lunedì 25 febbraio 2013

Bluff, di nuovo alla fine del mondo


“Andree!”
Io quel tono lo conosco. Quando Laura mi chiama così, con quella “A” un poco acuta e poi “ndre” in discesa, come un sasso che cade nell'acqua, vuol dire guai in vista. Questa volta poi c'è anche la “ee” strascicata, quindi sono cazzi. Eppure non ho fatto niente di male. Sono solo le otto del mattino, non ne avrei avuto il tempo.
Ci siamo appena svegliati accanto ai bagni pubblici, a Lake Hawea. Ieri abbiamo trovato questo posto bellissimo, sul lago. Era il tramonto e il riflesso rosa delle montagne ci ha irretiti. Ci siamo fermati, abbiamo parcheggiato e ci siamo addormentati sereni, già assaporando il prossimo risveglio nel bel mezzo di una cartolina.
Vedo Laura armeggiare intorno al tergicristallo, poi viene verso di me che sono appena uscito dalla porta posteriore (dalla camera da letto).
“Che c'è?” dico.
“Ci hanno dato la multa...”
“No!”
La vedo dispiegare un foglietto bianco. Una piega, due, tre, quattro.
“No” dico di nuovo, come se mi avessero appena scippato la pensione fuori dalle poste.
Laura legge, i suoi occhi si muovono rapidi a destra e a sinistra come la testina di una stampante.
“Sai di quant'è?” mi chiede.
“No...”
“Duecento dollari”
“No!”

Duecento dollari, duecento.
Non dodici, come quelli che avremmo speso se ci fossimo fermati al campeggio pubblico cento chilometri più indietro. Non trenta, come il fish and chips a cui ieri sera, per risparmiare, abbiamo rinunciato. Nemmeno sessanta, come la cena al ristorante indiano che continuiamo a rimandare, perché costa troppo. Non cento, come le scarpe che ho appena comprato (troppo piccole, ma erano le ultime in offerta). Neanche centocinquanta, come la bicicletta che mi sono concesso dopo settimane di trattative col ciclista Nigel.
Duecento. Duecento dollari.

Il lago non lo guardiamo neanche, vada a farsi fottere. Ma come è possibile? Eppure ieri sera ho controllato ovunque che non ci fossero divieti e anche ora, con la luce del giorno, non se ne vedono. Eppure di solito ci sono, magari non evidenti, ma ci sono.
Scopriremo nel pomeriggio che, cartelli o non cartelli, nella regione dei laghi di Queenstown, il campeggio è vietato al di fuori delle apposite aree a pagamento. No way! ci spiegano.
Molto bene. La legge non ammette ignoranza. Quante volte l'abbiamo detto agli ignoranti? E da queste parti chi sbaglia paga, non è che gli puoi dire “Non lo sapevo”, o peggio “Ma guarda che la macchina era solo parcheggiata, io ero in albergo che dormivo. C'erano le tendine tirate per tenere fresco il succo di frutta.” No way!

