martedì 28 agosto 2012

Miranda Road, Nuova Zelanda


Il primo giorno alla fattoria di Annie e Sean è filato via liscio: ore otto, preparazione compost; ore nove, rimozione erbacce dai pascoli; ore dieci e trenta, semina di piante che non ho capito il nome. Pomeriggio, macellazione di un cinghiale cacciato coi cani e ucciso a coltello da due ragazzi tedeschi amici di famiglia. È filato tanto liscio il primo giorno che il secondo non riuscivo a stare dritto in piedi, né a reggere la mazzetta e il piede di porco coi quali mi si chiedeva di procedere alla demolizione di un cottage.
Ci troviamo sulla costa a sud di Auckland, in una località chiamata Miranda. Dovrebbe essere un paese, stando alle mappe stradali, ma non lo è. Nessun agglomerato di case, nessun negozio, niente stazione di servizio. Solo fattorie e campi. Il paesaggio intorno a noi è fatto di dolci colline verdi e di un triste mare invernale, bello da spegnere le parole nella gola. Perché è inverno qui, fa freddo e piove spesso. Le nuvole passano rapide e cambiano le carte in tavola come e quando gli pare. Il nostro unico paio di scarpe è ormai irriconoscibile, perennemente inzuppato e coperto da una spessa crosta di fango ed escrementi di animali vari. Ma quando viene fuori il sole tutto si accende come in un presepe colossale, la luce disegna le ombre e dà vita ai colori, soprattutto verdi e azzurri. Un bel salto dal deserto della costa peruviana...
Annie e Sean hanno una sessantina d’anni e cinque ettari di terra su cui usare la fantasia. Coltivano frutta e verdura, confezionano formaggi e marmellate, allevano polli. Tutto rigorosamente “organic”. Lavoriamo per loro cinque ora al giorno in cambio di vitto e alloggio. Ci hanno sistemati in un caravan che è ben più grande di casa nostra e nel quale c’è tutto, compreso un frigorifero pieno di bontà locali. Siamo passati dal nutrirci di pasta infima, caffè solubile e cioccolato Nestlé, al latte munto in giornata, a frutti appena colti e formaggio fatto in casa.
Finite le nostre ore di lavoro, se il mal di schiena lo permette, prendiamo le bici e andiamo a esplorare il territorio. Ma a parte i pascoli e il mare, tutto è lontano. Presto o tardi dovremo infilarci nella capitale alla ricerca di un mezzo di trasporto nostro. E magari di un lavoro retribuito, giusto per non restare a piedi.

martedì 21 agosto 2012

Viaggiare versus costruire


All'aeroporto di Fort Lauderdale, in Florida, la coda all'Immigrazione è un serpente lungo e lento. Abbiamo fatto solo il primo scalo e siamo più stanchi del dovuto. In fila con noi ci sono molti giamaicani, appena arrivati con un volo da Kingston, e anche molti colombiani, imbarcatisi insieme a noi a Bogotà. Ci sono anche gli statunitensi, ma loro fanno un'altra fila, più veloce. Laura e io comunichiamo con monosillabi stentati, mentre avanziamo trascinando gli zaini verso lo sportello della polizia. Abbiamo mal di testa, non abbiamo voglia di parlare: “Hai tutto?” “Mmm.” “Compilato il modulo?” “Mmm.”
“Ehi compaesani!” dice una voce, qualche posto più indietro nella fila. “Vi ho sentiti parlare” aggiunge “e l'idioma mi sembrava familiare.” Lui si chiama Jacopo e a vederlo è lo stereotipo di quello che io, con una certa supponenza, ho sempre definito un fattone. Treccine, braccialetti, orecchini, una spilla da balia su una maglia decisamente da lavare. Ma ha anche un sorriso bianco e sincero, e degli occhi che sembrano aver visto più dei ventisei anni di vita dichiarati sul suo passaporto. Viene da sette mesi di America Latina ed è preoccupato: in molti gli hanno detto che con l'aspetto che ha, di sicuro gli faranno storie qui negli Stati Uniti. Il suo obiettivo, ma lui preferisce chiamarlo sogno, è l'India; ma per il momento è diretto in California dove cercherà di tirare su qualche soldo lavorando, diciamo così, nel ramo dell'agricoltura.
Sbrigate con successo le formalità ci ritroviamo tutti e tre nella sala d'attesa del volo per Los Angeles. Abbiamo tutti fame, ma un panino piccolo piccolo costa otto dollari e quindi ce la teniamo. Jacopo è un fiume in piena di parole, ma devo dire che lo ascolto volentieri. Tutti abbiamo dei pregiudizi, perché negarlo? L'importante è essere pronti a riconoscerli e metterli da parte, quando è il caso. Così, questo fattone mi si rivela una persona molto interessante. Non tanto per le cose che fa e dice, ma per la vitalità, la partecipazione e la consapevolezza che traspira.

