venerdì 27 luglio 2012

Working Holiday Visa


E così ci abbiamo provato a ritagliarci un'oasi di pace, lassù sulle Ande. Avevamo trovato una stanza con finestra panoramica e persino due, dico due, sedie. Laura aveva iniziato come cameriera in un posto decente: niente minigonna d'ordinanza né l'obbligo di stare in piedi in silenzio ad attendere i clienti, come all'Uruguayo di Talara. Intorno a noi solo rovine incaiche, montagne immense da mozzare il fiato e un sacco di turisti che ogni giorno passano da Ollantaytambo – così si chiama il paesino in questione – per prendere il treno diretto a Machu Picchu. Io mi apprestavo a passare un buon periodo da uomo solitario e meditabondo, dedito alla scrittura e alle passeggiate. Un mantenuto, insomma.
È pur vero che la gente del luogo era particolarmente ostile con noi, almeno ogni volta che mettevamo il naso al di fuori del circuito turistico. Non vivevamo in un ostello da 50 soles a notte, ma in una stanza da 200 al mese. Non frequentavamo gli Internet caffè o i ristoranti “tipici” della piazza centrale da 5 soles per una tazza di tè, ma le pollerie da 6 soles per un pasto completo e il mercato comunale. Sì, ci arrabbiavamo più del dovuto nello scoprire, ancora una volta, che poco importa se sai benissimo il prezzo medio delle cipolle e dei pomodori: se hai la faccia da gringo e la felpa Adidas devi pagare il doppio, e se fai storie ti trattano male, qui più che altrove. Ma noi eravamo disposti a sopportare, il luogo in cui stavamo valeva la pena ed era il migliore per aspettare l'ormai agognato volo per la Nuova Zelanda.

“Leggi sempre bene e fino in fondo prima di firmare”: questo ti insegnano i genitori quando compi diciott'anni. Ma andiamo con ordine: esiste, per chi va in Nuova Zelanda dall'Italia ed ha meno di 31 anni, la possibilità di richiedere una Working Holiday Visa, un visto che ti permette di stare un anno ed anche di lavorare. E noi lo vorremmo tanto ottenere, questo visto. È facile: se sei italiano, o di qualsiasi altro paese occidentale, non devi che fare una richiesta online e pagare un centinaio d'euro. Ma se leggi bene e fino in fondo le molte regole e postille, scopri che se hai sfiorato anche solo col pensiero uno dei paesi non compresi nella lista di quelli da loro considerati “sicuri”, verrai considerato poco meno che un appestato. Figuriamoci se hai vissuto otto mesi in America Latina! Il motivo ti tanta apprensione sembra essere la tubercolosi. Quindi, se vuoi ottenere il visto, devi andare a tue spese da uno dei medici che è nella loro lista, farti fare una radiografia al torace e un certificato in inglese, compilare e far compilare al medico una serie di scartoffie e far pervenire il tutto ai all'Immigrazione neozelandese entro quindici giorni.