Ci rimettiamo in strada pieni d'amarezza. Pensiamo alle nostre spese al supermercato, quando stiamo a guardare il centesimo e rinunciamo a un sacco di cose, perché “Questi soldi ci serviranno quando saremo in Cina.” Che stupidi! Che rabbia! Quasi non guardiamo fuori dai finestrini, e di tanto in tanto a me scappa un gesto di stizza improvviso, come un pugno sul volante dopo un'ora di silenzioso guidare.
Ci fermiamo a Wanaka, una piccola città affacciata sull'omonimo lago. Ci sono molti bar e ristoranti in cui potremmo chiedere lavoro e il panorama è dei migliori incontrati fin ora. Dopo aver fatto un bagno nell'acqua gelata del lago compiliamo la nostra tabella e i voti sono altissimi. Forse ci siamo, forse abbiamo trovato la nostra nuova casa.
Ma prima di fermarci abbiamo un obiettivo da raggiungere: Bluff, all'estremo sud della Nuova Zelanda. E in mezzo ci sono Queenstown e Invercargill, altre due città da prendere in considerazione. Così ci rimettiamo in macchina: Queenstown è a soli 70 Km da qui, e saremo là in poco più di un'ora.
La strada sale e Kiwi fa fatica. È normale, il contachilometri segna 375.750 Km in questo momento. Scalo in terza, anche se non ci sono curve accentuate e la pendenza non sembrerebbe richiederlo. Ma il motore scende di giri e devo spesso mettere la seconda.
Sulla sinistra si apre uno spiazzo, un cartello indica un punto panoramico. Ci sono macchine e camper parcheggiati. Ci fermiamo a fare delle foto e a controllare l'olio e il liquido di raffreddamento.
Sotto al cofano si nasconde la seconda brutta notizia della giornata. Il radiatore spruzza il liquido verde in due direzioni diverse, e questo vuol dire che ci sono due buchi. Nella vaschetta il liquido rimasto bolle rumorosamente e altro liquido esce dal tubicino di scolo, formando un copioso rivolo sul terreno di ghiaia e terra battuta. Tutti nello spiazzo sono girati verso l'immensa valle, guardano il lago distendersi davanti ai loro occhi. Noi restiamo girati dall'altra parte, investiti dal calore del motore, e guardiamo disperati gli spruzzi che non sappiamo come fermare.
“E adesso?”

E adesso siamo fregati. Il giro finisce qui, niente Bluff, niente grido liberatorio per l'obiettivo raggiunto, niente più ricerca della città ideale. È già tanto se riusciamo a trascinarci fino a Queenstown e fermarci lì, che ci piaccia o meno, e trovare un lavoro per riparare a questo pasticcio. O meglio ancora guidare il maledetto lamierone oltre il cancello del primo rottamaio e finirla qui, e con i prossimi soldi guadagnati comprare un biglietto aereo per la Cina.

Prendo la tanica da dieci litri che usiamo per cucinare e butto un po' d'acqua sul motore. Quand'ero ragazzino avevo un amico saccente, Simone. Aveva un Garelli e andavamo in giro d'estate (io lo seguivo in bicicletta, a volte mi facevo trainare attaccandomi al suo braccio) e lui si portava dietro un paio di bottiglie d'acqua. “Sono per il motorino,” diceva compito “bisogna sempre tenere d'occhio la temperatura del motore.” Ogni due chilometri c'era da ripetere l'operazione: tirava fuori dalla zaino una delle bottiglie, si chinava sul piccolo motore, lo scrutava con occhio analitico e, se gli sembrava opportuno, ci buttava dell'acqua sopra. Saliva sempre del vapore e si sentiva il rumore sfrigolante dell'acqua sul metallo caldo. Quel gesto mi è sempre rimasto in testa, mi sembrava roba da intenditori, da meccanici. “Ma c'è da stare attenti alla candela! Se si bagna siamo fregati” diceva, agitando il dito indice per sottolineare la gravità dell'argomento.
Mi ricordo di quest'ultimo monito appena in tempo e allontano il getto dalle candele. Ma l'acqua si asciuga quasi prima di toccare il motore, bisognerebbe buttarlo nel lago per raffreddarlo. Dopo una decina di minuti i due getti sottili dai buchi nel radiatore si affievoliscono, poi cessano. Aggiungiamo acqua fino al livello massimo e riprendiamo la strada, molto lentamente, fermandoci a controllare il radiatore e il livello del liquido ogni quarto d'ora ed alla fine di ogni salita. Così arriviamo a Queenstown, una città decisamente intasata di turisti. È domenica e non ci sono meccanici aperti. Ma nella tragicità della situazione, non so perché, questa mi sembra una buona notizia. E sento ancora le vocine nella testa. Una è quella dei genitori e degli amici più saggi: “Fermati” dice “non tirare troppo la corda o ti metti nei guai.” L'altra dice: “Ma sì, vai più piano, metti l'acqua ogni tanto e vedrai che funziona.”
Decidiamo di ripartire la sera stessa. Bluff è l'obiettivo e noi ci vogliamo arrivare. Viaggeremo sempre dal tramonto in poi, o nei giorni di pioggia, e terremo il motore basso di giri.
Arriviamo all'obiettivo il pomeriggio seguente, dopo una giornata passata a guidare sotto la pioggia battente, al ritmo sgraziato dei tergicristalli. Il sole ritorna giusto in tempo per farci godere lo spettacolo, come se si alzasse il sipario grigio delle nuvole: “Signore e signori, ecco a voi il Mare!” Niente preannuncia l'avvicinarsi del nostro traguardo, non succede nulla di particolare, semplicemente la strada finisce, perché non c'era altra terra da asfaltare. Ce l'abbiamo fatta! Con due buchi nel radiatore e un porta-bici appeso con una vecchia camera d'aria. Il contachilometri di Kiwi segna 376.028 Km e in questo momento mi sembra un mezzo indistruttibile. La guardo parcheggiata davanti al mare, a soli quattromila chilometri dal Polo Sud, in questa mitica città di soli duemila abitanti. Anche qui come a Cape Reinga (l'estremo nord) il Mar di Tasman incontra l'Oceano Pacifico, creando inquietanti turbolenze. Siamo alla fine del mondo, un'altra volta.