È nato nella provincia di Siena, in un paesino di cinquemila abitanti dove ci si conosce tutti. La sua famiglia è benestante e a lui non è mai mancato nulla: motorini, macchine, soldi. E non solo questo: aveva già un futuro assicurato nella ditta di lavorazione di metalli che la sua famiglia portava avanti da tre generazioni.
Ma lui non ci si trovava in quei panni. “Fino a quattro anni fa” dice “non ero mai uscito dal mio paese e lo sentivo come una prigione.” Ma non è solo questo. Lo capisco quando mi racconta della sua passione per il paracadutismo: “C'erano delle volte che, mentre mi avvicinavo a terra, mi chiedevo 'Lo apro o non lo apro?'”. Stava male e si rendeva sempre più conto che qualcosa nella sua vita non tornava. Così ha trovato il coraggio di tirarsene fuori, anche se questo gli è costato essere la vergogna e la rovina per la sua famiglia. Ha iniziato a girare il mondo e non si è più fermato: torna in Italia per qualche mese, lavora duro, e appena può riparte. Suo padre ha venduto la ditta ad un ex dipendente ed ora lavora per lui come operaio. Sua madre ha pianto molto, preoccupata per questo figlio che andava incontro a qualcosa che lei stessa non conosceva. Ma col tempo questa rottura ha portato a qualcosa di buono: dopo quattro anni suo padre, che è uno che parla poco, perché ci si vuole bene ma non lo si dice, una sera gli ha detto: “Sai, non sono mai stato così tranquillo come ora.” E sua madre è contenta delle lettere che lui le scrive dalle località più sperdute: “Scrivimi ancora,” gli dice “che mi sembra di viaggiare anche a me, mi sembra di fare quello che non ho mai fatto e che avrei voluto fare”. E ha ragione Jacopo quando dice che se è successo questo è perché, quando lui torna a casa, i suoi glielo leggono in faccia che sta bene. Lo sentono nel tono della sua voce, lo vedono in tutta la sua persona. Quindi che importa la ditta, le macchine, i soldi? In questo senso credo che questo ragazzo abbia aiutato la sua stessa famiglia a crescere. 
Jacopo mi parla della necessità di dare un freno al cervello, di usare il cuore come guida nella vita. Dice che cerca di non decidere nulla, ché quasi sempre le cose vanno al loro posto naturalmente. Mi ripete più volte, e ne è convinto, che nulla accade per caso. Io non la vedo allo stesso modo, e faccio fatica a spiegargli il perché. Ma sono contento di avere incontrato una persona alla ricerca, uno che mette in discussione tutto a cominciare da se stesso. Non sta a me né a voi dire a che punto sia questa ricerca, ma come lui stesso dice “Se questo è cercare, maremma, che figata!”
Così continuerà a viaggiare. Attualmente, questo è l'unico modo in cui vuole vivere. Mi torna in mente il ragazzo torinese conosciuto qualche giorno fa a Bogotà, che da dieci anni a questa parte ha vissuto nei posti più disparati, dall'Australia alla Colombia, dalla Spagna all'Indonesia. E senza che ci fosse dietro un progetto, o un'intenzione: lui viaggia e basta. E mi torna in mente anche Gaetano, il fotografo conosciuto in Costarica, che da ormai una vita si sposta ogni quattro o cinque anni e ricomincia una vita nuova in un altro posto, insieme ai suoi tre amici artisti. Quando l'abbiamo conosciuto aveva da poco trovato casa e stava per inaugurare la sua piccola rosticceria. Mi incuriosiscono questi uomini, perché c'è qualcosa in loro che mi sfugge: “Ma cosa state costruendo voi, spostandovi di luogo in luogo?” vorrei chiedergli io, che mi illudo di sapere dove voglio andare a parare. Io che sto imparando cose che forse mi saranno utili, io che ho intenzione di tornare a casa, di avere una casa. Ma loro ti guardano con uno sguardo tranquillo, consapevole: “E chi ha detto che si debba costruire? Non ci si può limitare ad essere?” sembrano dire.

