lunedì 31 dicembre 2012

2013: il (non) capodanno con lite coniugale


“Ehi, andiamo a casa?” dice con voce soffice.
Apro un occhio. Non stavo esattamente dormendo, ma non ero neanche del tutto sveglio. Da quanto tempo sono qui?
“Ma come andiamo?" dico, "Quanto manca a mezzanotte?”

Non so perché, ma il capodanno mi interessa. Mi piace l'idea di tirare le somme, di guardare la pagina vecchia con tutte le sue frasi interessanti, le cancellature. La mia è più una voglia di nostalgia che entusiasmo per il futuro. Preferisco dicembre a gennaio, è meglio l'ultimo foglio del calendario che averne ancora 12 da scontare. E la mezzanotte del 31 di dicembre è il momento culminante di una lunga attesa, il momento in cui sparo un minicicciolo e mi meraviglio di quanto tempo ci fosse pressato in quei 365 giorni.

“Quanto manca alla mezzanotte?” chiedo.
Siamo a casa di amici e dopo cena mi sono buttato su un letto a sonnecchiare. Da un po' di tempo la mia sveglia suona alle sei di ogni mattina, e con l'arrivo dei turisti in città le giornate di lavoro si sono fatte più lunghe e faticose. Tutti quanti vogliono fare colazione al Taste Café, a quanto pare. Se aggiungiamo l'insonnia, che ogni tanto si porta via qualche ora di sonno, è comprensibile che mi si chiudessero gli occhi.
“Ma come andiamo a casa?” dico, “E il brindisi?”
“Ma è mezzanotte e un quarto.” dice Laura, in piedi nel fascio di luce della porta aperta.
“Cosa? E perché non mi hai svegliato?”
“Dormivi così bene...”
“Ma... Ma che ore sono?”
“Mezzanotte e un quarto.”
“Potevi svegliarmi sedici minuti fa anziché adesso!”
“Lo so ma...”
Non ascolto già più, sono veramente arrabbiato. La interrompo. Articolo male le frasi.
“Ma che senso ha non svegliare uno che dorme salvo poi svegliarlo lo stesso, ma un quarto d'ora dopo, e dirgli che si è perso la festa?”

Mi tiro su. Ormai è andata. Sono furioso e devo sembrare gentile, almeno salutare gli amici come si deve.
In macchina, verso casa, neanche una parola. La gente fa baldoria per le strade, dall'altra parte del finestrino. Una ragazza si siede per terra in mezzo a un marciapiede, mentre due suoi amici si fermano ad aspettarla. Sul lago sparano gli ultimi fuochi d'artificio.
A casa, nel buio della stanza, occhi spalancati. Tra cinque ore suona la sveglia, e io mi sono perso il capodanno.

giovedì 27 dicembre 2012

Natale a Taupo (mancano solo Boldi, De Sica e la Belén)


Stamane ci siamo svegliati presto: volevamo aprire i regali. Charles, il padrone di casa e ormai a tutti gli effetti un amico nostro, ha preparato una colazione a base di salmone e champagne. “Come si usa a casa mia, in Inghilterra” ha detto. Chris, il suo compagno, non è tipo da feste natalizie, ma fa del suo meglio e si unisce a noi, anche se un po' assonnato. Ha persino comprato un regalo per Charles e l'ha messo sotto l'albero insieme agli altri.
Il programma è semplice e promettente: mangiare. Ieri abbiamo fatto il pieno di carne e pesce per il barbecue. In frigo c'è birra in abbondanza e io sto per infornare un paio di focacce. 