Siamo arrivati in fondo. Bluff è solo un nome sulla mappa, è vero, ma ha un gusto speciale, di vittoria e soddisfazione, tagliare i traguardi che abbiamo nella testa. Ora dobbiamo scegliere, tirare le somme in fondo alle righe della nostra tabella. Wanaka vince su tutte le altre città, col suo lago e la sua quiete, e sarà la nostra nuova casa. Dobbiamo tornare indietro, ma non senza prima tagliare un altro traguardo: Mildford Sound, nella terra dei fiordi, a trecento chilometri da qui. Poi ci aspettano altri 350 Km per tornare a Wanaka. Kiwi permettendo.

mercoledì 20 febbraio 2013

Il fattore Me Gusta


6 - 9 febbraio

Sbarchiamo a Picton martedì sera alle 6:30. L'aria è fresca delle piogge appena finite, le pecore nei pascoli sono ancora impregnate d'acqua, ma il colore del cielo sembra dire: “Da qui in avanti è tutto in discesa.”
Il porta-biciclette continua a traballare, ma decidiamo che non ci serve un meccanico. Se il bullone del gancio di traino è bloccato non possiamo serrarlo, è vero. Ma di certo non si sviterà neanche, e questo è un punto a nostro favore. Leghiamo comunque il tutto al portellone posteriore della macchina con una vecchia camera d'aria. Se non altro, qualunque cosa dovesse succedere, ci trascineremmo dietro la ferraglia fino a fermarci, senza rischiare di ammazzare qualche povero motociclista. La soluzione sembra reggere, il traballamento diminuisce, ma continuiamo a tenere un occhio sullo specchietto.

Mettiamo il nostro lamierone sulla strada per Nelson, la prima città importante dell'Isola Sud. Sappiamo esattamente cosa vogliamo: viaggiare in tutte le direzioni fino ad arrivare a Bluff, estremità sud della Nuova Zelanda, e nel frattempo guardarci attorno per decidere in quale luogo mettere nuove radici. Abbiamo bisogno di lavorare ancora qualche mese prima di partire per la Cina e, come è stato per Taupo, non vogliamo che sia in un posto qualsiasi. Deve essere un luogo in cui la mattina esci di casa e dici: “Ok. Mi spetta una giornata di odiosi sbattimenti. Però, minchia!” Abbiamo anche preparato una tabella in cui annotare i servizi presenti nei vari luoghi (Internet, supermercati, biblioteche...) e il nostro indice di gradimento rispetto al paesaggio, espresso in voti da uno a dieci. La colonna più importante è quella chiamata “Fattore Me Gusta!”, ovvero una valutazione in base all'entusiasmo e all'ottimismo che un luogo suscita in ciascuno di noi due (nel mio caso cerco di capire quanto, in un dato luogo, la catastrofe mi sembri meno imminente). 
Ci fermiamo a dormire in un'area di sosta nei pressi di una riserva naturale. È ormai notte e Nelson è ancora lontana. Il mattino seguente ci svegliamo all'alba al suono di nocche sul finestrino. Per la prima volta nella nostra lunga carriera di barboni su ruota gommata qualcuno si incazza e ci caccia. È l'omino delle pulizie, sostiene che qui non si può campeggiare. Con l'alito della prima parola detta al mattino ci scusiamo, un po' rimbambiti dal sonno. Diciamo che non abbiamo visto cartelli. Lui ne indica uno nell'angolo del parcheggio: non l'avevamo visto ieri, era troppo buio. Riprendiamo la strada e arriviamo in città prima di mezzogiorno. Ci fermiamo giusto il tempo di una doccia a pagamento e di dare un'occhiata in giro. Abbiamo voglia di andare e andiamo. 

