mercoledì 26 novembre 2014

Divieto di sosta. Cronaca di un ritorno

Divieto di sosta su cielo lombardo
Quattordici mesi fa un aereo della Etihad, partito da Pechino una manciata di ore prima, mi ha scaraventato a terra all'aeroporto di Malpensa. Alla vigilia di un viaggio è logico essere carichi di aspettative. Ma non c'è meta sulla faccia della terra che metta allegria e angoscia come la propria casa, soprattutto se si è lontani da tanto tempo. Era il 16 luglio e faceva caldo. Il cielo non era limpido come nelle migliaia di volte in cui avevo immaginato quel momento, ma di un grigio piatto che definirei tipicamente lombardo.

Da allora non ho scritto più una riga. Non che non avessi nulla da riferire, ma questo era nato come un diario di viaggio, in cui si raccontava di luoghi remoti, gente bizzarra incontrata per strada, aneddoti ed equivoci linguistici. Non mi sentivo in diritto di ammorbare la gente sulle poche soddisfazioni del mio ritorno.
Balle. La verità è che non mi sentivo più in grado di raccontare, ora che non c'erano più nomi esotici dietro ai quali farmi forte. Sì, perché il fatto di essere lontani da casa, per qualche ovvio motivo, conferisce un'autorevolezza e un credito spropositati. È bello, ma anche imbarazzante.

Mi rendevo conto però che tacere era come asserire che lo straordinario non alberga nel quotidiano, che viene sempre e solo dall'altrove. Invece, come ho scoperto a mie spese, il ritorno può essere un'esperienza più sbalorditiva di molte partenze. Di sicuro più anonima, inosservata, difficile da raccontare. Tutti possiamo farci un'idea di una traversata in barca in un mare caraibico. Ma come potevo spiegare di quella volta che sono rimasto due ore in un bosco, con la schiena appoggiata ad un albero, inebetito dall'idea di non avere più un posto da chiamare casa? Ero di nuovo in Italia da circa tre mesi e mi ero accorto che il luogo a cui avevo pensato di tornare non era che un'illusione cresciuta durante la lontananza. Le mie radici, rimaste sospese per tutto quel tempo, non attecchivano più al terreno d'origine. 

Cosa mi ha riportato a casa?  Un sentimento inedito; un impasto dalle percentuali incerte di nostalgia, stanchezza e mal di schiena. C'era la frustrazione per la continua precarietà logistica e la voglia di tornare, più saggio e più forte, per iniziare una nuova vita.
Inizialmente il ritorno è stato un tuffo piacevolissimo in tonnellate di pizza, nella famiglia, nei vecchi amici. E una serie di visite nei luoghi che, in preda alla nostalgia, mi ritrovavo di fronte quando chiudevo gli occhi in Guatemala, in Nuova Zelanda, in Cina: il cortile in cui giocavo da bambino, un sentiero nel bosco, un casello autostradale. A migliaia di chilometri di distanza mi capitava di sentirne gli odori, di percepirne i suoni.
Poi la festa è finita. Tante rimpatriate, tante birre, tanti “Allora, racconta!”. Tante pacche sulle spalle. Ma in fondo agli sguardi leggevo sottotitoli amari alla parola bentornato: “Ora basta barare con la storia del giramondo, ora si gioca alle stesse regole. E sono cazzi tuoi.”

Avevo le idee troppo chiare. Aspettative troppo alte. Pensavo: se ho raggiunto con successo certi obiettivi – casa, lavoro, relazioni sociali – in paesi che non erano il mio, qui di sicuro sarà più facile. Sono nato e cresciuto qui, conosco la lingua parlata e quella taciuta. Basta sapere dove voglio arrivare e ci arrivo.
Ho provato a prendermela comoda, a fare tesoro delle lezioni imparate là fuori. Grazie a Michael, negli Stati Uniti, avevo capito che il lavoro che fai ti deve piacere: non puoi sprecare il tuo tempo a ingoiare bocconi amari per soldi. Con Steve, in Nuova Zelanda, avevo imparato che non devi per forza abitare in mezzo al cemento solo perché sei nato alle soglie di Milano. Grazie ai ragazzi di strada di Città del Guatemala avevo intuito che anche ciò che è molto difficile non è impossibile.
Sceso da quell'aereo avevo un'insana fiducia in me stesso che mi portava a pensare che non c'era alcuna fretta di mettersi in coda alle otto del mattino su qualche Statale. Una fiducia però sfiancata da una domanda insistente, che mi sentivo rivolgere cento volte al giorno. “Hai trovato lavoro?” Condita, a seconda di chi la poneva, con note di sincera preoccupazione, considerazioni sulla crisi e sulla vergogna del sistema politico italiano, offerte di impiego buone per tamponare in attesa di un lavoro vero... Ma non ero disposto ad accontentarmi di un lavoro qualsiasi. Preferivo godere del mio tempo piuttosto che venderlo ad altri senza criterio.

Ma il punto non era il lavoro. Il punto non era il luogo in cui abitavo. Il punto era l'abisso emotivo nel quale ho rischiato di affogare. 
Ci ho riflettuto e queste sono le mie conclusioni: puoi anche essere il primo uomo sulla Terra a scoprire l'origine dell'Universo; puoi incontrare Dio alla sagra del cinghiale e vedere che faccia ha. Ma se non sei in grado di dirlo agli altri non ti serve a niente. La tua vita resta uguale a prima e tu rischi di impazzire. 
Io per fortuna non vado spesso alle sagre di paese. Mi ero solo chiarito un poco le idee su come volevo vivere. Ma non ho saputo entrare in sintonia con chi in quei due anni era rimasto a casa, spiegare quello che pensavo e volevo. Mi sentivo alieno, un cavallo dal benzinaio.

A distanza di tempo continuo a sentirmi così. Dicono che gli alcolisti restano alcolisti per sempre, anche se non toccheranno mai più un goccio. Per me è lo stesso: potrò anche restare qui fino all'ultimo dei miei giorni, ma in cuor mio sono uno che vuole partire. Partire come tendere a qualcosa di meglio, come ricerca continua che non dà alcuna importanza alla meta. 
Ci penso affacciato all'unica finestra di casa mia, quella del bagno, dove il panorama è un muro grigio che delimita una casa abbandonata dall'altro lato della stretta via. Mi appoggio coi gomiti al davanzale, un po' scomposto a causa della lavatrice che mi lascia appena lo spazio per la gambe. Oggi piove, l'acqua anima il quadro alterandone la trama, deformando i contorni e diluendo i colori. Attaccato al muro grigio con quattro viti, proprio all'altezza del mio sguardo, c'è la metafora perfetta: un divieto di sosta. È così che mi sento. In lontananza mi par di vedere la sagoma di un uomo col cappello di ghisa. Ha in mano un blocchetto per le contravvenzioni. Non posso stare fermo qui ancora a lungo.

mercoledì 17 luglio 2013

Stiamo arrivando. Forse siamo già lì!

Quel pomeriggio di giugno me ne stavo seduto sui gradini d'ingresso del Viet Lotus Hotel a fissare la pioggia. Una pioggia battente che, sul centro di Hanoi come su tutta l'Indocina, avrebbe continuato a scendere per i prossimi tre mesi. Ma non era affar mio, questo lo sapevo: l'indomani Laura e io saremmo partiti in treno per il confine cinese e presto avremmo cambiato latitudine, orizzonte e stagione.
Non so da quanto tempo fossi lì, mi ero semplicemente imbambolato e quasi non sentivo più i clacson e lo sciabordare dell'acqua sotto le ruote dei taxi. Il traffico continuava nel suo solito tenore; la gente mi passava davanti agli occhi nelle mantelle colorate, in bici, a piedi o in motorino. Ma io non vedevo i dettagli, non percepivo ogni passante come un individuo. Vedevo solo macchie liquide di colore.
Una donna camminava lungo il marciapiede dall'altro lato della strada. Non so perché misi a fuoco proprio lei. Procedeva senza schivare le pozzanghere, avvolta nella sua mantella nera. La sua faccia rimaneva nell'ombra del cappuccio e non riuscivo a darle un'età, non potevo dire se fosse bella o brutta. La vidi attraversare la strada proprio all'altezza in cui mi trovavo io, senza guardare a destra o a sinistra. Veniva verso di me e ora potevo vederle il viso: aveva un'espressione che giudicai saccente, di quelle facce che hanno le persone che la sanno lunga e stanno per rivelare, a te che non capisci un cazzo, come gira il mondo.
Mi si parò davanti e io mi sentii subito in imbarazzo. Ero anche irritato per esser stato privato del mio status di osservatore e per il fatto di dover ora partecipare a una qualche conversazione.
“Hello.” dissi.
“Non mi riconosci?” mi rispose in italiano, mentre la sua mantella nera mi gocciolava sui piedi bagnandomi i sandali.
La guardai più attentamente: non mi ricordava proprio nessuno. E poi, pensai, mi sarei ricordato di un'asiatica che parla italiano. Diventai diffidente, come sempre. Pensai che il gestore dell'albergo le avesse detto che ero italiano e che, col pretesto di quella lingua imparata chissà come, avessero ordito un piano per abbindolarmi e derubarmi.
“Non credo che ci conosciamo.” dissi.
“Sicuro che non ci siamo visti prima?”
“Assolutamente sicuro.”
Rimasi in silenzio. Toccava a lei ora: doveva dirmi chi era. Oppure poteva spremersi in un sorriso imbarazzato, se ne era capace, e dirmi che si era sbagliata. Invece avvicinò le labbra al mio orecchio. La sua mantella mi gocciolava addosso, bagnandomi i pantaloni e la maglietta. Mi sussurrò il suo nome.
“Non conosco nessuna Lara” dissi.
Roteò gli occhi verso l'alto, tra il divertito e lo spazientito.
“Non Lara, Lora!”
“Nemmeno.”
“Ma allora sei proprio stupido! L'ora! ELLE-APOSTROFO-ORA.”
Ma certo, l'ora! Sapevo che sarebbe arrivata e adesso che ci pensavo aveva ragione lei: ci eravamo già incrociati. Ma ogni volta avevo trovato un pretesto per evitarla, infilandomi in un negozio all'ultimo momento, attraversando la strada, o cacciando la testa sott'acqua. L'ora di tornare a casa...