Dylan il cane ha ricevuto da Babbo Natale un collare nuovo ed un coniglio di pezza. Ma ora non ha tempo per giocare. Si aggira per la cucina perché sa benissimo che, per sbaglio o con intenzione, qualche pezzo di grasso finirà sul pavimento. Bob il gatto, invece, ha ricevuto due topolini di peluche, ma pare che preferisca giocare con le stringhe delle scarpe.
Per pranzo Charles decide di iniziare con l'anatra e con le salsicce. A me sembra tutto delizioso, anche se Chris guarda il piatto e dice “Mai fidarsi degli inglesi al barbecue!” (L'altra sua massima è “Mai fidarsi dei cuochi magri. Guarda me!”)
Dopo pranzo il caldo si fa pesante e l'entusiasmo è in calo. Decidiamo di fare un giro sul lago Rotopounamu, a sessanta chilometri da Taupo. Chris non si unisce a noi: preferisce chiudersi nella sua “caverna”, la stanza piena di computer, piatti e bicchieri vuoti in cui passa gran parte del suo tempo libero. In compenso verrà Dylan, che ha già preso posto accanto al finestrino.

Il lago Rotopounamu è piccolo e silenzioso. Si trova in mezzo a una foresta e lo si può raggiungere solo camminando. All'ingresso del sentiero un cartello dice “No dogs.”
“Merda!” dico io.
“Oh no!” dice Laura.
“Non importa.” dice Charles avviandosi, “Io non l'ho visto il cartello. Voi l'avete visto?”
“No.”
“No.”
“Wof!”
Dylan sembra l'unico a non porsi il problema. Tira il guinzaglio con entusiasmo verso il primo albero da marcare.
Lungo il sentiero che percorre il perimetro del lago, la foresta è talmente fitta che lo specchio d'acqua non si vede: lo si può solo intuire nascosto oltre gli alberi. Ci si presenta davanti nella sua  solitaria semplicità quando imbocchiamo un altro sentiero che porta ad una piccola spiaggia. Nessuno ha pensato di venire qui oggi, a parte noi.
Dylan è alle prese con la prima nuotata della sua vita, ma non sembra troppo entusiasta. Laura e Charles si immergono completamente nell'acqua fredda, cercando un po' di sollievo, mentre io preferisco starmene seduto su un tronco d'albero, dove presto anche loro mi raggiungeranno. (Tutti tranne Dylan, che dalla riva guarda insistentemente le oche nuotare al largo. Troppo al largo per lui.)
“Questo è il miglior Natale che abbia vissuto qui in Nuova Zelanda” dice Charles. E ci ringrazia. Vive qui da cinque anni, ma non c'era mai stato un albero a luccicare in salotto prima. Né i regali, né il barbecue. Nessuna gita fuori porta. Anche noi siamo contenti di questo Natale, il secondo lontano da casa. Il secondo senza maglione, senza le lasagne della nonna, senza l'odore del caffè dopo pranzo.

È ora di tornare. Abbiamo una missione da compiere: mangiare. Mangiare l'altra metà del ben di dio messo da parte per oggi. Cosa rimane ancora? Gamberi, braciole, hamburger fatti in casa... E birra.







domenica 23 dicembre 2012

Fuck you, insomnia


Nel buio lo schermo del mio cellulare colora il soffitto di blu: 1:20 a.m. 

Insonnia. Esiste davvero o è solo una suggestione? Se non dovessi alzarmi così presto domani mattina, forse, non sarei qui a pormi il problema. Se non avessi questa sveglia puntata alla tempia probabilmente stapperei un'altra birra, leggerei un altro capitolo. Magari uscirei a fare due passi, mi siederei su una panchina a guardare i tombini. 
Dunque, l'insonnia non esisteva prima che inventassero la sveglia? È figlia degli obblighi tutta quest'ansia? Si tratta solo di una conseguenza di ritmi che non mi appartengono?
Quanto invidio le persone che chiudono gli occhi e subito si addormentano. Ne ho una accanto proprio adesso. Si spengono come gli aspirapolvere: un ultimo sbuffo e poi tutto tace. Ma se io chiudo gli occhi il mio cervello prende lavorare più in fretta, acquista una nuova lucidità, va dritto al punto. E allora è interessante. Ma più spesso si ingarbuglia intorno ad una questione senza cavarne fuori niente. Ossessivo. Altre volte rimugina stronzate, piccolezze quotidiane che probabilmente hanno sollevato questioni più grandi. Ma non dovrebbe essere compito dei sogni, dell'attività onirica, occuparsi di queste cose? Devo per forza essere presente anch'io?