Altro che viaggiare in tutte le direzioni... Il terzo giorno già mi sento un ottantenne: mi sveglio infreddolito alle cinque del mattino ed esco dalla macchina con un “Ahi! Ahiahiahi!” Cammino verso il bagno chinato in avanti, col dorso della mano appoggiato sulla schiena. Laura dorme ancora: alla sua giovane età l'incontinenza è ancora solo un concetto, una roba da vecchi col pannolone.
Dopo colazione (pane e Nutella, che come lo prepara Laura nessuno mai) mi metto al volante e nel giro di mezz'ora mi viene mal di testa. Stiamo diretti a Cape Farewell, estremità nord-occidentale dell'isola. Per arrivarci c'è una sola strada, lunga circa 150 km, e dovremo ripercorrerla tutta in senso inverso prima di continuare il nostro viaggio verso sud, dato che non ci sono altre connessioni. 
Tutti questi acciacchi mi mettono di pessimo umore. E in più sento le vocine nella testa. Una dice: “Sbrigatevi, trovate il posto che vi piace, lavorate quanto basta e poi partite! È ora che ti avvicini a casa: non lo vedi come sei messo?” Un'altra dice “Vai almeno oltre quella collina a vedere cosa c'è. L'ultima e poi basta!” Mi fermo al lato della strada col motore acceso e fisso il volante. Io e Laura valutiamo seriamente la possibilità di tornare indietro, visto che il cielo è nuvoloso e rischiamo di farci un sacco di chilometri per poi dover stare chiusi in macchina e non vedere niente. “Andiamo solo fino a lì” propongo, indicando la cima della collina che abbiamo davanti. 
Di collina in collina arriviamo a Cape Farewell e mi passa tutto: “Minchia!” Per la gioia di Laura smetto anche di lagnarmi delle mie sventure e mi godo la scogliera, i pascoli, le grotte, le foche addormentate. E il mare.

Percorsi i 150 km al contrario comincia la nostra vacanza-esplorazione dell'Isola. Un'isola più grande di quella Nord, ma meno popolata: poche città, poche strade, tante pecore. Le montagne sono più alte e i paesaggi ancora più estremi nella loro sfacciata bellezza. Fiumi e laghi ovunque e poche, poche case. Ma noi stiamo cercando una città, perché è dove c'è la gente che c'è lavoro. Vogliamo una città piccola ma ben servita, possibilmente affacciata sul mare o su un lago. Magari ai piedi di qualche montagna.
Le città della costa nord, Nelson e Motueka, ci sono piaciute molto, ma non ci hanno fatto innamorare. Percorriamo tutta la parte centrale dell'Isola in soli due giorni, passando in rassegna le città della costa ovest: Westport e Greymouth. Tutte gli altri centri abitati segnati sulla mappa sono praticamente inesistenti, agglomerati di poche case in mezzo ai campi. Compiliamo diligentemente la nostra tabella, ma abbiamo la sensazione di non aver ancora trovato quello che stiamo cercando.
Le cose cambiano più a sud, nella regione dei laghi. Laghi dai colori cangianti in mezzo alle montagne ancora bianche di neve sulle cime. Silenzio sulle rive, solo il fruscio delle poche auto che percorrono le strade costiere.
Ci fermiamo all'ora del tramonto sul lago Hawea, spegniamo il motore e ci affacciamo sullo specchio d'acqua. Il silenzio trasmette quiete e allo stesso tempo incute timore per una natura ancora selvaggia, non piegata ai bisogni urbanistici e industriali.
La stanchezza è ripagata dalla consapevolezza di essere vicini alla meta. Bluff non è più così lontano e in mezzo ci sono città che promettono di essere interessanti. La nostra tabella freme per essere riempita e lo sarà presto. Intanto cerchiamo un posto per la notte e lo troviamo a Lake Hawea. La temperatura è ideale e ci addormentiamo soddisfatti, ignari del brutto risveglio che ci aspetta.


