, non ha molto a che fare con i migranti veri e propri,
certamente più numerosi. Loro viaggiano una volta sola e per sempre
e si spostano per altri motivi, che hanno più a che fare con la
necessità di far fronte a mancanze materiali che con la sete di
conoscenza o carenze spirituali. Per quanto riguarda la Nuova
Zelanda, molti migranti vengono dall'Asia: cinesi e indiani, per
citare i più evidenti, arrivano in flussi regolari e popolano
quartieri, aprono negozi, iniziano una nuova vita a metà tra quella
vecchia (a cui probabilmente non torneranno mai) e quella nuova.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Abbiamo lasciato Wanaka ed era quello
che per lungo tempo abbiamo desiderato. Ogni giorno fissando il
calendario e soppesando con lo sguardo la mole crescente dei giorni
andati contro quella sempre più sottile dei giorni rimasti.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Il giorno della partenza ci siamo
svegliati in fibrillazione per le poche cose che restavano da fare.
Ma allo stesso tempo avevamo già addosso une leggerezza ritrovata,
quella tipica del primo giorno di vacanza. Una lunga vacanza, in
luoghi dai nomi evocativi come Australia, Singapore, Malesia,
Thailandia... E poi Vietnam, Laos, Cina. E ancora!</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
A Queenstown passiamo due giorni e due
notti in attesa del volo per Sydney. Il nostro ostello, il Queenstown
Adventure, è il più bello che abbia mai visto: divani, mega
schermi, una cucina enorme e accogliente, ambienti freschi e puliti.
Addirittura una camera di sicurezza con serratura a combinazione
all'interno della quale ognuno ha un suo armadietto, che a sua volta
può essere chiuso a chiave. Dentro ad ogni armadietto c'è una presa
(due per quelli più grandi) in cui caricare cellulari e laptop.
Questa sì che è cura per i particolari. Nella stessa camera di
sicurezza sono appese mountain bike e biciclette da corsa,
disponibili gratuitamente. Altrettanto gratuitamente si possono fare
telefonate internazionali. Insomma, questo sì che è un buon inizio,
decisamente in linea con <a href="http://andreiaway.blogspot.sg/2013/04/manifesto-dei-viaggiatori-stanchi.html" target="_blank">le nostre nuove regole</a>.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Durante il giorno passeggiamo per le
strade del centro, sotto un cielo pesante di pioggia. Ci rendiamo
conto che il posto è più bello e interessante di come l'avevamo
giudicato <a href="http://andreiaway.blogspot.sg/2013/02/pero-minchia.html" target="_blank">durante la nostra prima visita</a> e facciamo inutili
considerazioni sulla nostra scelta, forse sbagliata o forse no, di
stabilirci a Wanaka e non proprio a Queenstown. Ma ormai è andata, e
anche se è stata dura ora abbiamo in tasca più o meno la stessa
somma che avevamo quando siamo partiti dall'Italia. Potremmo
ricominciare tutto daccapo, se lo volessimo.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<i>3-6 maggio</i></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Atterriamo a Sydney verso mezzogiorno.