Quando la donna sparì (quando tornò a non esistere) rimasi a riflettere. Passai un momento difficile su quel gradino. Mi accorsi che un'ombra si era allungata su di me, silenziosa, senza che me ne fossi accorto. Qualcosa si era rotto, una luce s'era spenta da qualche parte e io non trovavo l'interruttore. Non avevo nemmeno in tasca un fiammifero. Buio.
Iniziai a farmi delle domande, a darmi delle risposte. Non ero andato fin là per ammalarmi di un male che mai in vita mia mi aveva sfiorato. Non avevo attraversato mezzo mondo per sentirmi oppresso come quand'ero un uomo bloccato nel traffico e avevo un orologio al polso.

Immaginate di essere stati a una festa di matrimonio. Avete mangiato e bevuto a volontà, senza badare al portafoglio né al fegato, e ora siete stanchi ma soddisfatti, pronti per tornare alla normalità e ricordarvi di questo giorno magico. Entrate in casa e quando accendete la luce tutti i vostri amici sono lì, con dei cappellini buffi in testa: “Sorpresa!” Vi eravate dimenticati che oggi è anche il vostro compleanno ed è appena cominciata un'altra festa. Intorno a voi c'è musica, c'è da bere e da mangiare, ma voi avete altro per la testa.
È più o meno così che mi sentivo in quel momento. Pensai che sarebbe stato uno spreco continuare ad attraversare paesi e continenti senza riuscire a vedere più niente, senza avere fame.

Tornai dentro e ne parlai con Laura. Anche lei era stanca; aveva raggiunto un livello d'entusiasmo minimo e non aveva certo la forza per risollevare il mio, fisiologicamente più basso. Cercammo di ragionare insieme, mettendo su un piatto della bilancia il nostro progetto (non ufficiale ma nemmeno segreto) di tornare a casa via terra attraversando la Cina, la Mongolia, la Russia, eccetera. Oltre alle infinite traversate c'erano anche da considerare i problemi relativi ai passaporti e ai visti: tutti guai che solo un anno prima avremmo affrontato con spirito d'avventura e che ora ci sembravano solo insormontabili rotture di coglioni. Sull'altro piatto della bilancia ci abbiamo messo la stanchezza e la voglia di essere a casa, tra le nostre cose e i nostri cari. E la voglia di tornare ai nostri progetti, alle migliaia di cantieri aperti con la fantasia negli ultimi due anni alla voce “Quando torneremo...”

Se il nostro viaggio era un cerchio, quel cerchio andava chiuso. Su questo non avevamo dubbi. Forse l'errore era stato pensare di doverlo chiudere sulla carta geografica, mentre bastava farlo nella nostra testa.
Ci abbiamo messo un altro mese a fare di quelle sagge parole un'intenzione, e infine un'azione. Ormai avevamo il visto per la Cina, e la Cina era ciò che avevamo aspettato per tanto tempo. E poi, poteva anche darsi che la Cina stessa ci avrebbe rigenerati, che ci avrebbe ridato le energie e la voglia di farci frullare ancora sugli autobus, di farci stipare nei vagoni di terza classe, di passare notti insonni in stanze troppo calde.
Ma non è successo. A Xi'An, nella lussuosa suite di un ostello (!), il giorno del mio compleanno, abbiamo messo uno stop a tutti i se e a tutti i ma. Abbiamo comprato un biglietto aereo. Per Mosca? Per Berlino? Parigi, Londra, Riga, Helsinki? No. Per Milano. Tutte le altre sarebbero state inutili consolazioni simboliche di cui non avevamo più bisogno. Tanto valeva avere il coraggio di tornare, così come avevamo avuto quello di partire. Appena la compagnia aerea ha confermato l'ordine via e-mail abbiamo iniziato a ridere come due scemi. Due scemi contenti.


Stiamo arrivando. Forse siamo già lì!

domenica 14 luglio 2013

Ultime da Pechino: tenetevi pronti

Leo, il mio collega cinese in Nuova Zelanda, mi aveva descritto la Cina come un paese sovrappopolato, caotico ai limiti dell'invivibile. Lui veniva da Pechino ed evidentemente non era mai stato al Sud. Probabilmente frequentava poco le remote zone di provincia, così come io non sono mai stato in Sardegna o in Basilicata.
Qui ad Anyang, come a Hekou, la tranquillità regna sovrana. Il traffico è più che sostenibile, fatto più che altro di biciclette elettriche, e ogni individuo ha il suo spazio. Non c'è certo da sgomitare per camminare sui marciapiedi o per entrare nei negozi.
Ci rimaniamo cinque giorni, in attesa del treno per Pechino. Trascorriamo il tempo nell'ozio, nella spaziosa stanza del 7 Days Inn o camminando per il quartiere. Stiamo bene: ci sentiamo a nostro agio nella quiete e nei ritmi lenti di una città che non ha motivo di correre.
Mangiamo quasi sempre ravioli al vapore in un ristorante dietro l'angolo: è il nostro organismo che ce lo chiede. Basta schifezze. Basta esperimenti ai suoi danni. La cuoca è molto gentile con noi. Ci lascia sbirciare nelle padelle in modo che possiamo indicare il ripieno che preferiamo: funghi, carne, verdure... perché, ovviamente, qui nessuno parla inglese e noi il cinese non l'abbiamo certo imparato in due settimane.
La gente è curiosa di noi, ancor più di quanto lo siamo noi di loro. L'ultimo giorno di permanenza lasciamo libera la stanza e ci sediamo sui divani della hall, in attesa che sia ora di andare a prendere il treno. Due uomini e una donna si avvicinano, ci guardano, parlano di noi tra loro. Poi si siedono vicino a noi e ci fanno delle domande, ma noi non capiamo niente e glielo diciamo, in un'altra lingua. Quelli allora vanno avanti argomentando qualcosa sul fatto che noi non capiamo niente e via così. Per darci un taglio chiedo a Google di tradurre per me: “Io non capisco il cinese.” Mostro il display del telefono a uno dei due uomini e quello fa capire che non mi devo preoccupare. Ma poi, come se si fosse già dimenticato di quanto ha appena letto, prende in mano il mio cellulare e inizia a farmi altre domande, immagino riguardo a certe funzioni che anche lui vorrebbe avere sul suo enorme smartphone. È imbarazzante e divertente al tempo stesso. Più imbarazzante che divertente a dire il vero. Prendo dalla tasca dei pantaloni il mio taccuino per annotare quanto quella situazione sia imbarazzante e li ritrovo tutti e tre alle mie spalle, a commentare la mia scrittura, così strana ai loro occhi.