Come posso spiegare? Come posso farvi capire? Mi limiterò ai fatti.
Gli unici medici peruviani che compaiono nella lista si trovano a Lima, a ventiquattro ore di autobus da Ollantaytambo. Telefoniamo a tutti prima di muoverci e solo due dimostrano di sapere di cosa stiamo parlando. Di questi due solo uno vuole tanti soldi, l'altro invece ne vuole davvero troppi. Così facciamo i bagagli e affrontiamo all'inverso lo stesso viaggio di pochi giorni prima. Non abbiamo scelta: o così, o salta tutto il nostro programma per il prossimo futuro. A Lima, in effetti, sbrighiamo tutto in pochi giorni. Il dottore è di una cordialità irritante e ha un sorriso spento stampato in faccia che sembra dire: “Io faccio la mia particina, poi il resto son proprio cazzi vostri”. Gli piace farsi aspettare: io e Laura passiamo lunghe mezzore seduti nel corridoio bianchissimo di una clinica per ricchi, illuminati da grossi lucernari che sembrano veri. Alla fine il dottore esce dalla sua porticina, bianca come il tagliere nuovo di un macellaio, e ci consegna due buste sigillate. In un momento solo capiamo due cose: primo, non vedremo mai cosa c'è nelle buste, se siamo o meno tubercolotici e se il dottore abbia o meno fatto correttamente il suo lavoro; secondo: lui non trasmetterà un bel niente per via telematica all'Immigrazione neozelandese, come dovrebbe fare. Ci dobbiamo arrangiare noi a consegnarla in all'ufficio più vicino.
Quando torno a rileggere bene e fino in fondo il sito dell'Immigrazione neozelandese scopro che, secondo la lista, l'ufficio a noi più vicino è a Santiago del Cile, e questo sarebbe abbastanza per mettersi a urlare per la disperazione. Telefono all'Help Center in Nuova Zelanda e parlo con Charlie, in un inglese da ripetente di prima liceo. Gli spiego la situazione e lui mi dice di inviare il tutto quanto prima, ma a Londra. Riguardo al fatto che le buste siano sigillate Charlie ci può fare poco, dice che a volte succede. In altre parole, “son proprio cazzi vostri”.
E così eccoci qui, in un ufficio DHL di Lima, per una spedizione che ci costa quanto un mese di vitto e alloggio. Ci guardiamo in faccia Laura e io mentre consegnamo, non proprio fiduciosi, le due buste dal contenuto ignoto. Il tale dell'ufficio è sbrigativo, butta i nostri risparmi sudati a forza di tavolate chiassose e pizze orrende in un cassetto e dice: “Il prossimo!” Il vecchio dietro di me cerca di farsi spazio ma io non riesco a separarmi dalle uniche due copie di qualcosa che non so e da cui dipende il futuro di questo viaggio. In preda all'ansia mi azzardo a chiedere: “Ma... se si perde?” “Difficile” risponde l'impiegato. “Lo so,” insisto “ma se succede?” “Vai sul sito, con questo codice puoi controllare dov'è il tuo pacco. Il prossimo!”
                                                                                                                                                
Tutto questo per noi è poco meno che un gioco. Se qualcosa va storto, in qualsiasi momento, possiamo sempre strisciare la Visa e tornare a casa. Tristi e senza un soldo, sì, ma ad aspettarci troveremmo una casa ed una famiglia pronta ad accoglierci e ad ascoltare i racconti delle nostre scorribande. Ma che dire di tutta quella gente, i migranti per davvero, che ogni giorno partono da posti come questo con la pretesa di passare dalla “parte giusta” del mondo? Non riesco a fare a meno di pensare a come dev'essere giocarsi davvero tutto, farsi i conti in tasca e dire: “Forse ce la faccio, ma di poco” e poi trovarsi un muro davanti. Ma non un muro di mattoni, col quale ci si aspettava anche di avere a che fare in qualche cantiere di periferia. Un muro di eventi incontrollabili, regole incomprensibili, requisiti insoddisfabili, scrivanie che non parlano la tua lingua, moduli telematici che ti rimandano sempre lo stesso messaggio d'errore. Un muro che ti chiede tantissimi soldi, soprattutto. E tu non puoi scegliere, perché di soldi ne hai già spesi troppi per arrivare fin lì e non te la senti di rinunciare e tornare indietro. E allora ne spendi altri, li spendi tutti. Ma con quei soldi non hai comprato proprio niente: solo la promessa che, tra un po', qualcuno ti manderà via e-mail una risposta su quello che sarà il tuo destino. E non è detto che ti piacerà.

domenica 15 luglio 2012

Cusco, di nuovo ai fornelli

Che meraviglia Cusco! Avevo perso le speranze.
L'ultimo tratto della strada che da Lima ci ha portati fin qui serpeggia tra i campi immensi, le bestie al pascolo, i piccoli paesi abitati da contadini ingobbiti e donne dagli abiti coloratissimi, dagli alti cappelli cilindrici che qui sono portati per abitudine, non per compiacere la fame d'esotico di noi turisti. Col naso incollato al finestrino capisco di trovarmi in uno di quei luoghi in cui resta lampante la bellezza di questo nostro pianeta. E sì, lo posso dire: ne è valsa la pena arrivare fin qui.
Nella testa ho ancora le sbarre graffiate e i fili spinati di Città del Guatemala, nelle narici il puzzo del quartiere cinese a Panama, negli occhi gli imprecisi parallelepipedi di cemento di Talara, appoggiati abusivamente l'uno sull'altro; nelle orecchie ho il rumore costante e onnipresente di clacson e reggaeton. Iniziavo ad accusare il colpo, i miei sensi maltrattati mandavano continui impulsi al cervello, tutti dicevano: basta, via di qua!
Ma entrare nella Plaza de Armas di Cusco ti ripaga di tutto, ti lascia col fiato sospeso. Soprattutto se vieni da Talara. A quel punto ti ricordi che anche questo paese ha una storia le cui radici vanno oltre le fragili intenzioni di ieri, le piccole truffe quotidiane e il foglio bianco e già sgualcito che è domani. Laura e io passeggiamo tra le case di pietra, i muri incaici precisissimi ed imponenti, i balconi “coloniali” e le chiese spagnole tutt'altro che decadenti. All'ombra della statua dorata dell'inca Pachacútec, nel centro della piazza, ci rendiamo conto anche di un'altra cosa: le tegole! I tetti sono fatti di tegole! Niente Eternit, niente lamiere. Niente steli di ferro arrugginito a spuntare dalle colonne portanti, come brutti fiori appassiti, pronte per la costruzione del prossimo piano abusivo.