Sebbene si trovi a poche ore di volo da Queenstown, qui la giacca a
vento e la felpa non servono. Abbiamo tre giorni e nessun programma
preciso, se non guardarci attorno nell'attesa del prossimo volo.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Il nostro ostello, il D*Lux, è il più
squallido che abbia mai visto, tanto per riportarci in contatto con
la realtà. Letti sgangherati, mobili sfondati, porte che non si
chiudono. Lo stabile è molto vecchio e l'insegna gialla all'esterno,
malgrado conti ben quattro stelle, si distingue dalle altre lungo la
strada per la sua decadenza. Ma, al di là delle apparenze, il fatto
è che tira una brutta aria. C'è molta gente che ci vive in pianta
stabile e altra gente che ci lavora – svogliatamente – in cambio
di un posto letto. Tutte queste persone formano un mondo a parte, che
mal si amalgama con quello dei clienti occasionali che, come noi, non
sanno dove sono padelle e fiammiferi. E nessuno glielo dice.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Depositati i bagagli ci tuffiamo nella
città. Siamo affamati e compriamo un kebab lungo la strada, ma non è
facile trovare un posto in cui sedersi a mangiarlo. Le città come
questa non sono fatte per sedersi. Sono fatte per orbitarci dentro
come topi da corsa. I palazzi altissimi sono alveari da cui entrare e
uscire alacremente a orari stabiliti. Ma, effetto collaterale forse
sfuggito ai loro architetti, dalla solitudine serale di quei balconi
si gode di un punto di vista distaccato sulla distesa di luci
impazzite che si muovono là sotto. Un punto di vista che
quotidianamente ricorda alle persone il tipo di vita che hanno
scelto. Forse, avere un balcone oltre il ventesimo piano aiuta a fare
autocritica, a rinnovare le proprie scelte di vita. O a farla finita
(magari cambiando casa).</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Per le strade di Sydney ricompare tutto
ciò che in Nuova Zelanda sembra non esistere. Nemmeno ad Auckland o
a Wellington, per quanto abbiamo potuto notare noi. La gente che vive
in strada, tanto per cominciare. Non lontano dall'ostello c'è un
vecchio un po' matto che sta tutto il giorno ad uno sportello
bancomat, fingendo di prelevare e facendo complimenti a tutte le
donne che passano. Incontriamo tanti senza tetto, di solito muniti di
trolley a cui legano materassi arrotolati, per facilitare gli
spostamenti durante il giorno. Ci sono poi i clacson e folle di
persone che camminano in fretta senza guardarsi intorno.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Una cosa che notiamo è che la gente
sorride molto meno di quanto non facesse in Nuova Zelanda. A
cominciare dal poliziotto dell'Immigrazione all'aeroporto. Passaporto
in mano e zaino in spalla gli ho detto “Salve!” “Togliti il
cappello” mi ha risposto.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
I tre giorni a Sydney scorrono
all'insegna del turismo: lunghe passeggiate, visita al Museo di arte
moderna, all'acquario e allo Zoo. Facciamo anche un assaggio di
cucina vietnamita in un ristornate, tanto per preparare il palato per
i prossimi mesi in Indocina. Ma tre giorni sono davvero pochissimi, e
prima ancora di renderci conto di essere davvero a Sydney, un nuovo
aereo ci catapulta in un'altra grande, sbalorditiva città:
Singapore.</div>
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-3455703525519684912013-04-29T19:00:00.000-07:002013-04-29T19:04:12.848-07:00Manifesto dei viaggiatori stanchi<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgwpX_EEEvNO83wDVw07MN7wtooHo5yad4uNT_tRYfUJUT6T5hEIiz4rERm53umJJMP2H5fqPo6yh9DbLzE_geXKdURQEnzw6nOe_IzRS7sZEtjySiTVfYZhPF6lLmQ43b-CEIIkfPWiEjN/s1600/_MG_8647a.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgwpX_EEEvNO83wDVw07MN7wtooHo5yad4uNT_tRYfUJUT6T5hEIiz4rERm53umJJMP2H5fqPo6yh9DbLzE_geXKdURQEnzw6nOe_IzRS7sZEtjySiTVfYZhPF6lLmQ43b-CEIIkfPWiEjN/s320/_MG_8647a.jpg" width="320" /></a></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
In vista dell'imminente avventura euroasiatica, pur contrari ad inciuci e governissimi,
benché almeno la metà di noi sia obiettivamente impresentabile (nel
senso che ha bisogno di una doccia)...<br />
In barba agli intransigenti e ai
loro veti, memori della nostra storia passata, di cui è bene
assumersi ogni responsabilità e da cui bisogna pur imparare, in data
odierna ci siamo riuniti in seduta comune sul letto sfatto della
roulotte e abbiamo approvato con voto unanime quanto segue.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<ul>
<li><div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Disprezziamo la scomodità in ogni
sua forma.</div>
</li>
<li><div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Ogni giorno almeno un pasto caldo
seduti a un tavolo. Basta panini e scatolette. Soprattutto, basta
cucinare sui comodini ammuffiti delle pensioni a una stella.</div>
</li>
<li><div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Ogni notte un letto vero in una
stanza dignitosa, dotata di doccia. Si scarteranno sistematicamente
le prime due bettole in ordine di prezzo.</div>
</li>
<li><div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
I taxi collettivi una soluzione
affascinante? Nah!</div>
</li>
<li><div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Indigeni d'ogni dove,
imbrogliateci pure! Mai più discussioni al mercato o sugli autobus
per spuntare lo stesso prezzo dei locali. Sei bianco? Paga pegno e
taci.</div>
</li>
<li><div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Se ci sono due strade possibili,
memo: quella più tortuosa non ha assolutamente nulla da insegnare.