Che Leo non dicesse il falso l'avevo capito già alla stazione di Xi'An e sul treno che ci ha portati fin qui. Ma è alla stazione di Pechino capisco esattamente cosa intendeva. Non credo di essere in grado di descrivere la quantità di esseri umani che brulicano, si muovono, si scontrano. Più di un formicaio, più di una miriade. Un puttanaio insomma.
Appena scesi dal treno non possiamo che seguire la fiumana, che rallenta sempre più fino a fermarsi. Ma noi non sappiamo perché: non riusciamo a vedere oltre le centinaia di teste che abbiamo davanti. Lo scopriamo quando viene il nostro turno: non è altro che un ordinario imbottigliamento all'imbocco delle scale del sottopassaggio.
La metropolitana di Pechino è moderna e ben sviluppata: 14 linee, treni ogni 3-4 minuti nelle ore di punta e ottimi collegamenti. Ma non basta per avere la certezza di riuscire a entrare nel vagone.
Questo capita anche a Milano, è vero, anche se non esattamente allo stesso livello. Ciò che a Milano non succede, però, è di trovarsi imbottigliati nei sottopassaggi di raccordo tra una linea e l'altra, di metterci dieci minuti per raggiungere una scala mobile.

Piede sinistro, piede destro. Un centimetro alla volta. Il tale che cammina accanto a me non guarda nemmeno dove va, si lascia portare dalla corrente mentre legge e scrive messaggi sul suo telefono. Probabilmente vive questa scena tutti i giorni. Anche quello accanto a lui ha il telefono in mano, anche quello davanti. Praticamente tutti hanno in mano il cellulare, appoggiato alla schiena della persone che li precede. Sento qualcosa di freddo toccarmi il collo, penso sia un insetto, mi giro di scatto: è quello dietro e mi guarda indispettito. Quasi gli facevo cadere il telefono.
Ci muoviamo tutti in modo meccanico, con lo sguardo altrove. I piccoli passi di centinaia di piedi mi fanno tornare in mente i bambini di Another Brick In The Wall, il video dei Pink Floyd, che alla fine finiscono nel trita-carne. Oppure si ribellano e distruggono tutto.

A Pechino troviamo anche il tempo di fare il nostro dovere di turisti: Muraglia Cinese, Città Proibita e Piazza Tienanmen. Fatto, fatto, fatto.
La stanchezza ha raggiunto livelli mai visti. Bisognerà farci qualcosa, e una mezza idea ce l'abbiamo già. Tenetevi pronti.


sabato 13 luglio 2013

Kunming-Anyang: la Cina in treno

A Kunming, capoluogo dello Yunnan, trascorriamo circa cinque giorni. Giorni oziosi fatti di brevi passeggiate, chiacchiere da ostello con altri viaggiatori e pasti consumati sui marciapiedi, ai tavoli di ristoranti improvvisati che offrono carni alla griglia, riso, noodles e ravioli al vapore.
Più o meno lo stesso copione si ripete a Xi'An, una città antica (più di 3100 anni di storia), capoluogo dello Shaanxi. Solo che qui la questione alimentare si risolve in ristoranti al chiuso, in cui sperimentiamo pietanze mai viste prima. Costante è la difficoltà di comunicazione, che ci porta a non sapere mai con certezza cosa abbiamo ordinato e ad affidarci alla fortuna e alla buona fede di chi ci sta servendo.
Kunming e Xi'An. Due grandi città, due capoluoghi. Iniziamo a sentire il richiamo della provincia, del posto tranquillo. Siamo diretti a Pechino, la Grande Capitale, ma nulla ci vieta di fare una tappa intermedia. Così, consultata la mappa delle ferrovie, scegliamo Anyang. Una città di una certa rilevanza storica, ma luogo di scarso interesse turistico, in cui non c'è motivo di andare. È il luogo che fa per noi.

Il vasto piazzale della stazione di Xi'An è affollato di gente che si muove in tutte le direzioni. Attraversarlo vuol dire muovere piccoli passi, schivare di continuo, non lasciarsi scoraggiare dalle urla e dalle spinte di chi, senza guardarci in faccia, vuole passarci oltre. Nella confusione generale capiamo che c'è una lunghissima coda da fare per entrare nella stazione. Uno alla volta si passa accanto alla guardiola, dalla quale un poliziotto ammette solo le persone munite di biglietto. È una seccatura, ma se non lo facessero la stazione rimarrebbe semplicemente bloccata. Una volta dentro, infatti, siamo come due pesci in un acquario troppo piccolo. Sono solo le 19:00, il nostro treno è in partenza alle 21:30 e non ci resta che fare come tutti: scegliere un punto a caso del pavimento, sederci sugli zaini a guardare i piedi della gente schivarci e farsi strada nella corrente.
Verso le 20:00 il numero del nostro treno compare sul tabellone luminoso. Ci mettiamo in coda. C'è già molta gente accampata sul pavimento: pochi hanno avuto la fortuna di trovare una sedia libera. Qualcuno mangia, qualcun altro gioca a carte. Famiglie, gruppi di amici, anziani con grossi sacchi di iuta al seguito. Ci sediamo di nuovo sugli zaini ad aspettare che aprano le porte metalliche e che ci facciano accedere al binario. Accanto a noi una mamma fa fare la cacca al proprio bambino nel piatto in cui ha appena finito di mangiare. Abbandonerà il tutto con noncuranza sotto il sedile sul quale è seduta. Alle 21: 20 la calca si serra a ridosso delle porte, ma quelle non si aprono. Venti minuti più tardi, mentre sto fissando il piccolo fazzoletto di pavimento libero davanti ai miei occhi, sento un boato. Il tabellone luminoso comunica che il treno partirà alle 22:20. Manca l'aria e fa caldo, ma non c'è molto da fare.

Nel salire sul treno mi trovo faccia a faccia con un tale. Ha un grosso sacco di iuta caricato su una spalla e  un ventilatore, con piantana e tutto, nell'altra mano. Io ho il solito zainone sulle spalle, lo zaino piccolo sul davanti e la chitarra in mano come Toto Cutugno. Siamo all'entrata del vagone, già affollato di viaggiatori. Non ci passiamo. Le persone in fila dietro di me si bloccano sui gradini e mi spingono in avanti; l'uomo col ventilatore mi spinge indietro. Per farla breve, faccio l'errore "culturale" di indietreggiare. Mi troverò a percorrere un intero vagone in retromarcia, ad impigliarmi nella maniglia di una porta e prendere a zainate praticamente tutti i passeggeri, più divertiti che infastiditi dalle mie goffe manovre. L'uomo di fronte a me continua ad avanzare, io non trovo un'ansa nella quale ritirarmi e alla fine non mi resta che spingere anch'io, spremermi contro quel tale e contro la gente ai lati finché non riusciamo a sgusciare via, ognuno nella sua direzione. Se l'avessi fatto subito avrei evitato di congestionare il traffico e di passare per ridicolo, dato che non mi sembra essere una questione di educazione. La gente è semplicemente troppa e lo spazio troppo poco: per starci non c'è altro modo che stringersi. Stringersi molto.

Ripercorro il vagone e raggiungo Laura, che ha già preso posto. Noi siamo fortunati: per quanto i sedili siano scomodi e angusti, noi abbiamo i posti assegnati. C'è talmente tanta gente che si sposta in treno che, nonostante la rete sia moderna e ben sviluppata, vengono venduti più biglietti di quanti siano i posti a sedere: i cosiddetti posti "in piedi". Noi abbiamo comprato i biglietti con cinque giorni di anticipo ed erano gli ultimi due sedili rimasti su questo treno. Ci sarebbero i vagoni con le cuccette, o altri con sedili più grandi e reclinabili, ma i posti erano esauriti per settimane.

Seduta di fronte a noi c'è una ragazza che parla un po' di inglese. Ci offre delle piccole prugne e vuol fare un po' di conversazione. Siamo gli unici stranieri nel vagone (e forse in tutto il treno) e la gente è curiosa. Molti chiedono alla ragazza da dove veniamo: "Yìdàlì" risponde lei, e quelli annuiscono guardandoci.
Abbiamo tutta la notte davanti. Molte donne hanno comprato un solo biglietto e tengono in braccio i loro bambini. Finiranno col dormire per terra e lasciare il sedile ai figli. C'è gente seduta sul pavimento lungo tutto il corridoio, gente davanti ai bagni, gente sui gradini, gente sulle soglie, gente che dorme in piedi accasciata sui poggiatesta dei sedili.
Ma non uno screzio. Non un litigio. Solo tanta pazienza. Ogni volta che qualcuno deve andare in bagno tutti si svegliano e senza dire beh si alzano, lasciano passare, si risiedono. Lo stesso al passare del carrello dei cibi o ad ogni stazione, quando scendono e salgono i passeggeri con le loro valigie. Quando a scendere è un passeggero che aveva un posto a sedere, le persone usano quel sedile a turni, comunicando i cambi con semplici sguardi.
A me manca un po' il respiro. Sono seduto tra Laura e una signora con la figlia in braccio; posso appena muovere i piedi di qualche centimetro, incastrato come sono tra le gambe degli altri, i bagagli, la chitarra... E poi le sigarette, anche se il cartello dice che non si può. Certo, le persone vanno a fumare nello spazio tra un vagone e l'altro, ma che differenza fa? L'aria è pesante e non c'è altra soluzione che aspettare con pazienza l'indomani mattina.