Cape Farewell

Sono scemo

A Cape Farewell

Sono scemo 2

Laura contempla il lago Hawea

sabato 16 febbraio 2013

Una bolla di lamiera in mezzo alla tempesta


4 - 5 febbraio
Il traghetto per Picton, South Island, parte domani alle 2 pm. Facciamo il biglietto al Terminal della Bluebridge e quando facciamo per uscire la pioggia ci ferma sulla porta. Oggi il cielo è un batterista di heavy metal con le palle al rovescio: doppio pedale e tante paia di bacchette da spezzare, colpo dopo colpo, sul bordo del rullante. Litri d'acqua riempiono lo spazio oltre le vetrate, cadono pesanti come ghiaia sull'asfalto, coprono i rumori del traffico e le voci della gente dall'altra parte della strada. 
Uscire di qui ora sarebbe come rovesciarsi in testa il secchio dei gavettoni. Ne approfittiamo per darci una lavata nei bagni del Terminal, particolarmente puliti e spaziosi. Mentre con la mano destra cerco di convogliare un po' d'acqua all'ascella sinistra, col braccio proteso in avanti come Superman, penso che ne ho abbastanza di vita spartana. Ma Laura e io non abbiamo trovato altri modi per poter viaggiare a lungo con pochi soldi in tasca. E se vogliamo andare in Cina, dobbiamo continuare ad eliminare tutte le spese superflue e a ridurre al minimo quelle necessarie. Niente alberghi, niente campeggi, né tanto meno ristoranti. I pasti si comprano al supermercato, a seconda delle offerte, e si cucinano sul fornello da campeggio. Per dormire, per lavarci e per Internet sfruttiamo le risorse gratuite del territorio, se ci sono: aree di servizio, fiumi, laghi, bagni pubblici, biblioteche... Niente svaghi turistici: no alle escursioni guidate, alle gite in barca. No alle mostre ed ai musei a pagamento. 
Sono certo che qualcuno penserà che tutto questo non ha senso, e sempre più spesso mi ritrovo a pensarlo anch'io. Come adesso, che il lavandino ha esondato e mi sono bagnato le scarpe. Ma se Laura e io abbiamo potuto viaggiare per un anno intero con il budget di una crociera di due settimane è anche grazie all'austerità assoluta che ci siamo imposti. Ci siamo persi tante cose, è vero. Ma abbiamo avuto l'opportunità di conoscere le persone nei luoghi in cui ci siamo fermati, abbiamo mangiato quello che mangiavano loro e agli orari in cui lo facevano loro. Abbiamo imparato la loro lingua e alcune delle cose che non si dicono a parole. Abbiamo soprattutto fatto l'esperienza di essere stranieri, e ogni volta è stata diversa. Ci siamo persi tante cose, ma abbiamo avuto ciò che ci premeva di più.