Solo polvere e mal di schiena.</div>
</li>
<li><div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Quando l'ostacolo si fa
insormontabile, noi molliamo la presa. Per avere un visto di un mese
volete la lettera d'invito (ma di chi, che non conosco nessuno?), il
voucher di viaggio (e che cazzo è?), cinquantaquattro foto tessera,
la prenotazione di un hotel tra quelli nella vostra lista, il
biglietto di uscita, il visto per il paese d'arrivo, una
dichiarazione del mio datore di lavoro che dica che sono in vacanza,
un'assicurazione sanitaria di quelle nella vostra lista, eccetera
eccetera? Beh... Non ci meritate!</div>
</li>
<li><div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Sputeremo chiunque dovesse
profferire la frase: “Io non sono un turista, sono un
viaggiatore”. Sputeremo anche lo specchio, se necessario.</div>
</li>
<li><div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Placheremo il nostro disgusto per
l'insegna “Backpackers”. Se non c'è alternativa a portata di
mano, che sarà mai passare una notte in un ostello? In una camera
da dodici, col cesso in comune, per un prezzo doppio rispetto a
quello delle pensioni “locali”? Se non altro avremo Internet.</div>
</li>
<li><div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Prima viene l'obiettivo, poi le
valutazioni economiche sulla fattibilità, quindi lo stanziamento
dei fondi necessari. Abbiamo sempre fatto al contrario...</div>
</li>
<li><div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Il lavoro debilita la donna, e
rende l'uomo di pessimo umore. Finiti i soldi, finito il viaggio.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Firmato, Laura (Presidente della Carovana) e Andrea (Vice Facchino)</div>
</li>
</ul>
Unknownnoreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-21508376172184653502013-04-18T23:31:00.000-07:002013-04-18T23:31:34.739-07:00Sold!<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQYM9gts6kscnmCl1e0dqgve5hxDr6Gh1-EQb2GKxWKUwatlcNwR7Ohbxd6gwu6fTsyQRRLdbiS8W1J6zHhdZDuo2Q4f4IwbiO65IPR9754ibfW_ysVHL9YLxCJZrwNdMNq7ZgAHMxJoAU/s1600/blue+kiwi+sold.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQYM9gts6kscnmCl1e0dqgve5hxDr6Gh1-EQb2GKxWKUwatlcNwR7Ohbxd6gwu6fTsyQRRLdbiS8W1J6zHhdZDuo2Q4f4IwbiO65IPR9754ibfW_ysVHL9YLxCJZrwNdMNq7ZgAHMxJoAU/s320/blue+kiwi+sold.jpg" width="320" /></a></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Andata. Anche più velocemente di com'è
arrivata. Forse la burocrazia italiana un senso ce l'ha: serve a
darti il tempo di elaborare il lutto.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
L'appuntamento è alle cinque nel
parcheggio del supermercato New World con un certo Mac, sentito per
telefono e poi via SMS. Siamo già d'accordo sul prezzo ma non voglio
illudermi troppo, soprattutto dopo le recenti avventure (prima con un
cinese che rideva di continuo ed ha voluto provare la macchina,
rischiando tre incidenti per poi dire “Ci penserò”; poi con un
tale che non si è presentato, non ha avvisato e non ha più risposto
alle mie telefonate).</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Invece Mac si presenta, insieme a due
amici suoi. Tre neozelandesi fatti e finiti, poco più che ventenni,
<i>easy</i> nella loro sciatteria ostentata da californiani caduti in
disgrazia. Mac indossa pantaloncini cortissimi e una canottiera, ai
piedi un paio di Espadrillas e calzini a mezzo stinco (di quelli che
noi italiani vediamo indossare agli anziani sui campi da bocce). Gli
altri due, corporatura da rugbisti, vestono allo stesso modo ma sono
scalzi.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Propongo di spostarci in un luogo più
tranquillo e saliamo tutti in macchina. All'improvviso mi sento
disorientato: avrei mai fatto una mossa del genere in America Latina?