2:45 a.m. Allontano lo schermo del cellulare dagli occhi ma un piccolo rettangolo di luce rimane impresso, rimbalza e si moltiplica sulle palpebre chiuse. Pruriti inspiegabili nelle zone più irraggiungibili della schiena mi costringono a contorcermi. Mi graffio con rabbia: perché non dormi, stronzo!

Fuck you, insomnia. Non mi terrai qui a rigirarmi attorno al cuscino come un pollo allo spiedo.
La luce dei lampioni che filtra dalle tende è sufficiente per trovare i pantaloni e le scarpe. In un minuto sono fuori, furtivo, senza svegliare nessuno. Soprattutto Dylan il cane, perché se si sveglia lui è un pasticcio. 
L'aria è fresca, sento il sudore asciugarmisi addosso. Prendo la bicicletta e inizio a passare in rassegna il reticolato di strade intorno alla casa, lentamente, quasi senza pedalare. Non c'è nessuno in giro, solo qualche taxi a caccia di ubriachi da riaccompagnare. 
Mi guardo intorno. Ogni casa un giardino, ogni giardino un vialetto, ogni vialetto una macchina. È lo standard. Anche in questa zona, dove la gente è più povera. Mi fermo un attimo al numero 35 di Rotokawa Street: una vecchia Toyota Corolla piena di ammaccature se ne sta di sbieco tra le erbacce, accanto ai pali di una vecchia altalena senza più un sedile. La casa avrebbe bisogno di una riverniciata, decadente anche alla luce indulgente dei lampioni. C'è una luce accesa oltre i vetri incrinati di una finestra. Si affaccia un uomo con una tazza in mano, guarda verso di me. Riprendo la strada spingendomi col piede contro il marciapiede.
Mi arrampico lungo Taupo View Rd. fino a raggiungere la cima della collina. Nel girare l'angolo per Rifle Range Rd. quasi mi scontro con una ragazza forse quindicenne, vestita in canottiera e pantaloni di jeans cortissimi. Cammina veloce, mi scarta e passa oltre. Sta piangendo.

Io sono un tipo “prima il dovere e poi il piacere”. Preferisco lavare i piatti subito e poi sdraiarmi sul divano e non pensarci più. Ma se vedo un lago in fondo a una discesa non resisto. Non importa se al ritorno mi tocca la salita. Così prendo un bel respiro, lascio andare il manubrio e mi godo qualcosa di facile. Senza pensare al “poi”, una volta tanto. 
Il lago è più bello di giorno, quando è azzurro e quando si vede il vulcano Ruapehu coperto di neve sullo sfondo. Le case quaggiù sono lucenti, tengono nascoste le Mercedes oltre le saracinesche automatiche dei garage. Gli impianti di irrigazione – esseri insonni anche loro – sollevano un profumo che sembra di pioggia. Ogni casa ha uno stile diverso: dallo chalet svizzero al cottage americano. Ma tutti gli architetti hanno avuto un pensiero comune: la terrazza con vista lago.
Già che sono venuto fin qui qui, vado a vedere che aria tira in centro. Passo davanti al Taste Café, a quest'ora buio e silenzioso. Tra poche ore sarò in quella cucina ad affettare carote. Nel parcheggio lungo la riva c'è una lunga schiera di macchine e camper, dove anche io e Laura ci siamo fermati a dormire durante le nostre prime notti a Taupo. Poco oltre, gli unici locali aperti la notte: qui sono concentrati tutti gli esseri umani ancora svegli di questa città. Musica, risate, birra. Forzo un poco l'andatura: non sia mai che c'è in giro qualcuno che conosco e mi tocca fare conversazione. Non ho neanche un dollaro in tasca, fra l'altro, anche se mi volessi fare una bevuta.