Cerchiamo un alloggio, troviamo un lavoro. Questa volta supero me stesso nell'arte del bluff e mi chiedono di tenere un corso di quattro giorni sulla cucina italiana nel prestigioso ristorante “La Divina Commedia”, gestito da un francese che, detto tra noi, è un gran figlio di puttana. Ma mi paga bene e io, più o meno, riesco a reggermi il gioco da solo e a sembrare vagamente competente. Vagamente è proprio la parola adatta, ché quelli lì vogliono sapere quanti grammi, quante uova, quanti millilitri... e io: “Mah, un po' di più, finché la pasta non diventa elastica...” Poi mi viene in mente di usare a mio vantaggio la mia triste incompetenza e impartisco la più preziosa delle lezioni: “Per cucinare bene bisogna rompere gli schemi, usare la fantasia. È dagli errori, dalle approssimazioni, dai tentativi più audaci che nascono le migliori ricette. I migliori cucinano AD OCCHIO!” Lo chef Aurelio, con ragione, mi guarda perplesso coi suoi occhi scuri e abbandona il quaderno a righe sul quale ha provato ad annotare dosi e procedimenti. Anche oggi è andata, comunque. Domani l'ultima lezione e poi via, verso Machu Picchu, coi soldi in tasca.

venerdì 13 luglio 2012

Lima: il piacere di passare inosservati

Lima
Lima è una città moderna, occidentale. O almeno è così che si presenta approdando nel quartiere Miraflores, dove vive Daniela. Per un paio di notti saremo ospiti suoi e di suo marito Pierre. Loro sono una famiglia multiculturale, per così dire: lei italiana, lui peruviano. Per casa girano due bambini biondi e quasi bilingue che forse ancora non si rendono conto della ricchezza culturale che si portano appresso.
Laura mi guida per le strade, sulle combi affollate di gente che va e viene dal lavoro. Vuole farmi vedere la città che già conosce, in cui ha già vissuto per quattro mesi due anni fa, durante il suo tirocinio universitario. Ma il motore della nostalgia è sempre stato un traditore: sul più bello perde i colpi e tu ti ritrovi cambiati i colori dei muri, le empanadas non hanno più il sapore di una volta, il libraio all'angolo ha chiuso per sempre la saracinesca. Ma io mi sento bene, anche se le città grandi proprio non le sopporto. E credo di sapere il perché di tale benessere: sui marciapiedi, tra i rumori del traffico che non è peggio di quello della circonvallazione milanese, mi mischio a una moltitudine di gente di tutti i colori e nessuno si cura di me. Questo, dopo molti mesi di esposizione agli sguardi di gente poco abituata allo straniero, per me significa potermi rilassare un poco, potermi guardare intorno e osservare indisturbato un mondo che si fa i fatti suoi: non un mondo che guarda me.

Siamo qui di passaggio, come dicevo. Questo è il punto, in poche parole: abbiamo sì deciso di andare in Nuova Zelanda, ma tra il dire e il fare... Tra l'America e l'Oceania, forse lo sapete già, c'è di mezzo il mare. E noi lo volevamo attraversare in barca a vela. Avevamo preso accordi con un certo Kris, belga, che in cambio di pochi soldi al giorno e del nostro lavoro ci avrebbe accolti a bordo del suo veliero. Tutto questo accadeva quando ci trovavamo a Machala, in Ecuador, e tutto ciò che dovevamo fare era raggiungere Kris alle Galapagos. Ma poi abbiamo scoperto che se vuoi andare in aereo alle Galapagos, fosse anche dal vicino Ecuador, devi comprare anche il biglietto di ritorno. Insomma, per farla breve, non ce lo potevamo permettere: con gli stessi soldi (quasi) un altro aereo ci avrebbe portati direttamente in Nuova Zelanda. Così è che con profonda delusione ci è toccato rinunciare all'impresa e comprare i biglietti per Aukland. Ma l'aereo, se costa così poco, è perché partirà alla fine di agosto, da Los Angeles. Quindi, già che c'è da aspettare, abbiamo pensato di andarcene da Talara e cercare un posto migliore: le Ande. Per questo siamo a Lima. Tra due giorni prenderemo un bus per Cusco. Poi si vedrà.

