giovedì 27 settembre 2012

Lucia


Lasciata Palm Beach a bordo di Kiwi, la nostra macchina nuova, riceviamo via SMS un invito per un caffè da parte di Lucia, una ragazza spagnola incontrata per caso una settimana prima, quando noi eravamo appena arrivati e lei stava visionando una stanza da prendere in affitto nella proprietà di Michelle.
Sediamo tutti e tre al tavolino di un bar, nella piccola e allo stesso tempo grande città di Oneroa (due bar, due ristoranti, qualche casa e un ufficio postale). Parliamo in spagnolo e per noi è una boccata d'aria fresca riuscire ad esprimerci senza incespicare, bloccarci, rinunciare. Ed è così, chiacchierando del più e del meno, che Lucia ci invita a mangiare a casa sua. E poi, già che siamo lì, ci offre un posto per dormire, visto che la nostra macchina non è ancora dotata di materasso. Rimaniamo stupiti di tanta generosità, ma soprattutto della spontaneità e naturalezza con cui veniamo invitati. Poche cerimonie. Ti invito perché mi va di averti attorno: se vuoi fermati, se no vai. 
Casa sua non è proprio sua, ma di una signora sessantenne che passa l'estate neozelandese sull'isola di Waiheke e d'inverno se ne va in California, in cerca di un'altra estate. Lucia è la sua house-sitter, ossia colei che tiene tutto in ordine e sotto controllo, che le inoltra la posta e le sistema il giardino. Il tutto in cambio di vitto e alloggio. Stiamo parlando di una casa bellissima, affacciata sul mare e costruita in legno. La struttura assomiglia a quella di una chiesa gotica, con tanto di tetto spiovente, rosone e guglie. All'interno tutto è curato nei particolari: dal mosaico di pietre e conchiglie che percorre i muri e il pavimento del bagno, alle molte opere d'arte contemporanea sparse per i vari ambienti. Noi dormiamo al secondo piano, in una torretta tutta vetri e con vista sul mare. Nella stanza c'è solo una vecchia pianola sul suo cavalletto e un cannocchiale puntato verso l'orizzonte.
La mattina seguente conosciamo Martin, un tedesco di circa quarant'anni che parla perfettamente un'infinità di lingue. Tranne l'italiano: quello lo sa “piccolo piccolo”. Ha un'aria stanca e un'espressione impenetrabile, quasi assente. Ammette in effetti di sentirsi svuotato di energie, dato che ha appena finito di tenere un corso di yoga durato due settimane. Anche lui come Lucia vive sull'isola, dove sta cercando di ingranare come taxista, ed è deciso a fermarsi in Nuova Zelanda a tempo indeterminato. Entrambi, quando raccontiamo che abbiamo intenzione di trovarci un lavoro da qualche parte, ci danno consigli su come fare e a chi rivolgerci, ma noi abbiamo voglia di andare un po' a spasso per il Paese, ora che abbiamo la macchina. Non ci accontentiamo dell'isola.
Il cellulare di Martin suona: è la chiamata di un cliente. Nell'andarsene si ferma un attimo e dice: “Se decidete di fermarvi qui, io ho un divano libero.” Ci lascia il biglietto da visita ed esce. Ma noi abbiamo deciso: partiremo domani stesso. Andremo all'estremo nord della Nuova Zelanda e, lentamente, scenderemo alla ricerca di un posto che ci piaccia molto, un luogo in cui fermarci per un po' a lavorare. “Cercare prima il posto, poi il lavoro.” È la lezione che abbiamo imparato in Perù, dove siamo rimasti bloccati a Talara per un periodo che ci è parso infinito, in un luogo orribile e sterile. Ma vedremo, questa volta, quali eventi riusciranno a rovesciare i nostri piani. 
Per il momento, appena messe giù le ruote dal traghetto, la meta è Cape Reinga, la punta a nord. È prevista qualche sosta per equipaggiare Kiwi con un letto, una cucina e delle gomme nuove.

giovedì 20 settembre 2012

Toyota Corona


Vi presento “Kiwi”, il nostro mezzo nuovo mezzo di trasporto, che ci scarrozzerà (speriamo) finché saremo in Nuova Zelanda. Ecco una piccola scheda tecnica.