La salita non è poi così faticosa senza il sole del pomeriggio e senza i pantaloni da lavoro che indosso di solito quando la percorro.
Mi rinfilo nel letto. Tra non molto suonerà la sveglia e io mi alzerò comunque, come sempre. Come tutti gli insonni del mondo. Siamo, a nostro modo, degli eroi resistenti.

sabato 15 dicembre 2012

Mao Tse-tung


“Take it easy man, take a break!”
E' il motto di Leo, il cuoco cinese. 
Il ritmo delle ordinazioni cala quasi fino a cessare e in cucina si può finalmente tirare un sospiro di sollievo, dopo un incalcolabile tempo passato in apnea, concentrati e veloci nei movimenti, comunicando a monosillabi. Ma intanto, mentre ero impegnato a fare panini, insalate e tortillas, dalle parti del lavandino è cresciuto un edificio abusivo di piatti, tazze, posate e padelle incrostate di grasso. E mi toccherà lavare tutto.
“Fuck-off!” ho imparato a dire con soddisfacente disinvoltura.
Ma Leo è un tipo che infonde calma. “Prenditi una pausa, man” mi ripete.

Oggi è contento e nervoso allo stesso tempo: i suoi genitori sono in arrivo dalla Cina e sono cinque anni che non li vede. Da quando è arrivato in Nuova Zelanda all'età di ventiquattro anni, infatti, non è mai tornato a casa. Per lui oggi è un giorno speciale, e non ha troppo voglia di rispondere alle provocazioni di Ryan, il nostro collega gallese con cui non sembra andare troppo d'accordo.

“Il tuo Presidente va in galera.” mi dice Ryan, attraversando la cucina con una teglia fumante in mano. Io ho appena finito di lavare i piatti e sto disossando un pollo. Ci metto un po' a capire e a puntualizzare: “Ex Presidente!”
A quanto pare ha letto sul giornale che Berlusconi è stato condannato a quattro anni, non sa dirmi per quale motivo, e mi chiede se sono contento. Io il giornale non l'ho letto e non so di cosa stia parlando, ma gli do per certo che in galera non ci andrà nemmeno per un giorno. E che a me basterebbe non ritrovarmelo di nuovo Presidente quando torno a casa.
Ed è così, parlando di politica “da cucina” che salta fuori il nome di Mao Tse-tung.
“E cosa dire di Mao?” dice Ryan, voltandosi verso Leo.
“Oh, Mao!” risponde Leo “Era il nostro presidente negli anni cinquanta.”
“E cosa ne pensi tu di Mao?” incalza Ryan.
“Per noi è un eroe, ha fatto molto per la Cina.”
“Cosa?!” dice Ryan fintamente inorridito. “Era un assassino!”
“No, questo è ciò che dicono ma...”
“Ha ucciso milioni di persone!” lo interrompe Ryan.
“Mao è un eroe per il popolo cinese.” ripete Leo.
“E secondo te era un presidente pacifico?” chiede Ryan provocatorio.
“Sì” risponde Leo, già stufo di una situazione che forse ha già vissuto altre volte.
“Mah!” conclude Ryan, con un sorriso incredulo sulle labbra.
“Vedi Ryan,” riprende Leo, mentre apre la cella frigorifera e inizia a cercare qualcosa tra gli scaffali, “il problema è nei mezzi d'informazione. Quello che dicono qua è diverso da quello che dicono in Cina.”
Forse Leo non si rende conto che questa spiegazione non giova alla sua tesi, ma Ryan decide di non infierire. Si limita a chiedere a me:
“Tu che dici, Mao era un eroe o un assassino?”
Resta lì a guardarmi. Anche Leo è spuntato fuori dalla cella frigorifera e mi guarda, in attesa di una risposta.
“Forse tutte e due le cose.” dico io vigliaccamente. 
Mi guardano ancora per qualche secondo, cercando di capire se quello che dico ha un senso o se è solo la prima cosa che mi è venuta in mente per togliermi dagli impicci di un discorso che non ho ben afferrato. Poi distolgono lo sguardo senza aggiungere altro. Io torno al mio pollo, ma mi sembra di poter leggere nelle loro teste lo stesso pensiero: “Ancora una volta non ha capito un cazzo questo fucking italian.”

martedì 11 dicembre 2012

Nuova Zelanda, le foto

Ecco che mi sono portato quasi in pari con le foto. Ho anche aggiunto qualche didascalia questa volta. Spero apprezzerete.