Io da solo con quei tre? È incredibile come le abitudini e le
attitudini verso gli altri cambino radicalmente a seconda del
contesto sociale. Nemmeno in Italia, forse, mi sarei messo in questa
situazione. Invece qui mi è sembrato, ed è, assolutamente naturale.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Mi fermo in un altro parcheggio, questa
volta deserto, a pochi minuti dal New World. I ragazzi scendono e Mac
mi chiede di aprire il cofano. Temo già domande del tipo: Ma, questo
tubo penzolante? Oppure: Ogni quanto tempo devi rabboccare il liquido
del radiatore? Ma i sei occhi sorvolano soltanto la poderosa
ferraglia marchiata Toyota. Mac scalpita per chiudere l'affare e
andare a farsi un giro coi suoi amici. Mi dice che è riuscito a
racimolare la somma, ma gli mancano 10 dollari. “Oggi le banche
sono chiuse e lui” dice indicando l'amico più grosso “oggi è la
mia banca.” L'amico grosso mi porge una mazzetta di banconote. “Non
c'è problema per i dieci dollari” dico io, che ancora non ci
credo. Mac non lo sa, ma io glie l'avrei anche regalata pur di
liberarmene.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Firmiamo un contratto di compravendita
e compiliamo i moduli per il passaggio di proprietà. Il tutto sarà
durato meno di dieci minuti. “Check it out!” dice Mac ai suoi
amici, voce entusiasta e sorriso felice. I tre salgono in macchina e
Mac mette in moto.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
E io rimango lì, in mezzo al
parcheggio deserto, mentre Blue Kiwi si allontana con una leggera
sgommata. Quella che per mesi è stata un riparo contro pioggia e
vento, un letto per la notte, un mezzo di trasporto, un magazzino...
Non mi appartiene più. Guardo le banconote nella mia mano destra, le
soppeso. “Forse dovrei contarle” penso. Rialzo lo sguardo e vedo
Blue Kiwi avvicinarsi di nuovo, in retro marcia. “Ti serve un
passaggio da qualche parte?” dice Mac. Neozelandese fatto e finito,
non solo nell'abbigliamento.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm;">
<br />
</div>
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-29927903890150460062013-04-14T02:22:00.000-07:002013-04-14T02:23:28.637-07:00Portarsi avanti, ma dove?<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh87uh1GuuqO-_j95aJtyTsjexfZniozWwnpHgVgjB_LIrDGmGbRkydWUKgFSipI1R9HBHPcqsqZJPw8x005DdRpu2dra61Csqua4F_-S1qJxVBnNCNNBk4SeeqotwjiTbNRCDvz14vFK-V/s1600/2013-04-12+16.43.42.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh87uh1GuuqO-_j95aJtyTsjexfZniozWwnpHgVgjB_LIrDGmGbRkydWUKgFSipI1R9HBHPcqsqZJPw8x005DdRpu2dra61Csqua4F_-S1qJxVBnNCNNBk4SeeqotwjiTbNRCDvz14vFK-V/s320/2013-04-12+16.43.42.jpg" width="240" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
La roulotte in cui viviamo ci costa
un'ora di lavoro a testa al giorno. In totale 104 ore il cui conto va
tenuto a parte rispetto al lavoro “normale” e che possiamo
gestire come vogliamo: scegliamo noi in che giorni farle e a che ora,
l'importante è che i conti tornino. Abbiamo calcolato che se ogni
giorno facciamo due o più ore a testa finiremo di pagare il nostro
debito entro un mese e poi potremo riposarci, abbassare il ritmo e
prenderci una sorta di mezza vacanza. Certo è dura, perché l'altro
lavoro, quello “normale”, certi giorni è impegnativo da spezzare
la schiena. Ma ogni fatica si sopporta se è per un motivo, se serve
a guadagnarsi un po' di libertà. Così ci portiamo avanti.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
La nostra stessa presenza qui a Wananka
