E così ci abbiamo provato a ritagliarci
un'oasi di pace, lassù sulle Ande. Avevamo trovato una stanza con finestra
panoramica e persino due, dico due, sedie. Laura aveva iniziato come
cameriera in un posto decente: niente minigonna d'ordinanza né l'obbligo di
stare in piedi in silenzio ad attendere i clienti, come all'Uruguayo di Talara.
Intorno a noi solo rovine incaiche, montagne immense da mozzare il fiato e un
sacco di turisti che ogni giorno passano da Ollantaytambo – così si chiama il
paesino in questione – per prendere il treno diretto a Machu Picchu. Io mi
apprestavo a passare un buon periodo da uomo solitario e meditabondo, dedito
alla scrittura e alle passeggiate. Un mantenuto, insomma.
È pur vero che la gente del luogo era
particolarmente ostile con noi, almeno ogni volta che mettevamo il naso al di
fuori del circuito turistico. Non vivevamo in un ostello da 50 soles a notte,
ma in una stanza da 200 al mese. Non frequentavamo gli Internet caffè o i
ristoranti “tipici” della piazza centrale da 5 soles per una tazza di tè, ma le
pollerie da 6 soles per un pasto completo e il mercato comunale. Sì, ci
arrabbiavamo più del dovuto nello scoprire, ancora una volta, che poco importa
se sai benissimo il prezzo medio delle cipolle e dei pomodori: se hai la faccia
da gringo e la felpa Adidas devi pagare il doppio, e se fai storie ti trattano
male, qui più che altrove. Ma noi eravamo disposti a sopportare, il luogo in
cui stavamo valeva la pena ed era il migliore per aspettare l'ormai agognato
volo per la Nuova Zelanda.
“Leggi sempre bene e fino in fondo prima di
firmare”: questo ti insegnano i genitori quando compi diciott'anni. Ma andiamo
con ordine: esiste, per chi va in Nuova Zelanda dall'Italia ed ha meno di 31
anni, la possibilità di richiedere una Working Holiday Visa, un visto che ti
permette di stare un anno ed anche di lavorare. E noi lo vorremmo tanto
ottenere, questo visto. È facile: se sei italiano, o di qualsiasi altro paese
occidentale, non devi che fare una richiesta online e pagare un centinaio d'euro.
Ma se leggi bene e fino in fondo le molte regole e postille, scopri che se hai
sfiorato anche solo col pensiero uno dei paesi non compresi nella lista di
quelli da loro considerati “sicuri”, verrai considerato poco meno che un
appestato. Figuriamoci se hai vissuto otto mesi in America Latina! Il motivo ti
tanta apprensione sembra essere la tubercolosi. Quindi, se vuoi ottenere il
visto, devi andare a tue spese da uno dei medici che è nella loro lista, farti
fare una radiografia al torace e un certificato in inglese, compilare e far
compilare al medico una serie di scartoffie e far pervenire il tutto ai
all'Immigrazione neozelandese entro quindici giorni.
Come posso spiegare? Come posso farvi capire?
Mi limiterò ai fatti.
Gli unici medici peruviani che compaiono nella
lista si trovano a Lima, a ventiquattro ore di autobus da Ollantaytambo.
Telefoniamo a tutti prima di muoverci e solo due dimostrano di sapere di cosa
stiamo parlando. Di questi due solo uno vuole tanti soldi, l'altro invece ne
vuole davvero troppi. Così facciamo i bagagli e affrontiamo all'inverso lo
stesso viaggio di pochi giorni prima. Non abbiamo scelta: o così, o salta tutto
il nostro programma per il prossimo futuro. A Lima, in effetti, sbrighiamo
tutto in pochi giorni. Il dottore è di una cordialità irritante e ha un sorriso
spento stampato in faccia che sembra dire: “Io faccio la mia particina, poi il
resto son proprio cazzi vostri”. Gli piace farsi aspettare: io e Laura passiamo
lunghe mezzore seduti nel corridoio bianchissimo di una clinica per ricchi,
illuminati da grossi lucernari che sembrano veri. Alla fine il dottore esce
dalla sua porticina, bianca come il tagliere nuovo di un macellaio, e ci
consegna due buste sigillate. In un momento solo capiamo due cose: primo, non
vedremo mai cosa c'è nelle buste, se siamo o meno tubercolotici e se il dottore
abbia o meno fatto correttamente il suo lavoro; secondo: lui non trasmetterà un
bel niente per via telematica all'Immigrazione neozelandese, come dovrebbe
fare. Ci dobbiamo arrangiare noi a consegnarla in all'ufficio più vicino.
Quando torno a rileggere bene e fino in fondo
il sito dell'Immigrazione neozelandese scopro che, secondo la lista, l'ufficio
a noi più vicino è a Santiago del Cile, e questo sarebbe abbastanza per
mettersi a urlare per la disperazione. Telefono all'Help Center in Nuova
Zelanda e parlo con Charlie, in un inglese da ripetente di prima liceo. Gli
spiego la situazione e lui mi dice di inviare il tutto quanto prima, ma a
Londra. Riguardo al fatto che le buste siano sigillate Charlie ci può fare
poco, dice che a volte succede. In altre parole, “son proprio cazzi vostri”.
E così eccoci qui, in un ufficio DHL di Lima,
per una spedizione che ci costa quanto un mese di vitto e alloggio. Ci
guardiamo in faccia Laura e io mentre consegnamo, non proprio fiduciosi, le due
buste dal contenuto ignoto. Il tale dell'ufficio è sbrigativo, butta i nostri
risparmi sudati a forza di tavolate chiassose e pizze orrende in un cassetto e
dice: “Il prossimo!” Il vecchio dietro di me cerca di farsi spazio ma io non
riesco a separarmi dalle uniche due copie di qualcosa che non so e da cui
dipende il futuro di questo viaggio. In preda all'ansia mi azzardo a chiedere:
“Ma... se si perde?” “Difficile” risponde l'impiegato. “Lo so,” insisto “ma se
succede?” “Vai sul sito, con questo codice puoi controllare dov'è il tuo pacco.
Il prossimo!”
Tutto questo per noi è poco meno che un gioco.
Se qualcosa va storto, in qualsiasi momento, possiamo sempre strisciare la Visa
e tornare a casa. Tristi e senza un soldo, sì, ma ad aspettarci troveremmo una
casa ed una famiglia pronta ad accoglierci e ad ascoltare i racconti delle
nostre scorribande. Ma che dire di tutta quella gente, i migranti per davvero,
che ogni giorno partono da posti come questo con la pretesa di passare dalla
“parte giusta” del mondo? Non riesco a fare a meno di pensare a come dev'essere
giocarsi davvero tutto, farsi i conti in tasca e dire: “Forse ce la faccio, ma
di poco” e poi trovarsi un muro davanti. Ma non un muro di mattoni, col quale
ci si aspettava anche di avere a che fare in qualche cantiere di periferia. Un
muro di eventi incontrollabili, regole incomprensibili, requisiti
insoddisfabili, scrivanie che non parlano la tua lingua, moduli telematici che
ti rimandano sempre lo stesso messaggio d'errore. Un muro che ti chiede
tantissimi soldi, soprattutto. E tu non puoi scegliere, perché di soldi ne hai
già spesi troppi per arrivare fin lì e non te la senti di rinunciare e tornare
indietro. E allora ne spendi altri, li spendi tutti. Ma con quei soldi non hai
comprato proprio niente: solo la promessa che, tra un po', qualcuno ti manderà
via e-mail una risposta su quello che sarà il tuo destino. E non è detto che ti
piacerà.
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