Ci sveglia un sole pallido pallido. Una luce grigia illumina il vagone. Il treno entra nella stazione di Anyang alle otto del mattino e la gente ci aiuta a caricarci gli zaini in spalla, ci fa spazio per uscire. Lasciamo loro altri due posti liberi da spartire.
Per prima cosa compriamo il biglietto per Pechino, con largo anticipo, determinati a viaggiare di giorno e su un sedile comodo. Ma tutto ciò che troviamo, dopo un'ora di coda allo sportello, sono due posti come quelli che abbiamo appena lasciato, per un treno che parte quattro giorni dopo.

mercoledì 10 luglio 2013

Siamo onesti: siamo ipocriti

La piazza del centro di Kunming è un enorme monumento al capitalismo più genuino, quello entusiasta degli albori, che ancora non ha imparato a mascherarsi dietro i banchetti per le adozioni a distanza, o a scaffali di prodotti biologici. Una zona a traffico limitato assediata da decine di banche, luccicanti centri commerciali, fast food americani.

Proprio in uno di quei fast food ci eravamo rifugiati, presi da fame improvvisa. (D'accordo: che senso ha andare in Cina per poi mangiare da McDonald? E soprattutto, che senso ha mangiare da McDonald? Ma mettiamo per un attimo da parte gli integralismi. Un occidentale, per quanto dica peste e corna dell'Occidente – seduto sulla poltrona di casa sua – sente poi bisogno dell'Occidente quando i punti di riferimento vengono a mancare. Come un bambino abbandonato torna sempre, anche se con rancore, a cercare i suoi vecchi, così l'occidentale, almeno una volta al mese, si trova a cercare conforto tra le braccia tossiche della Grande Distribuzione).

Inizia a piovigginare e stiamo per tornare verso l'ostello. Verso l'uscita della piazza c'è una ragazzina, in piedi accanto a una fioriera. Ha una frangia di capelli dritti come spaghetti che le copre completamente gli occhi, un paio di jeans e uno zainetto dagli spallacci lunghi che le poggia sul sedere. Non ne ho mai letto uno in vita mia, ma mi fa pensare a un personaggio di un manga giapponese. Con lei ci sono un uomo e una donna che potrebbero essere i genitori. Lui, in una polo lilla, preme dei tasti su un piccolo lettore mp3 e fa partire la base di una canzone cinese. Il suono esce pulito e potente da un amplificatore poggiato sul lastricato, al qual è collegato anche un microfono. L'uomo attacca a cantare sulla base con una voce impostata e vibrante, con la sicurezza di chi conosce il proprio lavoro a memoria. Solo sugli acuti mi sembra che stoni un poco, ma ciò nonostante i passanti iniziano a radunarsi intorno ai tre e sembrano entusiasti. La donna inizia una danza armoniosa e saltellante, facendo svolazzare la larga gonna. La gente deve arretrare un poco per lasciarle spazio e le fa cerchio intorno.
Alla fine della prima canzone i due adulti sembrano incitare la ragazzina a cantare. Lei non reagisce. Non dice nulla; non scuote la testa per dire no, non prende il microfono per dire sì. L'uomo canta una seconda canzone. La donna ricomincia a ballare. Qualcuno, prima di andarsene, lascia una banconota nella custodia floscia dell'amplificatore.
Finita la seconda canzone prende il microfono la ragazzina. Ora è chinata a terra, con il lettore mp3 in mano. Inizia a cantare tenendo la bocca lontana dal microfono, seguendo la voce originale di una canzone. Canta bene, comunque: soave e intonata. Penso che forse è agli inizi e sta prendendo coraggio. Alzo lo sguardo per vedere le facce di quelli che forse sono i suoi genitori: saranno fieri? Commossi? Severi?
Sono semplicemente spariti. La musica smette d'improvviso, come se avessero tagliato i fili della corrente. Vedo la ragazzina discutere con un tipo sui trenta, in camicia bianca e scarpe lucide, che nel frattempo sta chiamando qualcuno dal suo gigantesco smartphone. Compaiono delle guardie private e la ragazzina raccoglie di corsa la strumentazione. C'è la polizia poco distante, quella vera. Gli agenti chiacchierano distrattamente al chiuso di una piccola stazione di controllo, ma non sembrano occuparsi di queste cose. Le guardie private, appurato che la musica è cessata, lasciano stare la ragazzina e partono alla ricerca dei due adulti (che ormai saranno lontanissimi).
Nel silenzio lasciato dall'amplificatore spento mi accorgo che c'è altra musica nell'aria, proveniente da altri angoli della piazza. Altre voci di bambini, anche quelle troncate una ad una al passare delle guardie.
Alcuni minuti più tardi la ragazzina dalla lunga frangia si riunisce ad altri bambini, quasi tutti più piccoli di lei. In tutto sono poco meno di una decina, alcuni con un amplificatore caricato sulla schiena, altri con un microfono in mano. Confabulano tra loro e decidono che è meglio andarsene di lì.

Mettete pure, accanto al banco dei prosciutti, un banchetto per adottare (si intende a distanza) un tenero negretto del Burkina Faso (ma dov'è il Burkina Faso?). Ma non metteteci sotto gli occhi i bambini poveri del quartiere. Quelli non sono teneri. Quelli ci ricordano chi siamo stati ieri e chi siamo veramente oggi.

sabato 6 luglio 2013

Da Hekou a Kunming, the Toilet Experience

Lasciamo la desolata stazione di Hekou in tarda mattinata. Il bus scivola dentro a un'autostrada nuova di zecca: asfalto regolare, guardrail e arredi impeccabili, stazioni di servizio immacolate e deserte. Intorno a noi coltivazioni a perdita d'occhio, terra rossa e terrazzamenti. 
C'è un rumore fastidioso a bordo, una specie di beep intermittente che comincia di quando in quando. Inizialmente i beep sono distanti l'uno dall'altro, ma si fanno progressivamente più frequenti, fino ad essere quasi un suono continuo, per poi scemare di nuovo e scomparire. Si tratta di un marchingegno che, oltre a perforare i timpani della gente, serve all'autista per sapere dove sono i controlli della velocità. Ma potrebbe anche farne a meno, dato che questi controlli sono ovunque.
A parte quel suono fastidioso, non mi sembra vero di viaggiare ad una velocità accettabile, su una strada dritta e priva di buche, senza sorpassi, sbandate e brusche frenate. Ma la festa dura poco, perché l'autostrada è interrotta (forse non è stata ancora completata). E allora è all'autista che non sembra vero di potersene finalmente infischiare dei controlli e lasciarsi andare a sorpassi, sbandate e inchiodate a suo piacimento.
Inizialmente passiamo attraverso una città dalle decine di semafori, tutti rossi, a distanza regolare l'uno dall'altro. Poi, appena fuori dalla zona urbana, l'asfalto viene a mancare per un po' ed è come essere in barca. In mezzo alla tempesta. A un certo punto rimaniamo bloccati in un ingorgo, in attesa che una gru rimuova un enorme pannello pubblicitario crollato in mezzo alla strada.
Il nostro autista, va detto, è proprio uno stronzo e ce la mette tutta per rendersi antipatico. Se c'è una coda, lui sente il dovere morale di occupare l'altra corsia e sorpassare tutti. Se c'è un valido motivo per rallentare, lui accelera. Poi inchioda.