è un portarci avanti, ha ormai il solo scopo di fare più soldi
possibile, soldi di cui potremo godere una volta in Asia.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Portarsi avanti... Ho iniziato da
bambino a mandare giù la pillola, quando i miei mi dicevano “Portati
avanti coi compiti, così poi sei libero di giocare e di fare quello
che vuoi.” Ma allora ero più saggio e non ci pensavo proprio. Non
era necessario che ci ragionassi sopra, la risposta era immediata
tanto era lampante l'illogicità del consiglio. “Perché dovrei
mettere un ostacolo tra me e ciò che voglio,” pensavo senza sapere
di pensare “quando ciò che voglio lo posso avere ora? Io <i>sono</i>
libero, non ho bisogno di fare i compiti per poi <i>sentirmi </i>libero
di giocare. Io gioco adesso e caso
mai, ma è tutto da vedere, caso mai <i>poi</i> faccio i
compiti.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Con un po' di arroganza, e certo di
nascosto, ho sempre fatto così ed ero felice. I compiti li ho fatti
raramente, sempre all'ultimo momento e quasi mai per intero. E le
scuole le ho finite, come quasi tutti. Solo che io mi sono divertito
un mondo, sempre in giro in bicicletta con la musica nelle orecchie.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Portarsi avanti sembra essere un
atteggiamento necessario per sopravvivere di questi tempi. Ogni
giorno facciamo qualcosa di cui godremo un qualche domani:
risparmiamo soldi per le vacanze, costruiamo case al pian terreno per
quando saremo vecchi, investiamo anni ed energie per conseguire
titoli di studio. Lavoriamo duro, sempre sotto stress, tanto da farci
scoppiare le arterie. E poi facciamo jogging, ci mettiamo a dieta,
prima che ci venga un infarto. Compriamo i cibi “bio”
all'Esselunga, come se bastasse una mela ammaccata a far pari con
tutte le levatacce, le sgommate ai semafori e le attese cariche di
preoccupazione. Mi ha colpito una frase che ho letto da qualche
parte, attribuita al Dalai Lama: “Quello che mi ha sorpreso di più
negli uomini dell’Occidente” dice “è che perdono la salute per
fare i soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano
tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera
che non riescono a vivere né il presente, né il futuro. Vivono come
se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai
vissuto.”
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Rinunce, frustrazioni, occasioni
mancate. E siamo contenti così, perché verrà il giorno in cui
godremo i frutti di tutto questo seminare. Quindi bene, avanti,
portiamoci avanti. Ma avanti dove?
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Oggi non mi porto avanti. Oggi cammino
seguendo la riva del lago, ascoltando i sassi scricchiolare sotto alle
suole. Dopo un centinaio di metri lo specchio d'acqua si restringe e,
senza che vi sia un confine preciso, il lago non c'è più. È
diventato fiume. La spiaggia si fa stretta come un sentiero e si
infila in un bosco. Io cammino per un quarto d'ora, fino ad arrivare
ad un'altra spiaggia, nascosta. Lì c'è un albero gigante il cui
tronco è squarciato alla base, forse da un fulmine di secoli fa.
Nonostante lo squarcio, o forse proprio grazie a quello, l'albero è
cresciuto in due direzioni diverse: un tronco verso la montagna,
l'altro a far ombra al fiume. Mi siedo sull'erba soffice a non fare
niente, tranne che respirare. Me lo disse una volta un osteopata di
Milano: “Ogni tanto ricordati di respirare, respirare profondo.”
