venerdì 30 dicembre 2011

Joe

Al Capone
Joe è un uomo sui settanta con un maglione mica tanto bello e una storia da raccontare.

C'è un party questa sera nella casa di Redondo Beach: amici di vecchia data del padrone di casa si incontrano, forse per salutare insieme l'anno che arriva. Un fattorino ha portato due burritos lunghi un metro e mezzo ciascuno. Ci sono anche le polpette al sugo di Gaetano's e c'è un frigo da viaggio, pieno di ghiaccio e lattine. Capannelli flottanti di persone tessono pezzi di discorsi, qualcuno esulta agitando la stecca da biliardo. Il cane è nella gabbia e protesta: avrà anche lui la sua polpetta.
Ci aggiriamo prudenti, Laura e io, ché ogni conversazione comporta innumerevoli Sorry? e dopo un po' ci vuole una pausa. Credetemi, è faticoso non capire mai un...
C'è una sedia vicino all'ingresso e una parete di vetri spessi e opachi che separa l'ambiente da tutto il resto: per un po' mi pare che quello, la sedia all'ingresso, sia la posizione ideale per il mio primo party. Una specie di distanza partecipante. Ma poi, attraversando le linee alla conquista di una polpetta, trovo Joe che racconta.
Ha un cognome che non sarebbe il suo, tanto per cominciare. Facciamo che prima si chiamava Caputo e ora D'Amato. Alla pratica anagrafica ha provveduto nientemeno che Mr. Al Capone, per togliere dai guai suo nonno che ne aveva combinata una grossa a New York.
Joe è cresciuto a Chicago (la città di Capone) e per un po' ha fatto “le consegne”. Ci tiene a dire che non ha fatto del male mai a nessuno, ma che quelli erano tempi duri. E che è difficile prendere le distanze dal proprio mondo, dalle persone che t'hanno cresciuto. Ai tempi della scuola andava in classe col giubbotto anche d'estate: “Sto bene così” diceva se l'insegnante lo invitava a toglierselo, visto il caldo torrido di alcuni di quei giorni. Sotto al giubbotto Joe nascondeva la pistola, una 44, perché bisognava essere pronti a difendersi. Come si è difeso suo nonno, quella volta che qualcuno è entrato nella sua macelleria con una pistola in mano e ne è uscito senza braccio. E senza pistola.
“Me ne sono andato perché erano morti troppi miei amici, ora è tutto passato” dice. Dice di essere un uomo diverso, anche se il suo passato gli ha insegnato molto, nel bene e nel male: ha dovuto fare i conti con il concetto di lealtà e di giustizia. Quel suo passato, dice, lo ha reso un uomo forte.
Ora fa una vita diversa, al fianco della sua seconda moglie. Commercia in biro con lampadina L.E.D. (ne ha regalata una a Laura: scrive bene e fa una gran luce) e ama viaggiare, come noi. Solo che noi non abbiamo mai volato in first, per ora.

lunedì 26 dicembre 2011

Los Angeles

Io disapprovo Las Vegas
Sono giornate grosse, intasate. Ti svegli e vai a letto e neanche ti sei accorto. Quindi dovrò essere sbrigativo, se non voglio che passi troppo tempo senza aver raccontato niente.
Eravamo rimasti che saremmo migrati verso sud, insieme alle oche. E così è stato. Alla Union Station di Chicago abbiamo preso un treno che in circa 43 ore ci ha portati alla Union Station di Los Angeles. Due notti su quei sedili. Gli americani non la spengono mai l'aria condizionata, neanche se fuori c'è meno dieci. Comunque c'era la living car, un vagone con tavolini e poltroncine girati verso vetrate panoramiche. Io ci andavo soprattutto di notte, quando da vedere c'era poco (neanche un lampione per miglia e miglia, buio nero) ma era più tranquillo: il posto ideale per autocommiserarsi della propria insonnia.
A Los Angeles avevamo un appuntamento con l'autonoleggio Budget dell'aeroporto, perché noleggiare all'aeroporto, a quanto pare, costa meno; quindi abbiamo dovuto ingegnarci con metropolitane varie per arrivarci, con addosso quegli zaini immensi che dobbiamo assolutamente ridimensionare. Ma ce l'abbiamo fatta, alla fine. Quelli della Budget ci hanno dato un'altra Focus, bianca questa volta, e tre volumi (col culo lungo). Ce ne siamo stati in giro quattro giorni, un po' da barboni come al solito. Ma la cosa, con una macchina a fare da rifugio, ci viene più naturale. Due notti ci abbiamo dormito dentro e in totale abbiamo fatto circa 2500 miglia, attraverso un itinerario più o meno premeditato che ha toccato la Death Valley (meraviglia di aridità e rocce scavate da acque che non scorrono più da secoli), Las Vegas (posto orrendo, abbiamo anche perso un dollaro alla slot machine), e il Grand Canyon (il GRAND CANYON).
E ora siamo qui a Redondo Beach (nella contea di Los Angeles) ospiti della famiglia di Michael, che già ci aveva accolti nella sua casa di Boston. Che dire... Seduti in giardino, sul bordo della piscina, vediamo l'Oceano. Proprio noi, noi che abbiamo mangiato pane bianco e pappa per cani fino a due giorni fa. It's fantastic!
Ieri abbiamo passato il Natale in famiglia, quasi come due di famiglia. Eravamo a casa di granma (la nonna di Michael, non la barca di Castro). Abbiamo scambiato i regali intorno all'albero e mangiato un tacchino eterno (prima non finiva mai di cuocere, poi di ingombrare il piatto) tagliato con una specie di sega elettrica in miniatura. Un'esperienza di circa otto ore in totale.