Finalmente una sosta: mi serve un bagno e sto morendo di fame. Ancora non lo so che risalirò sull'autobus con la pancia vuota e con la vescica piena, pur avendo pagato sia per il pranzo che per l'entrata al bagno. Laura non ha appetito, dice. L'ultimo tratto di strada le ha dato la nausea e preferisce rimanere a bordo.
Ad un lato dello spiazzo, delimitato da costruzioni fatiscenti e spazzatura, c'è una piccola mensa. C'è poco tempo e la gente si accalca in una coda cinese: chi si impone sugli altri viene servito per primo. Io, almeno secondo Darwin, sarei destinato all'estinzione, se non altro per il fatto che non so una parola di cinese. Decido però che voglio sopravvivere: mi piazzo davanti all'espositore e indico le due cose che mi sembrano meno disgustose. La signora dall'altro lato del banco spiaccica due cucchiaiate di cibo in un vassoio di metallo a scompartimenti (l'ultima volta che ci ho mangiato dentro è stato alla mensa dei poveri a Città del Guatemala) e mi liquida in fretta, dandomi come resto delle banconote impiastrate di salsa di soia.
Riuscirò a mandar giù solo una parte di quel cibo. In uno degli scompartimenti, quello che mi era sembrato essere pollo si è rivelato un avanzo di macelleria: ossa e articolazioni di animali vari con ben poca carne attaccata, e comunque piccante da farmi grondare di sudore. Per fortuna nell'altro scompartimento riuscirò a isolare dei brandelli di uovo e qualche pezzo di pomodoro.
Bene. Di fame non si muore per così poco. Almeno fatemi andare in bagno.
C'è una scritta di vernice azzurra su di un muro grigio: WC. All'ingresso una signora mi chiede 1¥. Pago e faccio un passo avanti, oltre il muretto che mi separa dalla soglia dei bagni. E sulla soglia rimango, pietrificato, per mezzo minuto buono. Davanti a me c'è un tale, accovacciato. Fuma una sigaretta e sembra rilassato. Sta cagando. Sotto di lui un buco pieno di merda. Cerco di capire come dovrei comportarmi: la stanza è larga circa due metri e si restringe verso il fondo. Sul lato sinistro c'è una specie di fossato di cemento, per i bisogni liquidi; sul lato destro tre piccole buche, per quelli solidi. Un odore terribile e niente muri, niente porte, niente sciacquoni. Niente di niente.
Il tipo accovacciato mi guarda. Sto facendo la figura dello scemo. Ormai sono qui, penso, ci devo almeno provare. Mi dirigo al lato sinistro e provo a fare il mio dovere. Ci provo ma non ci riesco. Tiro su la cerniera dei pantaloni ed esco di corsa, imprecando nella mia lingua. La signora all'ingresso mi guarda perplessa.
Allora mi è tornato in mente quel ragazzo di origine cinese, cresciuto nel Sultanato del Brunei. Eravamo in una strada del centro di Siem Reap, in Cambogia, coi piedi in ammollo in una vasca piena di pesci carnivori che si occupavano di ripulirci da calli e pelli morte. Era sera, intorno a noi un gran baccano di gente in giro per locali, musica e venditori. Gli avevo chiesto del suo paese d'origine, se ci fosse mai stato. Lui si era limitato a dire che in Cina aveva fatto la peggior "toilet experience" della sua vita e che ci consigliava vivamente di portarmi dietro delle pastiglie contro la diarrea. La sua fidanzata annuiva, mentre io e Laura ci guardavamo confusi. Ora so che cosa intendeva.
Ritorno alla mensa. Questa volta provo a farmi dare dei noodles e li porto a Laura, ma anche quelli sono  immangiabili: li abbandonerò su un paracarro. Infine mi guardo intorno in cerca di un angolo per fare ciò che non ho potuto fare prima, ma l'autista ha appena finito di fumare. Butta il mozzicone in una pozzanghera, si siede al posto di guida e suona il clacson: è ora di ripartire.

L'ultimo tratto del viaggio torna ad essere piacevole. Riprendiamo l'autostrada e attraversiamo la Foresta di pietra, una distesa di rocce calcaree simili a stalagmiti che danno l'impressione di essere tronchi d'albero pietrificati.
Arriviamo a Kunming prima del tramonto, ma sarà buio da un pezzo quando avremo trovato un posto per la notte, dopo ore passate a disperarci e a camminare schiacciati dal peso degli zaini. Impossibile trovare un taxi libero, e se c'è non ci capisce e preferisce trovarsi un cliente più facile. Verso le undici finiamo in un ostello che ha un solo posto letto e mi trovo ad implorare la ragazza della reception di lasciarmi dormire da qualche parte sul pavimento. Sarà magnanima abbastanza da concedermi il divano del bar, dove per tutta la notte le zanzare approfitteranno senza scrupoli del mio corpo.

martedì 2 luglio 2013

Hekou, Cina: una cena da dimenticare

La sera ad Hekou c'è musica per le strade. Un gruppo di uomini sui cinquanta, seduti in cerchio su sedie di plastica, suona l'erhu, una specie di violoncello cinese dalla voce di donna. Uno di loro canta e tutti gli altri lo seguono, all'unisono sulla stessa melodia. Pochi loro compaesani si fermano a sentire, ma forse li ascoltano i vietnamiti, dall'altra parte del fiume. Poco più in là un impianto audio suona musica dance, e lì ci sono i giovani che ballano e si divertono. Nella piazza davanti al nostro albergo, invece, gente di mezza età è impegnata in una specie di danza aerobica.
Usciamo dalla nostra stanza che è già buio, in cerca di qualcosa da mangiare. Potremmo andare da KDS, una specie di Burger King locale: facile e indolore, un'esperienza nota e uguale in tutte le parti del mondo. Invece ci buttiamo a kamikaze in un locale dai divanetti rossi e tavoli in due file lungo i muri. In due secondi sfodero tutto il mio vocabolario cinese: entrando dico buonasera e rispondo con un grazie quando una ragazza mi porge il menù. Ma il menù è in cinese e la mia pronuncia di quelle due semplici frasi dev'essere stata orribile, a giudicare dal sorrisetto della mia interlocutrice. Per un momento mi sembra che tutti i clienti smettano di mangiare per guardare noi, due animali esotici, due orsi polari paracadutati in piazza del Duomo. La situazione è imbarazzante, ma anche divertente: le donne che lavorano nel locale si radunano intorno a noi e si sforzano di capire, mentre noi ricorriamo a strategie varie per spiegarci. Digito "pollo" e "patate fritte" sul traduttore che ho installato all'occorrenza sul cellulare, mostro loro il risultato in caratteri cinesi e sembra che ci siamo capiti. Per sicurezza una di loro ci porta al tavolo dei surgelati, per chiedere conferma che sia proprio quello che volevamo. Io e Laura ci guardiamo, e in quel breve sguardo comunichiamo più o meno quanto segue: Cos'è 'sta roba? Boh, è tutto scritto in cinese... Dovremmo provare a chiedere del cibo fresco? Sì, e come? Lasciamo perdere va', questa roba andrà benissimo. Sì dai, ho fame, quel che arriva arriva.
Ad arrivare invece è un ragazzo sui trenta dalla faccia butterata dall'acne, tale Gong Hu, che si offre come interprete. È gentilissimo, ma combina solo casini. Il suo inglese è davvero elementare e a nulla vale dirgli che abbiamo già ordinato: lui vuole aiutarci.
Le donne stavano già preparando quello che avevamo ordinato, ma Gong Hu dà loro dei contrordini. Quelle gli gridano dietro, ma lui è solo l'interprete, un ambasciator che non porta pena, quindi che facciano come dice, poche storie. Dopo aver impartito gli ordini ritorna da noi, appoggia sul tavolo il suo succo di frutta bevuto a metà e chiede se può sedersi con noi.
La conversazione procede a stento, ma la gentilezza di Gong Hu vale la fatica. Ci racconta che lavora nelle costruzioni e fa un sacco di quelle cerimonie tipiche delle persone timide: "Sank you, sank you very much!" mi dice arrossendo quando gli chiedo dove ha studiato inglese. Forse ha pensato che gli stessi facendo un complimento, e io non ho nessun motivo per precisare il contrario. Comunque mi risponde poco dopo, quando parlando si sé dice che sa un po' di inglese perché suo padre insegnava la lingua in una scuola media.
La cena è orribile. Prima arrivano delle crocchette bisunte dal sapore inconsistente. (Non sembra proprio pollo. Ma allora cos'è?) Poi arriva una scodella di banane fritte (forse dono di Gong Hu, che ne mangia con noi). Infine ci vengono servite le patate fritte, mollicce e crude all'interno. Ingoiato il tutto, Gong Hu chiede più volte se vogliamo ordinare altro e noi, terrorizzati, facciamo scene da mani sulla pancia: "No, grazie, siamo pieni da scoppiare!"
Una cena da dimenticare, un'esperienza da ricordare. Usciamo in fretta, diretti al KDS.