sabato 1 dicembre 2012

A proposito di biciclette e della normalità

Tornando a casa dal lavoro, un giovedì alle cinque
Qualche giorno fa scambiavo delle mail con un amico a proposito della normalità. “Scappare,” scriveva lui, “via dall'aridità di una vita programmata dalla culla alla tomba. Casa, ufficio, supermercato...” “Ok,” pensavo io “hai ragione tu. Ma...”
Ma prima o poi con la normalità ci devi fare i conti. Non importa dove ti sei andato a cacciare: un bel momento lei ti arriva alle spalle e ti spara uno dei suoi odiosissimi coppini. E allora tanto vale essere normale fin da subito. Tanto vale sorridere alla gente, uscire tutte le mattine alla stessa ora, rifare ogni giorno la stessa strada. E possibilmente non ruttare a tavola, a seconda della compagnia. 
No, io non credo di voler scappare da nessuna parte. Non per forza, non per finire un una prigione dai colori cangianti, non per avere in cambio un paraocchi con un guardrail e qualche cielo troppo azzurro disegnato sopra. “Meglio fare il ribelle in incognito.” ho risposto al mio amico. Meglio covare nascostamente le proprie sovversioni, portarsele dietro nella propria quotidianità. E non dimenticare di farsi spesso certe scomode domande, rinnovare di giorno in giorno le proprie scelte. Per fare questo non è obbligatorio andare da nessuna parte. Voglio dire, non fisicamente. Ognuno sceglie il proprio prossimo viaggio: chi va in India a cercare se stesso, chi apre un sexy shop, chi ricomincia a credere in Dio, chi si allena per la Maratona di New York, chi compra una casa, chi fa un figlio... Tutto va bene, se sei veramente tu a scegliere.

Da circa due mesi Laura e io conduciamo una vita normale. Abbiamo una stanza, una macchina, un supermercato fisso in cui fare la spesa. Ogni mattina vado al lavoro e torno a casa sette ore più tardi, col mal di schiena. Dopo cena leggo, finché la vista non si appanna e gli occhi non si chiudono. Anche l'insonnia, di cui mi ero quasi dimenticato di soffrire, è tornata ad essere parte della mia quotidianità. 
Ma ci sono piccole cose che sono frutto di un disegno, e quel disegno l'abbiamo fatto noi. Abbiamo eletto questo Paese, questa città tra tante altre possibili. Al lavoro ci vado in bicicletta e quando giro l'angolo e vedo il lago in fondo alla discesa tiro un bel sospiro e, almeno per un attimo, mi sento bene. Sono piccole cose, ma fanno la differenza: i grandi spazi a disposizione, la quasi totale assenza del colore grigio, il fiume Waikato che ci scorre accanto, le cascate Huka coi loro 220 mila litri d'acqua al secondo, le pozze d'acqua termale dietro casa...
È, questa, normalità? Forse. Ma ci scorre dentro un sangue irrequieto, ci galoppa sopra un cavallo testardo che tira dalla sua parte e logora le briglie. È vero che rischiamo di accorgerci un giorno che tutto era deciso dalla culla alla tomba, caro amico. Ma non è necessario immolarsi, ritrovarsi a non poter brindare con nessuno il nostro “Vaffanculo al mondo”.

Se c'è una cosa che ho imparato in questi ultimi mesi è questa: “Si può fare.” C'erano cose che mi sembravano irrealizzabili, ostacoli che apparentemente rendevano insormontabile il raggiungimento di obiettivi e desideri. Ma tutte le avventure, i guai, le fatiche, le persone incontrate in questo viaggio mi hanno fatto capire che, se vuoi una cosa, ti metti lì e la ottieni. Ci riesci. E a maggior ragione a casa tua, tra la tua gente, accanto alla tua famiglia. Dove si parla la tua lingua e dove non servono documenti strani per esistere legalmente. Se lo vuoi, ce l'hai. L'unica vera nemica è quella voce che ti dice “Rinuncia! Ma non lo vedi che sei solo un povero pirla?” Ma è il caso di darle la stessa risposta che le darebbe un saggio. Potremmo chiamare in causa Immanuel Kant, ma forse è sufficiente Bart Simpson.