Me lo diceva in merito ai miei dolori di schiena, al mio vivere
sempre teso e contratto che, secondo lui, mi avrebbe un giorno
portato ad un qualche malanno. E allora io respiro, rimango indietro
e mi porto avanti.</div>
Unknownnoreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-43463810232326907542013-04-07T23:09:00.000-07:002013-05-14T04:22:20.185-07:00L'arca di Natsuko<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: left; margin-right: 1em; text-align: left;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjN8FHZgE2imkTfRG4PJnN-fb8xwIBJFNFuhL0kAgXW88j8Uc_RrH5P8smfSV_QUQyjtVSEZxhB76RBkvY4AppfanP0Vm2ja70prRkIlAvbhc-4efowCicKcLuuneN81V2JW9ObAt2sgGFm/s1600/pollution+in+japan.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="214" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjN8FHZgE2imkTfRG4PJnN-fb8xwIBJFNFuhL0kAgXW88j8Uc_RrH5P8smfSV_QUQyjtVSEZxhB76RBkvY4AppfanP0Vm2ja70prRkIlAvbhc-4efowCicKcLuuneN81V2JW9ObAt2sgGFm/s320/pollution+in+japan.jpg" width="320" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Inquinamento in Giappone</td></tr>
</tbody></table>
<span style="text-align: justify;">Fin dai primi giorni qui all'Outlet
Holiday Park di Wanaka avevo notato quella presenza silenziosa e
delicata. Una donna dai tratti orientali, elegante nella semplicità
di jeans e maglietta, quasi sempre neri, stava seduta al tavolo da
giardino fuori dal bungalow che aveva affittato, accanto ad un cane
bianco e spelacchiato. Era di solito intenta a scrivere al suo Mac
Book, tanto che avevo ipotizzato fosse una scrittrice. Salutava
sempre, timida e cordiale, ogni volta che io o Laura le passavamo
davanti, indaffarati nei nostri compiti quotidiani. Sorrideva da una
distanza che mi sembrava pronta a farsi presenza, se solo qualcuno
avesse voluto andare oltre le formalità. Era evidentemente
vegetariana, dato che la incontravo spesso in cucina, intenta a
bollire ogni tipo di verdura nella sua pentola di terracotta. Mi
incuriosiva.</span><br />
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Poi un giorno sparì. Cioè, partì, e
io ci rimasi male. Ero troppo concentrato su me stesso, sul mio mal
di schiena e sul nuovo lavoro, e avevo perso un'occasione. Non sapevo
niente di lei: da dove venisse, dove andasse e perché. Venni solo a
sapere che aveva fatto richiesta per questo lavoro anche lei, ma
evidentemente io e Laura avevamo avuto la meglio.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
La riconobbi subito quando tornò,
circa un mese più tardi. Anche lei riconobbe sia me che Laura e ci
salutò col suo sorriso forse infelice, ma di certo sincero.
</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Viene da Okinawa, un'isola giapponese,
e si chiama Natsuko. Se n'è andata dal suo paese per via del
crescente inquinamento proveniente dalla Cina, dice, e perché il
Giappone è diventato un posto terribile in cui vivere. Si occupava
di animali abbandonati ed è partita portando con sé un cane e quattro gatti, tutti vecchissimi e malandati, tutti trovatelli che non è
riuscita a piazzare. In Giappone, dice, stavano sempre male. Uno dei
suoi gatti quasi non camminava più, ma arrivati in Nuova Zelanda ha
iniziato subito a stare meglio e nel giro di una settimana era
guarito.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Natsuko vorrebbe trasferirsi qui, ma
non riesce a trovare un lavoro. È troppo vecchia per richiedere,
come abbiamo fatto noi, il visto Working Holiday, mentre per
richiedere un visto di lavoro dovrebbe trovare qualcuno disposto ad
assumerla e ad accompagnarla nella procedura. Un bel problema.