domenica 30 giugno 2013

Storie di frontiera: tra Vietnam e Cina

Arriviamo alla frontiera con la Cina nel tardo pomeriggio, dopo un'estenuante giornata iniziata alle 5 del mattino, quando picchiettando sul finestrino di una piccola Hyundai Gets nel centro di Hanoi abbiamo svegliato un taxista per farci portare alla stazione. Non l'ho invidiato, il taxista, mentre si stropicciava gli occhi, tirava dritto lo schienale del sedile e si chinava a cercare le scarpe, finite dietro ai pedali.
Dieci ore e mezza di treno. Lento. Lentissimo. Ma sempre meglio dei famigerati sleeping bus sui quali abbiamo viaggiato fin ora: nient'altro che carri bestiame per turisti che pagano bene. Non ci sono sedili sugli sleeping bus, solo tre file di lettini minuscoli con lo schienale leggermente rialzato, di solito non regolabile. Non puoi stendere del tutto le gambe se sei più alto di un metro e mezzo, non puoi dormire sul fianco per via dell'inclinazione, non c'è spazio per le braccia e non puoi fare altro che intrecciare le dita sul petto come i morti. E non puoi fare a meno di pensare che una bara, con la sua fodera bianca e quel minimo, ormai inutile, spazio vitale, sarebbe più confortevole.
Una volta ci è anche capitato di finire in fondo al bus, dove i lettini sono cinque, attaccati l'uno all'altro. Io mi trovavo tra Laura e un australiano alto un metro e novanta, pelosissimo. Faceva caldo, nonostante l'aria condizionata, e non potevo muovermi: ognuno doveva fare la sua parte nel gioco di incastri. Non potevo alzarmi perché una volta riempito il bus, non contento, l'autista ha venduto una serie di posti sul pavimento a viaggiatori locali, che si sono stesi lungo i corridoi sulle loro stuoie.
Per fortuna alle due e mezza della notte abbiamo rotto lo sterzo e abbiamo potuto scendere per un po', per quelle tre ore che l'autista ci ha messo a smontare il braccio a martellate, farlo riparare da un meccanico lungo la strada e rimontarlo, ricominciando poi a guidare come un cane. (Un cane alla guida di un carro bestiame. Non è divertente? No.) Insieme agli altri occupanti del bus ci siamo riversati lungo il marciapiede, dove una donna stava aprendo il sue "negozio". (Sarebbe a dire che stava togliendo un telone che copriva un paio di scatole di polistirolo piene d'acqua, nella quale erano immerse le bibite in vendita, e una serie di sedie e sgabelli di plastica erosi dalle piogge.) Si è affrettata a far accomodare quanta più gente possibile: non le sembrava vero di iniziare a fare affari così presto.

Dieci ore e mezza di treno, dicevo, per arrivare al confine con la Cina. Decidiamo di sconfinare subito, anche se siamo stanchi, in modo da agevolare la ricerca di un bus per Kunming l'indomani mattina. Abbiamo imparato che essere già dalla parte giusta fin dal mattino può evitarci eventuali imprevisti e code che rischierebbero di farci perdere intere giornate. Così ce le becchiamo subito le code. E gli imprevisti.
Ogni frontiera comporta almeno due controlli: uno per uscire dal paese in cui si è stati, l'altro per entrare nel nuovo. Io passo il primo controllo egregiamente, il poliziotto non ha niente da obiettare. Oltre il metal detector mi fermo e aspetto Laura, che era in coda dopo di me. Ma la cosa va per le lunghe, il tipo si rigira il passaporto tra le mani infinite volte, guarda le pagine in controluce. Poi si sofferma sulla copertina, che è un po' scollata per via delle piogge prese, l'umidità, il sudore e le varie avventure in barca. Laura prova a spiegarglielo, ma il tipo scuote la testa. La fila di viaggiatori in attesa cresce continuamente. Alcuni si affacciano per chiedere se possono passare, ma il poliziotto li ricaccia indietro. Infine si gira verso di me e mi chiede di nuovo il passaporto: lo ricontrolla, lo confronta con quello di Laura e me lo restituisce.
Decide che non si fida, le chiede di seguirlo. Vedo che vanno verso una stanza, forse un ufficio dietro oltre la fila dei terminali, ma li perdo di vista. Io sono ufficialmente uscito da Vietnam e non posso rientrare. Laura, a quanto sembra, non può uscire. Pochi minuti dopo il poliziotto mi chiede di tornare indietro, di andare anch'io in quell'ufficio.
Nella stanza c'è solo una scrivania e un armadio di metallo, appoggiato al muro per il lato corto, che nasconde dietro di sé una porzione di stanza che non possiamo vedere (ma dev'esserci un bagno, a giudicare dai rumori che il poliziotto emette quando vi sparisce dietro). Le pareti sono bianche e spoglie, appena chiazzate di giallo dall'umidità. Nessun quadro, non un calendario o una foto di Ho Chi Minh: solo un condizionatore nuovo di zecca. C'è un ragazzo cinese insieme a noi, e un altro poliziotto seduto alla scrivania intento a parlare con quello che ci ha accompagnati. Insieme esaminano i passaporti, discutono. Poi ci dicono di aspettare ed escono dalla stanza. Il ragazzo cinese ci spiega il suo problema: si sono "dimenticati" di timbrargli il passaporto quando è entrato e ora, probabilmente, dovrà pagare "qualcosa".
Il poliziotto che ci fermati allo sportello rientra nella stanza. Con lui ce n'è un altro che non abbiamo mai visto. Quello che ci ha fermati fa cenno al ragazzo cinese di seguire il suo collega, indica l'armadietto di metallo. Il ragazzo si alza e insieme al poliziotto vi sparisce dietro. Ne escono dieci secondi dopo, entrambi sorridenti. Il ragazzo cinese sembra decisamente sollevato e nell'andare via cerca la mano dell'altro poliziotto (quello che ha "arrangiato le cose", apparentemente). Vuole stringergliela in segno di gratitudine, ma quello lo liquida sbrigativamente. Quanto gli sarà costato questo scherzo? mi chiedo.
Ci lasciano di nuovo soli nella stanza. Io e Laura decidiamo che, dovessero chiederne, soldi non gliene diamo. Assolutamente. Per principio.
Come prima cosa chiediamo che ci facciano una ricevuta ufficiale (tra Messico e Guatemala è una mossa che funziona). Se dicono di no, chiediamo di telefonare all'ambasciata italiana (il che sarebbe solo un bluff, visto come funzionano le cose da quelle parti). Infine, se si impuntano a non far uscire Laura e non mi lasciano tornare indietro, diciamo "Grazie, arrivederci." Laura torna indietro e prova a passare il confine domani mattina, mentre io l'aspetto ad Hekou, in Cina.
La cosa va avanti a lungo. Di noi si occupa un agente più giovane, che parla inglese e ha un'aria distinta. Porta gli occhiali e la sua divisa è più ordinata, meglio stirata. Fa diverse telefonate, ispezionando di continuo i nostri passaporti. Poi ci interroga rispetto ai nostri dati personali e ai nostri spostamenti, per confrontarli con le informazioni registrate sui passaporti. Fa altre telefonate, altri controlli. Infine ci fa spostare di nuovo nei pressi dei terminal e ci fa aspettare ancora. Lì ci rendiamo conto che questi problemi di passaporti sono un vero e proprio business. Altri turisti che erano sul treno con noi sono in attesa di capire quale sia il problema. A diversi cinesi, che fanno avanti e indietro per questa frontiera, hanno "dimenticato" di mettere il timbro di entrata e ora, se vogliono tornare a casa, devono "sistemare le cose".
Non so perché, ma a noi alla fine non chiedono soldi. Fanno il loro lavoro con scrupolo, ci fanno aspettare molto (e su questo non ho nulla da obiettare, i nostri passaporti sono effettivamente rovinati), ma poi ci lasciano andare.
Tiriamo un sospiro di sollievo e ci avviamo al prossimo controllo. Anche questo è lento e scrupoloso, fatto di domande incrociate e controlli ripetuti. Ma l'atteggiamento è molto diverso, decisamente più accogliente.
Facciamo i primi passi sul suolo cinese, lungo una strada che costeggia il fiume che divide la Cina dal Vietnam. Sarà solo una suggestione, ma mi sembra che da questo lato della linea si respiri un'aria diversa. A cominciare dal fatto che non c'è nessuno ad aspettarci, a offrirci passaggi, stanze, gite organizzate... Qui di turisti se ne vedono pochi (sono sicuro che siamo gli unici due "bianchi" in città) e la gente è curiosa. Non ti assale pensando di sapere esattamente cosa cerchi per offrirtela a prezzo cheap (cioè il doppio del prezzo che un locale considererebbe onesto).
Dei ragazzini scoppiano petardi sul marciapiede lungo il fiume, le famiglie mangiano sui tavoli all'aperto dei ristoranti, uomini e donne passeggiano. Nella piazza antistante il nostro albergo una decina di persone ballano a ritmo di musica cinese, mentre ragazzi e ragazze sfrecciano sui motorini, diretti non so dove.
Sarà una suggestione, ma mi piace.

venerdì 28 giugno 2013

Sicuro di voler tornare in Italia?