lunedì 9 luglio 2012

La despedida: ultima notte a Talara


L'ultimo giorno di lavoro è anche meglio del primo giorno di vacanza. Non me ne frega niente di niente, tutto è leggero e sopportabile. 

Marcos, il proprietario della pizzeria Don Maximo, alla fine è una brava persona. Ha una marcia in più rispetto ai suoi concittadini, secondo me per il fatto di essere uno dei pochi privilegiati ad aver messo il naso fuori dal Perù. È di famiglia benestante e, non senza sudori burocratici, è riuscito a passare sei mesi a Manchester, col pretesto di studiare l'inglese. L'inglese l'ha imparato so and so, come dice lui, ma di sicuro ha avuto modo di respirare un'aria diversa e di rendersi conto che esistono ben altri orizzonti, altri modi di vivere e lavorare. Alla veneranda età di ventisette anni, tanto per cominciare, non è sposato e non ha figli e questo è abbastanza per dare scandalo in Perù, in una città piccola come questa. Durante il mese in cui ho lavorato per lui ho avuto occasione di dirgli che la sua pizza è orribile, che la sua cucina è un disastro. Me l'ha chiesto lui, che sia chiaro, e la cosa interessante è che mi ha sempre risposto con una risata sincera e consapevole, compiaciuto di tanta schiettezza: chiunque altro tra i presenti si sarebbe offeso a morte. E non solo: mi chiedeva consigli e li metteva in pratica, arrivando quasi a rivoluzionare l'organizzazione del personale. Non ha stima dei suoi connazionali e non perde occasione per ripeterlo: sono pigri, irresponsabili e ritardatari, dice. Mi sembra importante specificare che nonostante le mie osservazioni negative gli affari gli vanno bene: la sua pizza piace alla gente, anche se costa tanto. E poi lui, che non sa tagliare una cipolla, ci sa fare con la comunicazione: ogni giorno se ne esce con un volantino nuovo o una promozione; e la gente accorre. Per questo mi sono detto spesso: “Ma perché non mi sto zitto?” Insomma, mi sembrava che i talaresi meritassero la pizza di Don Maximo, un po' come gli italiani si sono meritati Berlusconi per tutti quegli anni. Un giorno risveglieranno. Ma mi sono detto altrettanto spesso: “Perché non lavorare per il cambiamento, per una pizza migliore?”

Serviti gli ultimi clienti verso la mezzanotte, Marcos mi dice che lui e tutto il resto del personale hanno organizzato per me una “despedida”, una piccola festa d'addio. “Ma devo andare a prendere Laura” gli dico. “Ti aspettiamo, vedi di tornare che siamo tutti qui per te.” Premesso che io odio le feste, tanto più se mi tocca stare al centro dell'attenzione, la loro mi sembra un'idea davvero carina. E d'altra parte, anche volendo, non mi posso sottrarre. 
Così mi avvio a prendere Laura al ristorante El Uruguayo, a piedi, ché la bicicletta l'ho appena regalata a Danyr, il ragazzo silenzioso che si occupa del forno. Al nostro ritorno paghiamo due Soles al tipo del moto-taxi, scendiamo e troviamo tutti seduti in cerchio fuori dalla pizzeria. In mezzo al cerchio c'è una sedia con sopra una bottiglia di pisco (che è più o meno come la grappa) e un bicchiere. In un angolo accanto agli scalini dell'ingresso, due casse di birra. Veronica, la cameriera, fa un breve discorso e mi consegna un piccolo regalo: una maglietta con la scritta “Talara” e il disegno di una pompa per l'estrazione del petrolio, che è un po' come la Tour Eiffel per i parigini. Poi si inizia a far girare la birra al modo peruviano: ti riempi il bicchiere e passi la bottiglia al tuo vicino, quello si tiene la bottiglia e aspetta che svuoti il bicchiere per riempirselo lui, e passare a sua volta la bottiglia. Insomma, evviva la mononucleosi. Finite le birre si attacca col pisco, finché non compare una nuova cassa di birra. “Io continuo col pisco,” mi permetto di protestare “preferisco non scendere di gradi.” Lo chef, che si chiama Marcos pure lui, vuole sapere perché. “Solo un asino mischia in questo modo!” lo apostrofa Laura prima di buttar giù un bicchiere tutto d'un fiato.
Alle quattro di mattina, con Laura appesa al collo, riusciamo a raggiungere la stanza: c'è chi si butta sul letto, chi si china con la testa sul cesso. Il giorno dopo ci aspetta un autobus per Lima e quando suona la sveglia alzarci è un impresa da titani. Apro la porta della stanza per far entrare un po' d'aria e incrocio Marcos, lo chef, che vive nella stanza accanto e sta uscendo a farsi un giro. Ci saluta per l'ennesima volta, ci augura buona fortuna. “Ma tu non hai mal di testa?” gli chiede Laura. “Non sono mica un asino, io.” risponde lui.