È ora di imbarcarsi: altra fila altra perquisa. Arrivati a Los Angeles Jacopo decide di ripartire subito con un autobus notturno, alla volta di una comunità hippie della California. Noi invece cerchiamo invano un alloggio ad un prezzo umano, ma alla fine ci accasciamo a dormire sulle poltroncine dell'aeroporto. E qui siamo tutt'ora, dopo quasi 24 ore, in attesa del volo FJ811, destinazione Fiji.

domenica 19 agosto 2012

martedì 14 agosto 2012

Una nuova partenza, una nuova vigilia


Ormai ci siamo. Domani lasceremo Mancora e inizieremo a risalire verso Bogotà, dove il 20 di agosto daremo il via ai numerosi scali aerei con destinazione Auckland. Nel giro di una settimana si cambia lingua, cultura, paesaggio. Si cercherà una casa, un lavoro, magari una bicicletta e un paio di scarpe nuove. L’entusiasmo e la stanchezza giocano a dama nelle nostre teste.

venerdì 10 agosto 2012

Effetti collaterali


Oggi il mare è calmo. Gli alberghi costruiti a un passo dalla riva hanno un giorno di tregua, gli addetti all'abusivismo risistemano i sacchi di sabbia e le sdraio sono pronte a resistere ai nuovi attacchi delle maree. Inutile dirlo: io faccio il tifo per le onde. Che buttino giù tutto, possibilmente sulla testa dei prepotenti. Ma è possibile che nessuno possa più camminare sul bagnasciuga, che ci si debba arrampicare alla ricerca di assurde deviazioni, per permettere a due stronzi di sorseggiare il caffè su una terrazza panoramica di cemento armato?
È sparito il grosso elefante marino che da giorni si era spiaggiato, con la bocca aperta in una smorfia che a me pareva di dolore. Mi sa che il mare se l'è ripreso. Al suo posto è comparso un piccolo delfino con un buco in testa. Effetti collaterali di tecniche di pesca poco pulite, immagino. Non lontano dal cadavere c'è un ragazzo dai capelli lunghissimi, completamente nudo. È in piedi, dà le spalle al mare e oscilla leggermente con le braccia aperte, come se stesse in equilibrio su una fune. Effetti collaterali, immagino.

La spiaggia El Amor è quasi sempre deserta. Da lì parte la mia passeggiata quotidiana, lunga circa un chilometro, verso l’altro capo della baia. La meta è l’hotel Don Giovanni, dove lavora Laura. Lungo il cammino la sabbia e i relitti lasciano posto agli ombrelloni gialli marchiati Cristal, una delle birre nazionali. Un bambino ciccione, alla guida di un quad di grossa cilindrata, fa lo slalom tra la gente sdraiata al sole. Un americano pieno di tatuaggi cerca di far partire un cavallo pigro. In acqua, i surfisti cercano la loro onda. 

Meno dodici al volo per Auckland.


sabato 4 agosto 2012

Mancora: di nuovo in attesa


Finiti i giorni della burocrazia, intensi e fitti di ansie varie, di nuovo viene il tempo dell'attesa. Meno 21 alla partenza per Auckland. Ma Lima non andava bene per noi che abbiamo bisogno di silenzio e natura intorno. E tornare a Ollantaytambo non era possibile: a parte la noia di rifare per la terza volta lo stesso tragitto, semplicemente, non ce lo potevamo permettere in vista del viaggio che ci aspetta. E dove potevamo andare? C'era da ricominciare tutto da capo: la ricerca di una stanza a prezzi “peruviani”, di un lavoro, di un negozio di fiducia per la spesa...
Ed ecco l'idea: se non è la montagna, che sia al mare! Ma non a Talara, in mezzo alle petroliere. Avevamo più volte sentito parlare di una località chiamata Mancora, sulla costa a nord del Perù: un paradiso per surfisti, turisti e viaggiatori d'ogni provenienza. Perché no? Perché non una casetta sulla spiaggia? Perché non un lavoretto semplice in un luogo in cui i turisti stranieri lasciano volentieri laute mance?
Detto, fatto. Trovata la stanza, nuova e pitturata di fresco, in un villaggio turistico deserto e non ancora aperto al pubblico. Trovato anche il lavoro in un hotel di lusso sulla spiaggia che ha aperto dieci giorni fa. A dir la verità è Laura che sta lavorando: a me volevano mettermi in cucina un'altra volta, volevano che gli avviassi l'attività con pranzi e cene dai menù italiani. Ma non esageriamo adesso, non mettiamoci nei guai. E poi siamo ad agosto, é tempo di vacanze!

p.s.
Visto concesso!