La pioggia non diminuisce. Abbiamo temporeggiato fin troppo, usando le poltroncine e la connessione gratuita della sala d'aspetto. Ora non ci resta che correre fino alla macchina. Ci bagneremo.
Dobbiamo trovare un posto per la notte e ci allontaniamo dalla città seguendo la costa. Dallo specchietto retrovisore vedo l'immagine liquida delle biciclette. Sono al loro posto, sul loro supporto installato sul gancio di traino, ma oscillano a destra e a sinistra in modo sempre più preoccupante. Ci fermiamo a dare un'occhiata e io stringo la vite del porta-biciclette per farlo aderire meglio al gancio di traino. Ripartiamo tenendo d'occhio lo specchietto, ma le cose non cambiano: il vento sembra voler strappare via tutto il blocco e buttarlo a mare. Al primo paese a nord di Wellington ci fermiamo sotto la tettoia di un benzinaio. Controllo di nuovo il porta bici, ma è ben stretto sul gancio e non ha nessun danno. Mi accorgo che è il gancio stesso ad essersi svitato un poco, probabilmente durante il viaggio. Chiedo al benzinaio di prestarmi degli attrezzi e lui esce per darmi una mano. In due cerchiamo di smuovere il crosso bullone, ma senza successo. Il meccanico dell'officina accanto spunta fuori e dice “È bloccato, l'unica soluzione è tagliarlo e metterne uno nuovo.” È quasi buio e per oggi non possiamo farci niente. Le officine stanno per chiudere e non ci resta che andare al parcheggio sulla spiaggia, quello con i bagni pubblici, che abbiamo visto lungo la strada ad un paio di chilometri da qui.
Ci aspetta una notte d'inferno. Le onde si sollevano alte e grigie come muri e si infrangono sugli scogli a pochi metri da noi. Il vento sibila tra le fessure dell'abitacolo e scuote la macchina, la scuote come fosse un pupazzo gonfiabile ancorato ad un sasso. La pioggia continua a picchiare da tutti i lati e di tanto in tanto qualche goccia ci arriva addosso. Pigiamo della carta igienica nei punti in cui mancano le guarnizioni dei finestrini e la situazione migliora un po'. O forse siamo troppo stanchi e ci addormentiamo, in una bolla di lamiera quasi impermeabile in mezzo alla tempesta.
Il mattino seguente le condizioni climatiche non sono cambiate di molto, ma piove meno. Torniamo a Wellington e per prima cosa ci fermiamo da un meccanico a chiedere un consiglio per il porta-biciclette. Anche lui cerca di smuoverlo e non ci riesce, ma dice che va bene lo stesso se lo usiamo solo per le bici. Non siamo tanto convinti, ma decidiamo di rinviare la soluzione del problema a domani, quando saremo dall'altra parte dello stretto e, forse, avrà smesso di piovere. Compriamo da mangiare al supermercato e ci mettiamo in coda per salire sul traghetto. 

Se avevamo una mezza idea di arrivarci in barca, in Cina, l'abbiamo cambiata. 
Attraversiamo lo stretto di Cook in mezzo a una tempesta e il traghetto, che visto dal porto sembrava un palazzo di cinque piani, ora è una barchetta di carta in balia delle onde. Onde sempre più alte e più lunghe. Ti senti salire, salire, e poi cadere tutto in una volta nel vuoto, mentre vedi la prua andare a sbattere contro un muro d'acqua più alto di lei e far esplodere schiuma bianca sul ponte e sulle vetrate. In pochi possono godersi lo spettacolo. I tanti turisti allegri hanno spento i sorrisi, hanno posato le guide illustrate e le macchine fotografiche ed ora sono pallidi in volto, tengono in mano un sacchetto di carta che quasi di sicuro useranno. Io mi sposto verso la poppa, nel corridoio tra il bar e i bagni, e mi siedo per terra. Cerco di respirare profondamente e di non guardare gli altri. Mi preoccupo un poco quando vedo una donna dell'equipaggio, che dovrebbe essere in giro a sorridere e a tranquillizzare, sedersi a terra dietro al bancone del bar e vomitare nel sacchetto, mentre una sua collega cade a terra mentre cerca di attraversare il corridoio.
Tutto questo dura circa quattro ore e poi smette. Il sole torna fare calore e luce proprio mentre iniziamo a navigare tra i primi lembi di terra dell'Isola Sud. Dobbiamo addentrarci tra isole e penisole prima di sbarcare a Picton, e la sensazione è quella di stare sospesi in una valle immensa ed allagata, come se una diga enorme si fosse rotta e se sotto questo mare turchese ci fossero stati un tempo villaggi, pascoli e strade. Le isole si alzano intorno a noi in colline di un verde acceso, lo stesso verde che a nell'Isola Nord era ormai scomparso, ingiallito dal sole estivo.
Ci siamo, le ruote toccano terra ed inizia il secondo capitolo della nostra storia neozelandese. E c'è il sole.


domenica 10 febbraio 2013

Con la Cina nel mirino


3 febbraio

L'edificio dell'ambasciata cinese a Wellington incute timore. Varcare le sue colonne di marmo, salendo ad uno ad uno i gradini grigi e affilati, è come fare un tuffo in un'altra realtà. In un paese come la Nuova Zelanda, in cui le case basse e luminose sembrano dirti “Prenditi il tuo tempo, goditi il tuo spazio”, l'ambasciata cinese ti dice invece “Tu, miserabile individuo, ricorda che non hai alcun significato se non alla luce dello Stato.”