Toyota Corona SW, 2000cc, benzina.
Immatricolata nell'anno 1991.
Km percorsi: 367.815 Km.
Pagata: 475 NZ$ (303€)
N. ruote: 4 (di cui 1 o 2 vagamente motrici)
Freni: frenare frena.

Non avremmo mai pensato di trovarla proprio qui, sull'isola di Waiheke. Né tanto meno per quel prezzo. Ma è stata una catena di piacevoli eventi, tra cui l'aver incontrato e stretto amicizia con Kevin, un sudafricano naturalizzato neozelandese, musicista jazz e programmatore. Lui ci ha dato una mano, ha telefonato per noi, ha contrattato, ci ha accompagnati... Fantastico.
Un'altra cosa interessante, sconosciuta a noi italiani, è la facilità con cui funzionano queste cose. Vedi una macchina in vendita che ti piace, ti metti d'accordo sul prezzo, compili un modulo lì nel parcheggio insieme al vecchio proprietario e gli dai i soldi. Poi vai in posta col modulo, paghi 9 dollari (meno di 6€) e la macchina è tua. Fine. Accendi il motore e te ne vai.

martedì 18 settembre 2012

Waiheke Island e le piante buone


Si scende attraverso il bosco per un sentiero fatto di gradini irregolari, ricoperto di frammenti di conchiglie bianche. Erbacce, rami e rampicanti hanno quasi del tutto inghiottito il passaggio e i piccoli orti, rubati alla pendenza con terrazze fatte di vecchi pneumatici, sembrano aver visto tempi migliori. Cinquanta metri più sotto, la legnaia è vuota. Nella rimessa, tra la polvere e le ragnatele, gli attrezzi sono arrugginiti sul banco da lavoro, accanto a telai di vecchie finestre e a qualche rozza scultura lasciata incompiuta. E c'è un pennello, immerso in un barattolo di vernice verde ormai indurita. Tutto riconduce a qualcuno: qualcuno che tagliava tronchi sul ceppo. Qualcuno che rinnovava vecchie finestre e le tingeva di verde. Qualcuno che scolpiva tronchi di legno rossiccio, abbozzando forme femminili. Qualcuno che non c'è più.

Da cinque giorni viviamo sull'isola di Waiheke, a quaranta minuti di traghetto da Auckland. Michelle, la padrona di casa, ha un'aria infelice e stanca. Non porta molta pazienza con noi che non capiamo le cose al primo colpo, e se diciamo “Sorry?” lei sospira, fa un cenno con la mano come per allontanare una cosa sgradita e dice “Nevermind, forget it.” Questo ci fa sentire stupidi, e il nostro balbettare peggiora ad ogni conversazione abortita. 
Il nostro compito qui è ripulire il sentiero dalle erbacce, liberare le piante “buone” dai rampicanti, preparare i piccoli orti per la semina. Più una serie di altri compiti, vari ed eventuali. Come ad esempio sgomberare la stanza di Michelle, che si prepara a lasciare tutto questo per raggiungere sua figlia diciannovenne, partita un giorno per la Thailandia e decisa a non tornare indietro. La sua stanza la affitterà a Kevin per qualche mese, per tirare su qualche soldo, mentre lei si trasferirà nel suo “studio”, qualche gradino più su lungo il bosco.
C'è anche un altro inquilino in casa. Si chiama Steve e vive in una stanza sempre chiusa, con le finestre occluse da teli scuri. Lo si incontra di rado, seduto sui gradini con una sigaretta ultra-light tra le labbra, bianco in volto e con gli occhi spenti. Vorrei chiedergli chi è, a cosa si dedica, ma la sua parlata concitata, che tanto stride col suo aspetto, mi è difficile da capire.
Laura e io alloggiamo in una piccola casa di legno, più in basso lungo il sentiero. Diciamo che c'è qualche spiffero, qualche vetro incrinato. Diciamo che c'è qualche infiltrazione, qualche macchia di umido. Diciamolo pure: cade a pezzi. Eppure ci piace. Non c'è bagno né acqua corrente, solo una cisterna d'acqua piovana proprio fuori dalla porta, ma vista la stagione non c'è pericolo che si svuoti. Quando cala il sole fa un freddo da far tremare ma, per fortuna, tra i pochi comfort c'è una vecchia stufa. Durante il giorno raccogliamo la legna nel bosco e di sera stiamo a guardarla bruciare, con le orecchie divise tra il crepitio del fuoco e l'infrangersi delle onde del mare, pochi metri più giù.