Poco tempo fa un vecchio amico mi chiedeva via e-mail se fossi proprio sicuro di voler tornare in Italia e se non temessi, una volta in patria, di ritrovarmi a dire: "Ma io qui che ci sto a fare?" Io rispondevo che sì, ero sicuro di voler tornare perché ogni posto in cui ero stato nascondeva i suoi guai e che, vista da fuori, l'Italia non è poi tutta una merda. Aggiungevo però che rimandavo il mio giudizio al momento in cui sarei effettivamente tornato, perché il mio punto di vista poteva anche essere distorto dalla nostalgia.
Evidentemente doveva proprio essere la nostalgia, perché mi è bastato passare un'oretta all'ambasciata italiana di Hanoi per ricordarmi di che pasta è fatto il mio paese.

All'ingresso ci accoglie un uomo sui quarantacinque, dall'accento campano, gentilissimo. "Prego, venite avanti" dice uscendo dalla guardiola. Lo segue un ragazzo giovane in divisa, dal sorriso timido.
"Oh, finalmente un carabiniere!" mi scappa di dire, sinceramente contento di vedere colori familiari. (La lontananza fa brutti scherzi, riescono a mancare anche le cose più strane.)
"Due carabinieri!" precisa quello più anziano, che però veste con pantaloni larghi, una camicia a maniche corte e una borsa a tracolla. "Allora, ditemi, come vi posso aiutare?"
Gli spieghiamo che ci restano solo due pagine libere sul passaporto e che, quindi, ce ne serve uno nuovo, dato che siamo diretti in Cina, Mongolia e Russia e che ciascuno di quei paesi chiede almeno due pagine libere, per il visto e per i timbri. L'uomo ci parla con un calore che sento sincero, dice che non dovrebbe essere un problema, che di solito ci vogliono una decina di giorni per ottenere il nulla osta dall'Italia.
Prima di entrare per parlare con l'incaricata scambiamo due parole. L'uomo vive qui da due anni e mezzo e sa parlare il vietnamita. Non lo dice direttamente, ma capisco che è assolutamente contento di vivere qui. Dice che ci invidia un po' per il viaggio che stiamo facendo, che è sempre stato anche il suo sogno stare in giro tanto tempo, perché quello è l'unico modo per conoscere davvero il mondo. Io gli rispondo che lavorare all'estero come fa lui è anche meglio dal punto di vista della conoscenza, e lui riconosce che ho ragione. Poi indica il suo giovane collega, che ci ascolta sulla soglia della guardiola "Lui è appena arrivato invece". Il ragazzo è al suo primo giorno di servizio. Fa una faccia disperata, dice "Mi mancano ancora 50 giorni per tornare a casa!"
Il carabiniere più anziano ci accompagna in una piccola sala d'attesa e avvisa l'incaricata della nostra presenza.
"Arriva subito" dice.
Noi ci sediamo, assolutamente fiduciosi, e aspettiamo di essere ricevuti.

Dopo 45 minuti si affaccia alla porta una donna italiana.
"Qual è il problema?" chiede, senza invitarci a entrare.
Glielo spieghiamo. A metà del discorso la vedo scuotere il capo.
"Ma voi siete iscritti al registro degli italiani all'estero?" chiede.
"No..." diciamo in coro io e Laura. Il sorriso ci si spegne in faccia.
"Ah, no no no," attacca lei "noi non rilasciamo passaporti ai non residenti in Vietnam. Abbiamo troppo lavoro. Al limite possiamo farvi un documento di viaggio fino alla prossima destinazione o per rientrare in Italia."
Chiusura totale, atteggiamento teatrale. Si aspetta che ce ne andiamo, si comporta come una che è stata fin troppo paziente con due testimoni di Geova, sulla porta di casa sua, la domenica mattina. Io insisto, voglio capire.
"Ma a queste cose bisogna pensarci prima," dice lei "prima di partire!" Senza conoscerci minimamente ci tratta come fossimo idioti, due sprovveduti rimasti schiacciati con la macchina sotto la sbarra di un passaggio a livello.
Le faccio notare che siamo in viaggio da quasi due anni, che siamo partiti con due passaporti nuovi di zecca. Lei non sembra prendere in considerazione nulla di quanto le diciamo, ripete che hanno troppo da fare, che noi non ci rendiamo conto della mole di lavoro, tanto più che sta iniziando la stagione turistica e c'è un sacco di gente che ha bisogno di assistenza. Laura le fa notare che due di quei turisti bisognosi d'aiuto ce li ha proprio di fronte in questo momento.
Per togliersi d'impiccio l'impiegata decide di chiamare la responsabile, un'altra italiana, che ci raggiunge nella sala d'aspetto. Nel frattempo entra un signore, un altro italiano, che ha un appuntamento proprio con lei.
"Mi libero dei signori e sono subito da lei" dice la nuova venuta in tono cordiale. Non avrebbe potuto scegliere una frase più infelice e appropriata.
Ci ripete, in sostanza, la stessa tiritera: niente passaporti per i non residenti, hanno troppo da fare, soprattutto in questi giorni... Io a questo punto me ne andrei anche. Deluso e arrabbiato, ma me ne andrei. Ma alla responsabile scappa di aggiungere in tono paternalistico che uno a queste cose ci deve pensare per tempo. Ripeto anche a lei che siamo in giro da molto tempo.
"Ah," dice inarcando le labbra e facendo roteare la mano "beati voi!"
"Guardi che i soldi ce li siamo guadagnati lavorando!" dice Laura, indignata. Noi... vorrei precisare io.
Non ci vedo più dalla rabbia. Le dico che se non possono aiutarmi mi sta anche bene, anche se è assurdo che un italiano all'estero non possa contare sulla propria ambasciata, ma che non si permetta di farci la ramanzina sull'essere previdenti.
"Noi ci pensiamo per tempo" le dico "tant'è che siamo qui all'ambasciata da Hanoi ora per non rimanere bloccati a Pechino tra un mese. Ma purtroppo essere previdenti non basta, visto che a volte si incontrano problemi di questo tipo." Punto l'indice verso di lei e la sua collega.
Non so perché, ma invece di incazzarsi la tipa si ammorbidisce un poco. Ovviamente quella di Hanoi resta l'ambasciata più intasata del mondo, ma a quanto pare la richiesta per un nuovo passaporto si potrebbe fare, ma solo in caso di emergenza.
"Ma voi ce l'avete un biglietto aereo?" chiede la responsabile.
"No." rispondo, ormai deciso ad andarmene sbattendo la porta.
Lei sgrana gli occhi come se avessi bestemmiato e sputato in un tabernacolo.
"Ma scusate, voi viaggiate e non avete neanche un biglietto aereo?"
"Sa com'è, esistono i treni..."
"Se aveste i biglietti aerei che lo giustifichino potremmo avviare una procedura di emergenza. Lo abbiamo fatto una volta per un ragazzo che stava facendo il giro del mondo. Sapete, lui non poteva aspettare."
"Perché, noi che cosa stiamo facendo, scusi?"
"Sì, ma ci vogliono i biglietti dell'aereo." dice, barricandosi dietro la nuova barriera burocratica.

Se c'è una cosa che mi fa incazzare sono le regole non chiare, e la gente che gode del proprio piccolissimo potere per creare problemi anziché risolverli. Dal mio punto di vista, o si può o non si può. Se c'è una procedura, deve essere quella per tutti. Faccio notare alla funzionaria che dal non si può siamo passati al si può in certi casi, per certe persone e a loro discrezione.
"A quanto pare" aggiungo "noi non rientriamo nella schiera dei fortunati. Arrivederci."
"Quando ripartite voi?" dice mentre apro la porta per uscire.
"Il nostro visto scade il tre luglio." le risponde Laura.
"Se volete potete fare la richiesta, ma non vi garantisco che facciamo in tempo."
"Questa mi sembra già una risposta" dico. La responsabile dice all'impiegata di consegnarci i moduli e torna al suo lavoro. Ci faranno sapere loro se e quando avranno ottenuto il nulla osta.
"Ma di dove siete voi?" chiede l'impiegata.
"Di Milano!"
"Uuuh, Milano è anche peggio di Napoli. Ci mettono una vita!"