Qui è un po' come fosse fine maggio in Italia. Stamane abbiamo camminato scalzi sulla spiaggia, Laura ed io, accanto ai surfisti e ai cormorani che volavano a filo d'acqua, assecondando il moto delle onde, millimetrici.
Stiamo per andarcene dagli Stati Uniti: per noi una fase si chiude. Tre giorni, tre. Poi: Mexico.

martedì 13 dicembre 2011

Starnazzando verso Sud

Foto di Laura Pelliciari
Siamo tornati alla base: di nuovo a Naperville.
Stamane, cosa davvero insolita da queste parti, ci ha svegliati il frastuono: un centinaio di oche starnazzavano come dannate, in piedi sulla superficie del lago che durante la notte gli è ghiacciato sotto al culo. Mi sembrano sconcertate da questo fatto.
Si radunano in schiera di fronte a Mamma Oca, che sta aspettando il momento opportuno per dare l'ordine. Come Fidel alla guida dei rivoluzionari cubani prima di salire sul Granma.
Ci siamo. Il baccano cresce. Le ali sbattono. Una nuvola scura si muove verso sud.

Dall'altro lato della casa, sulla strada, il nostro vicino sta caricando i suoi scatoloni su un camion.
E presto, a giorni, toccherà anche a noi di sbattere le ali verso sud. Chissà, Mamma Oca: magari ci si ribecca in Messico.

sabato 3 dicembre 2011

New Orleans!

Eccoci nella nostra stanza di New Orleans. Spifferi, cesso sbreccato, quadro appeso a testa in giù. Il letto è enorme, direi tre piazze visti i tre cuscini in fila. Il designer ha pensato al verde scuro quale colore dominante (tende, fodere delle sedie, moquette) e alle crepe come motivo principale (ce n'è sul soffitto, sulle piastrelle del bagno, sulla porta...).
Non male. Un paradiso insomma, e lo dico seriamente: le ultime tre notti le abbiamo passate in viaggio sui pullman della Megabus e avevamo addosso un odore di dormitorio tale che una doccia, per quanto ingiallita e crepata, era tutto quel che ci voleva. Non vedevamo l'ora di toglierci quei vestiti di dosso e tutt'ora siamo indecisi se bruciarli.
In ogni caso viaggiare sui pullman è stata un'esperienza formativa. È andato tutto per il meglio.
A parte la volta che il tale seduto davanti a me ha iniziato ad avere le convulsioni e quasi ci restava secco. L'ha portato via l'ambulanza, ma prima ha fatto in tempo a sbausciarmi sulle scarpe. E a parte il Pazzo: ce lo siamo beccato per due viaggi di fila e parlava da solo, rappava una specie di rosario incomprensibile, imbacuccato come un Touareg coi Ray-Ban. Per il resto, a parte qualche bambino molesto e una giovane autista al suo debutto assoluto (1000 Km in notturna!) è andato tutto bene. A un certo punto abbiamo fatto caso a una cosa: eravamo quasi sempre gli unici due musi bianchi della situazione.
La prima tappa l'abbiamo fatta a St. Louis: siamo scesi infreddoliti e assonnati alle cinque di mattina. Fuori dal bus c'era una stazione chiusa e una città muta. Per quanto girassimo a velocità supersonica in cerca di un bar non c'è stato verso: gelo e basta, finché non ha riaperto la stazione. Siamo riusciti a scaldarci un po' nel pomeriggio, sdraiandoci tipo lucertole in riva al Mississipi.
Tappa numero due a Memphis. Arrivati nel tardo pomeriggio (dopo il viaggio con lo sbauscione) ci siamo concessi una cena messicana (buonissima) e una birra con concerto in un locale (non male). Una bella serata, estremamente mondana per i nostri standard.
Terza tappa ad Atlanta, dove abbiamo passato la giornata su una panchina al sole e non ci sembrava vero di poter togliere qualche strato di dosso. E a cena (accidenti, non abbiamo rispettato il budget quotidiano previsto!) un hamburger con patatine (mica quelli di Mac) e una porzione di chili. Spettacolo.
L'ultimo tratto l'abbiamo fatto in macchina. Stamattina il pullman ci ha scaricati alle cinque a Mobile (Alabama), davanti a un Holiday Inn. Lì abbiamo scroccato un passaggio a un cliente che andava verso l'aeroporto, dove abbiamo noleggiato la Focus che ci ha portati a destinazione.
E ora eccoci qui a New Orleans. Siamo pronti, per New Orleans. Che dire: speriamo che ci sia buona musica. Altrimenti che senso ha?