Quando ce ne andremo da qui il sentiero sarà di nuovo bianco e sgombro. Il bosco sarà ripulito da tutte le immondizie rotolate giù dal bordo della strada e qualche raggio di sole raggiungerà gli orti, non più smorzato dai troppi rami secchi. Le piante “buone” torneranno a respirare, liberate dal reticolo opprimente di rampicanti. La legnaia sarà di nuovo riempita e la stufa di Michelle ricomincerà scoppiettare nelle ore più fredde.
Siamo capitati qui, per un caso difficilmente prevedibile. Qui con questa donna sola e oppressa da angosce che non sappiamo, mascherate dietro sorrisi poco convincenti. Ce ne potremmo andare, ma qualcosa ci trattiene: qualcosa ci dice che questa fatica comunicativa porterà da qualche parte. O almeno, porterà qualche raggio di sole alle piante “buone”.

Waiheke Island

lunedì 10 settembre 2012

Hot Springs, l'inizio di una nuova storia

Foto di Laura Pelliciari
La pioggia, obliqua e decisa, colpisce la superficie dell'acqua, amplificando il tremore delle luci elettriche riflesse. Mi immergo fino agli occhi per non sentire freddo, rilasso i muscoli delle gambe e delle braccia, mi affido alla spinta dal basso verso l'alto pari al peso del liquido spostato. Folate di vapore si muovono impazzite sul filo dell'acqua sferzato dal vento, ora nascondendo ora svelando i volti delle persone, mentre in lontananza un lampo illumina un pezzo di notte senza luna.

Annie e Sean sono due tipi riservati. Ogni sera ceniamo insieme nella loro casa dai muri di paglia e fango, piena di quadri d'arte contemporanea, di libri e di CD. Finita la cena, preso il tè, si congedano gentilmente e se ne vanno a guardare il loro programma preferito in televisione, lasciandoci soli. Danno confidenza un poco alla volta, non elargiscono troppi sorrisi gratuiti e non fanno troppe cerimonie. Se da una parte questo mi piace, dall’altra, dopo otto mesi passati in America Latina a volte è difficile adattarsi, e mi vien da pensare: “Senti, se ti sto sul cazzo dillo.” Ma non gli sto antipatico, loro sono fatti così e, nel bene e nel male, qui non siamo in America Latina. E poi oggi, oggi che è il nostro ultimo giorno di lavoro nella loro fattoria, hanno deciso di fare un'eccezione. Ci hanno voluti premiare per il nostro impegno e ci hanno portati alle Hot Springs, le piscine d'acqua termale che rendono famosa questa località sperduta. E mentre me ne sto qui, immerso in acqua fino agli occhi, ripenso ai diciotto giorni appena trascorsi. Trascorsi a raccogliere e pulire frutti, a strappare pannelli di cartongesso da una vecchia casa, a rivoltare zolle di terra. E poi a scavare buchi, riempire sacchi, svuotare secchi, trasportare rami, strappare erbacce, lavare vasetti, preparare compost, passeggiare cani...
Sono volati questi giorni, quasi tutti coi piedi nel fango: non ci sembra vero, ma tra poco è un mese che siamo qui in Nuova Zelanda. E se da una parte è tutto nuovo, tutto all'inizio di un capitolo che speriamo sarà memorabile, dall'altra è quasi un anno che manchiamo dall'Italia e ogni tanto bussa alla porta la voglia di tornare a casa. Ma non lo faremo, almeno per ora. Domani partiamo per Auckland, dove ci fermeremo due giorni a fare shopping, immersi in una città immensa dopo tre settimane di bucolico isolamento. Cose da mettere nel carrello: una mappa dettagliata del paese, due paia di guanti da lavoro, un'automobile. Fatto questo, partiremo per Waiheke, un'isola che promette di essere meravigliosa. Lì ci aspetta Michelle, e con lei altre due settimane di lavoro in fattoria.