Fin qui il nostro viaggio è andato alla grande. Ci siamo presi il nostro tempo e in tre giorni di sole abbiamo percorso circa 700 Km. Abbiamo saputo concederci ampie digressioni, malgrado la solita fretta di andare lontano. Siamo stati sul monte Taranaki, che visto sulla mappa somiglia ad un occhio dalla cui iride si diramano una miriade di capillari (in realtà fiumi). I maori l'hanno chiamato così per la sua lucentezza dovuta alla neve che lo ricopre (tara = montagna; ngaki = lucente). Il capitano Cook invece l'ha chiamato Egmont: evidentemente secondo lui sembrava un uovo al tegamino. Tutt'oggi il monte ha due nomi ufficiali (cosa non rara in Nuova Zelanda), ma io sono dell'idea che si dovrebbe chiamare Monte Occhioiniettatodisangue. O Monte Occhio.
Dopo la montagna, il mare. Ci siamo fermati a Wanganui, sul Mar di Tasman, e abbiamo passeggiato sulla sabbia scura con le scarpe in mano. 
Intimiditi dal ricordo dei nostri sguardi grigi dello scorso ottobre, quando pioggia e vento ci avevano costretti a lunghissime giornate all'interno dell'abitacolo gocciolante di Kiwi, prima di partire temevamo il peggio. Ma ora è estate, ed è tutta un'altra vita. Ci fermiamo quando abbiamo fame (e non quando piove un po' meno) e ci rilassiamo sui tavoli da pic-nic, nelle tante aree di sosta con bagno (e qualche volta barbecue) sparse per la Nuova Zelanda. Nelle stesse aree di sosta ci fermiamo a dormire: ci spostiamo nella parte posteriore della macchina, tiriamo le tendine e buonanotte. Al mattino tiriamo fuori il fornellino per il caffè, il pane e la Nutella e ci accomodiamo al tavolo per la colazione.
Arriviamo a Wellington di domenica pomeriggio ed io ho l'ennesima conferma: non sono tagliato per le grandi città. Non so mantenere la calma in quei posti in cui parcheggiare la macchina costa di più che continuare a guidarla tutto il giorno (4 dollari all'ora!). Non mi pare possibile che se prendi un senso unico sbagliato ti ritrovi in un labirinto incomprensibile, in cui devi scegliere in fretta: destra o sinistra? E scegli sempre la sinistra e invece era la destra. E vaffanculo.
Così ci allontaniamo dal centro e tiriamo giù le bici. Con quelle è un po' più semplice girare e riusciamo ad arrivare al porto, dove c'è gente che cazzeggia, ragazzini che si tuffano, fidanzati che si baciano.
Per la notte riprendiamo la macchina e ci spostiamo a Makara Beach, a venti minuti dalla città oltre le colline. È un villaggio di poche case, tutte a pochi passi dal mare. La spiaggia di sassi bianchi è enorme e sembra il posto ideale per dormire in macchina.
Mentre ci guardiamo intorno un ragazzo si esibisce in derapate alla guida di una piccola Dune Buggy autocostruita. Poi si ferma nel suo garage, ad un lato della spiaggia, e aiutato da un amico armeggia con una chiave inglese dalle parti del motore. Pochi minuti dopo il bolide ricomincia a percorrere la spiaggia a tutta velocità, ma questa volta alla guida c'è una biondina di circa vent'anni.