Usciamo dall'ambasciata furiosi, ci riversiamo in strada come un fiotto d'acqua da un tubo appena scoppiato. Laura prende a calci le cartacce per strada e inveisce, rossa in volto. Io sono troppo arrabbiato per manifestare qualsiasi emozione. Entrambi pensiamo la stessa cosa: probabilmente non avremo i nostri passaporti in tempo, ma chi se ne frega. Una soluzione si trova sempre e noi la troveremo a Pechino, o a Ulan Bator. Il problema è l'Italia, è casa nostra. Perché questa non è un'eccezione, un caso sfortunato: questa è una storia italiana, una situazione-tipo che entrambi abbiamo già vissuto, mille volte. Una gran tristezza ci assale mentre camminiamo guardando l'asfalto. Non sentiamo più nemmeno i clacson e il rombo acuto dei motorini lungo la strada. Pensiamo all'Italia.

giovedì 27 giugno 2013

I tunnel di Cu Chi

Poco distante dalla città di Saigon si trova Cu Chi, un' area percorsa da centinaia di chilometri di tunnel sotterranei, costruiti inizialmente dai Viet Minh durante la guerra di liberazione contro i francesi (1945-1954) e poi ricondizionati e ampliati in occasione della nuova guerra di liberazione, quella contro gli americani, combattuta tra il 1960 e il 1975. Si tratta di una complessa rete di gallerie, costruite su tre livelli di profondità, che consentivano ai VietCong di muoversi senza essere visti, di far muovere informazioni e rifornimenti e, infine, di sopravvivere alla schiacciante superiorità di mezzi dei nemici, che bombardavano innanzitutto per via aerea. Sotto terra si trovavano anche ospedali, depositi di armi, dormitori, cucine... A garantire la quantità d'ossigeno necessaria erano una serie di condotti che collegavano le gallerie con la superficie.
Per noi tutto inizia quando troviamo, in una stanza d'albergo in Cambogia, un libro abbandonato. Si intitola "The tunnels of Cu Chi". Laura lo legge, mi racconta quello che viene a scoprire, ed entrambi veniamo incuriositi da quella storia. Decidiamo di andarci.
Per pigrizia facciamo l'errore di prenotare una visita guidata ai tunnel direttamente dall'albergo, a Saigon. Le visite guidate hanno di solito un ritmo imposto, in genere si è in molti e ci si affolla tutti insieme intorno ad uno stesso oggetto. E poi manca il silenzio, necessario a far lavorare l'immaginazione, per poter ricreare nella propria mente situazioni passate, fatti accaduti in quel determinato luogo. Comunque ormai è fatta, vada come vada.
Viene a prenderci un ragazzo magro dagli occhi affilati che sarà la nostra guida per la giornata e ci accompagna attraverso il vicolo fino alla strada principale, dove ci aspetta un bus già riempito di altri turisti di diverse provenienze.
Siamo una trentina di persone. La guida dice di chiamarsi Em: "Da non confondere con Am! Non mangiatemi per favore!" dice, prendendo un piglio sarcastico che manterrà per tutto il tempo.

Mentre fa i biglietti per tutti, lo aspettiamo in una sala le cui pareti sono percorse da fuciliere piene di armi da guerra, prevalentemente di fabbricazione americana e cinese. Carabine, mitragliatrici, lanciagranate e altra artiglieria lasciata sul terreno dai soldati durante la guerra. Em ci raggiunge pochi minuti dopo: "Scegliete la vostra preferita!" dice "AK47? Come John Rambo? Ta-ta-ta-ta-ta."
Dopo aver visto un video documentario dal sapore propagandistico, datato 1967, che illustra la vita dei soldati rivoluzionari e la collaborazione dei civili nella lotta armata, ci spostiamo all'imbocco di uno dei tunnel. Em indica un punto sul terreno dove non vedo altro che foglie e terra: nessun buco, nessun segno visibile. Poi muove alcune foglie col piede e scopre una piccola botola di legno rettangolare, non più lunga di 40 cm e larga 30. La apre e spiega che quella è un'entrata "standard", ovvero che è stata lasciata delle misure originali e non allargata per meglio consentire le visite turistiche. Chiede se qualcuno se la sente di provare ad entrarci e a chiudere il coperchio dietro di sé. Dentro non si vede altro che una biforcazione e poi il buio, in entrambe le direzioni: sembra la tana di una talpa. "Il volontario deve essere magro," spiega, "a misura di vietnamita." Poi prepara un'altra frecciata: "I GI, i soldati americani, rimanevano bloccati quando cercavano di entrare nei tunnel perché erano grassi." Simula una pancia gonfia con le braccia. "Gli piaceva troppo fumare la marjuana, e la marjuana mette fame."
Un rumore molto simile a uno sparo in lontananza mi distrae, poi un altro e un altro ancora. "Hai sentito?" chiedo a Laura. Lei non l'ha sentito, e io mi sto sicuramente sbagliando. Deve essere una suggestione dovuta al luogo in cui mi trovo e ai troppi film spazzatura che Hollywood ha dedicato al tema e che io mi sono sorbito da bambino.
Proseguiamo attraverso le trappole atroci che i VietCong nascondevano per impedire ai loro nemici di trovare i tunnel: vecchie gabbie per tigri, buche con una varietà di spuntoni in bambù (o in metallo recuperato dai detriti delle bombe americane) che andavano a conficcarsi in diverse parti del corpo a seconda del tipo. I malcapitati rimanevano così bloccati e feriti, finché i VietCong non andavano a recuperarli per portarli nelle prigioni e trasferirli poi ad Hanoi, nel Nord.
Riprendiamo a camminare attraverso un bosco di alberi della gomma, che tra l'altro a quel tempo non c'era. Non un albero era rimasto, solo terra bruciata, grazie ai bombardamenti al Napalm e agli agenti chimici a base di diossina usati dai GI.
Ci avviciniamo ad un carro armato americano, probabilmente danneggiato da una mina anticarro, e sento di nuovo gli spari. Una vera e propria mitragliata questa volta, e molto vicina. E poi altri spari ancor più vicini, finché non arriviamo alla sorgente di quel rumore e io rimango a bocca aperta: c'è una cava di terra rossa alla cui estremità sono sistemate diverse armi: gli AK47 vanno per la maggiore, ma c'è anche un M16 montato su un cavalletto, a bordo di una Jeep dell'esercito americano. Capisco che Em non scherzava quando diceva "Scegliete la vostra preferita". Per una cifra che va dai 20.000 ai 40.000 VND (da circa 1 a 2$) è possibile sparare con una di quelle armi. Solo uno di noi, un australiano, lo farà. Mi avvicino incuriosito: non mi aspettavo proprio di trovarmi in una sorta di parco dei divertimenti. Una raffica di mitra mi assorda e devo portarmi le dita alle orecchie: era un italiano a sparare, ed ora se ne va col figlio in adulazione sottobraccio. "Papà, com'era?"
La situazione è paradossale: in un luogo in cui un'atroce guerra d'aggressione ha avuto luogo, turisti occidentali provenienti da quello stesso mondo un tempo sconfitto impugnano quelle stesse armi per gioco, sotto gli occhi annoiati dei locali. Quegli stessi locali che hanno organizzato tutto, e che ora ne ricavano profitti.
Il nostro australiano divarica le gambe nude una davanti all'altra, avvicina un occhio al mirino, si concentra. Poi fa fuoco, sembra soddisfatto. Un soldato vietnamita, responsabile di quell'arma, lo guarda con un'espressione incolore ad una distanza di un metro. Si avvicina per ricaricare il fucile, senza dire una parola, poi torna al suo posto. Ho la sensazione che tutto questo non gli piaccia affatto. Quanto a me, che ho fatto obiezione di coscienza, perdo volentieri l'occasione di impugnare un'arma per la prima volta.
Lasciato il rustico poligono di tiro, entriamo finalmente in uno dei tunnel, nel quale sono stati allargati gli ingressi e sistemate alcune fioche luci. Facciamo un tratto di soli 100m, ma ne esco con le gambe a pezzi e fradicio di sudore. Penso ai VietCong, che a volte ci rimanevano per mesi senza uscire. Le donne ci partorivano, i malati ci morivano. C'era perfino una compagnia di teatro che girava per i tunnel intrattenendo i soldati, cercando di tenerne alto l'umore facendo la parodia degli americani.
Em si guarda bene dall'accompagnarci sotto terra e ci aspetta dall'altra parte. "Se volete continuare a camminare" dice "da quella parte potete sbucare fino in Cambogia! E pensate" continua " che una parte dei tunnel si trovava proprio sotto una delle basi americane. Loro cercavano Charlie, e ce l'avevano sotto al culo!" Continua poi raccontando che a volte i VietCong si travestivano da civili e si avvicinavano alle basi americane. "Ma non per spiare, per ascoltare la musica!" Mi domando se questo ragazzo abbia un motivo per essere così spietatamente sarcastico nei confronti degli sconfitti americani, o se sia solo orgoglio patriottico. Gli chiedo se abbia avuto qualche parente coinvolto nella guerra e lui mi dice di sì. Suo padre. Ma non stava coi VietCong, stava con l'esercito sud vietnamita, e quindi ha combattuto con gli americani. Ora sì che sono confuso.