Durante questo mese si era trasferita da alcuni amici in città, dove
era più facile muoversi tra annunci di lavoro e colloqui. Ma poi
quelli hanno dovuto cambiare casa e lei è tornata qui, con le sue
gabbie, i suoi animali e le sue casse di legno contenenti tutto ciò
che ha. Mi dispiace che non stia avendo fortuna: noi ne abbiamo avuta
molta, e non ne avevamo altrettanto bisogno.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Poi mi viene in mente che Laura e io ce
ne andremo presto e che il nostro posto sarà di nuovo libero. Glielo
dico, e Natsuko mi fa presente che si era già fatta avanti, ma senza
successo. Io fingo di non saperne niente, penso che la partita è di
nuovo aperta ora che i due italiani sono fuori dai giochi. Decido di
parlare con Glenn, il proprietario, e di fargli notare che questa
potrebbe essere un'occasione per tutti: lui troverebbe una
lavoratrice stabile, lei una via d'uscita al suo problema. Ma Glenn
glissa, dice che l'inglese di Natsuko è troppo limitato perché
possa lavorare qui. Io sgrano gli occhi: il suo inglese non è molto
peggio del mio.
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<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Glenn è una persona per bene,corretta
e generosa. Ma gli affari sono affari, e Natsuko un buon affare non
è, coi suoi animali fragili, la sua solitudine e i problemi di
visto. Lui non lo dice, ma è chiaro che la questione è tutta lì.</div>
<div style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;">
Ma Natsuko mi sorprende, non demorde.
Qui in Nuova Zelanda vorrebbe occuparsi di riforestazione, “perché
so” dice “quanto gli alberi siano importanti per la salute nostra
e dell'ambiente.” Le consiglio di spostarsi all'Isola Nord prima
che scada il suo visto turistico. “Là ci sono più possibilità”
le dico, ma capisco che lei ha scelto questo posto e che vuole
rimanerci. Non mi sembra giusto chiedere a chi ha le idee chiare di
ripiegare, di accontentarsi di qualcosa di diverso da ciò che ha
sognato per sé. Ha ancora due mesi di tempo.</div>
Unknownnoreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-3330750391246410830.post-28164135635646819162013-04-02T21:54:00.002-07:002013-04-02T22:00:58.314-07:00Il cattivo in questa storia è quella voce<div style="text-align: justify;">
Il cattivo in questa storia è quella voce. “Fermati,” dice, “fai lo zaino e tornatene a casa.
Mentre sei lontano la terra del cortile beve ogni goccia d'olio che il motore della tua macchina lascia cadere. Il sole sbiadisce le persiane chiuse e la ruggine si sta mangiando, giorno dopo giorno, la cassetta della posta.
<br />
Torna a casa allora, prima che i tuoi amici si dimentichino dei tuoi occhi, non ebbri ma neanche sobri, alla seconda pinta di Chouffe. Affrettati, finché sai di trovare tua nonna al tavolo della cucina, sola coi suoi pentolini di rame appesi al muro. E tuo nonno, anche lui solo nella sua piccolissima stanza, che ha costruito con le sue mani ormai quasi una vita fa.<br />
Muoviti, o ti ritroverai in un posto troppo cambiato, che non riconoscerai e che non ti riconoscerà più. E allora straniero sarai per davvero, ma non ti piacerà, perché non avrai più una casa a cui tornare.”</div>
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<br /></div>
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgXBIP3vJa-O-yWtGvlzLWNo3YKWFe_XrAWra4yMWryDGmt6n-Zs9TO3GJGsM-nIOxUmGleJz95nxVFFK2uMYsN6n6aADr2lV-WnIlX25Olq5dCFnQ5S4zZE2Bs7aH6s-FKSG6MHUh9NMt1/s1600/IMG_7708.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="265" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgXBIP3vJa-O-yWtGvlzLWNo3YKWFe_XrAWra4yMWryDGmt6n-Zs9TO3GJGsM-nIOxUmGleJz95nxVFFK2uMYsN6n6aADr2lV-WnIlX25Olq5dCFnQ5S4zZE2Bs7aH6s-FKSG6MHUh9NMt1/s400/IMG_7708.JPG" width="400" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">E' arrivato l'autunno (foto di Laura)</td></tr>
</tbody></table>
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<br /></div>
Unknownnoreply@blogger.com8