Al lato opposto della spiaggia c'è una casa di legno scuro, isolata dalle altre. Nella veranda tre uomini bevono birra e guardano verso il mare. Un cagnolino bianco che stava con loro inizia a correre dietro alla Dune Buggy, abbaiando. La ragazza cerca di evitarlo, frena e poi riparte schizzando sassi con le ruote. Ma il cagnolino non si arrende e le si para davanti di nuovo, nonostante i richiami di uno dei tre uomini della veranda. Questa volta la frenata è più lunga. Il cane è salvo per poco, ma le piccole ruote sono infossate e la ragazza esce dall'abitacolo per cercare di liberarle. Il padrone del cane, calzoni corti e scarponi da trekking, una maglietta bianca con la scritta “Proprietà dell'ospedale psichiatrico”, si avvicina velocemente e afferra il telaio della macchina. Ma non è per liberarla: prima la rovescia su un fianco, poi a ruote in aria. È incazzato nero e inveisce contro la ragazza. Non ne può più, dice, che continuino a terrorizzare la gente con quella cazzo di macchina. Partiti dal garage, nel frattempo, i due meccanici percorrono la spiaggia di corsa, brandendo l'uno un martello e l'altro una chiave inglese da 32.
Inizia un litigio furibondo in cui fucking è la parola più ricorrente. Uno dei due ragazzi, quello col martello, si avvicina all'uomo e alza il braccio. L'uomo con gli scarponi non indietreggia, ma evita di replicare ulteriormente. Intanto anche gli altri due uomini hanno lasciato la veranda e si sono portati alle sue spalle. Stanno con le braccia conserte, decisi a mantenere la pace ma pronti ad intervenire. Non so come né perché, ma tutti quanti riescono a calmarsi prima dell'irreparabile. I ragazzi chiudono la Dune Buggy in garage ed entrano in casa, e i tre uomini ritornano nella veranda.
Mezz'ora più tardi, mentre io e Laura mangiamo un'insalata di tonno, vediamo avvicinarsi a piedi una squadra di sei poliziotti e un cane antidroga. Hanno parcheggiato dietro la curva per non essere visti e in pochi secondi circondano la casa dei due ragazzi. Quello all'ingresso principale bussa alla porta, mentre gli altri controllano che non scappi nessuno.
Nelle ore seguenti ci saranno perquisizioni e interrogatori. La scena finale, ormai al crepuscolo, vede i due ragazzi fare un ultimo tiro dalla sigaretta e gettarla a terra con il gesto degli sconfitti, prima di salire sui sedili posteriori della macchina della Polizia.
Vi racconto questo per mettervi in guardia. Se venite in Nuova Zelanda, non fate gli scemi con la Dune Buggy sulla spiaggia, perché se la prendono sul serio.
Il mattino dopo ci svegliamo sotto un cielo grigio e il mare ci soffia addosso un vento poco gentile. Mentre ritorniamo a Wellington cadono le prime gocce di pioggia e i tergicristalli spalmano uno strato di polvere e salsedine sul parabrezza . Parcheggiamo davanti all'ambasciata cinese: alla fine è per questo che siamo venuti. La Cina è il nostro prossimo obiettivo.

Questa pioggia non aiuta, rende la penombra dell'ufficio visti ancor più pesante. Il ragazzo dietro lo sportello ha la faccia fresca di rasatura e un colletto immacolato. Parla un inglese più decente del nostro e sorride con cordialità, ma non c'è traccia in lui della disponibilità che spesso abbiamo incontrato tra i neozelandesi: gente che passa dall'altra parte della scrivania e ti spiega, ti disegna mappe, fa telefonate al tuo posto per chiedere informazioni. Ma quel che c'era da capire l'abbiamo capito: è troppo presto per il visto, e questo ci incasina le cose. Dovremo stare in Nuova Zelanda ancora per qualche mese, e il visto cinese va fatto al massimo un mese prima di partire.
Ci rimettiamo in macchina e puntiamo verso il porto. Visto che la trafila burocratica è rimandate, se non altro possiamo fare il biglietto per l'Isola Sud e prendere il traghetto al più presto.
Guidando nel traffico cittadino, dallo specchietto retrovisore vedo le biciclette oscillare pericolosamente sul gancio di traino. Il cielo intanto si fa sempre più pesante, gonfio di cattivi presagi...