venerdì 6 luglio 2012

Raphael, arrivi e partenze


Nella cucina della pizzeria Don Maximo mi chiedono lezioni d'italiano. Il risultato è che ora la gente entra dalla porta e ti dice “Hola, colione”, o che nella confusione del servizio serale qualcuno se ne esce con un “Cornuto, prestame tu trapo”, o ancora “Estronso! Una pizza para la mesa cuatro”. L'unica cosa che non mi va di insegnare, malgrado le insistenze, sono i sinonimi della parola gay, ché non mi sembra troppo sana l'ironia che da queste parti si fa sull'argomento. Rispondo semplicemente che non ci sono altre parole, che siamo un paese civile, noi.
Ieri, ancora non mi ero messo la divisa, mi dicono: “Colione, te buscan!”, ti cercano, e mi indicano la porta d'entrata. Chi mai mi può cercare qui a Talara, a non so quanti chilometri da casa e dalla gente che conosco? A parte Walter, che non ho più rivisto da quando ho lasciato casa sua, non mi viene in mente nessuno. Fuori dalle vetrate vedo una figura familiare, un cappello portato all'indietro da cui spuntano dei ciuffi biondi disordinati.
“Raphael!”
“Hola André, ¿Qué tal?”
Che bella sorpresa, e inaspettata! Avevamo salutato Raphael a Turbo, in Colombia, dopo l'Odissea nei Caraibi che era durata troppi giorni e che ci era costata troppi soldi. Lui aveva deciso di proseguire per Cartagena con le ragazze olandesi conosciute per strada (per mare in verità), mentre noi avevamo proseguito con Walter fino a Machala, in Ecuador, per poi raggiungerlo qualche giorno dopo qui a Talara. C'è anche lui infatti, Walter. Mi raccontano che si sono messi d'accordo via Facebook per incontrarsi e che quando Raphael ha saputo che c'eravamo anche noi, qui a Talara, ha voluto incontrarci. Non sono molto contento, a dire la verità, di rivedere Walter. Me ne ero andato da casa sua deluso e arrabbiato, portando con me un pessimo ricordo di lui; ma il fatto che grazie a lui possa rincontrare Raphael fa passare tutto in secondo piano. Ci diamo appuntamento per domani, per pranzo, a casa di Walter.

Il giorno dopo a casa di Walter non c'è nessun pranzo, solo tanta tensione che rimbalza tra le mura di casa. Judith è in cucina e non si fa quasi vedere, le due gemelle sono in camera loro. Laura e io troviamo un pretesto per andarcene in fretta e chiediamo a Raphael di accompagnarci. Gli spieghiamo un po' la situazione e gli raccontiamo la nostra esperienza in quella casa; lui capisce e decide di ripartire l'indomani. 
Ci mettiamo d'accordo per vederci dopo il lavoro fuori dall'Uruguayo, il ristorante in cui lavora Laura. Quando arrivo mi siedo con Walter e con Raphael su una panchina di fronte al locale, sotto dei grossi alberi che delimitano la passeggiata pedonale tra le due carreggiate della strada. Laura è ancora alle prese con gli ultimi clienti, la vediamo attraverso le grandi vetrate del ristorante. Io ormai conosco tutti i cani, i gatti e gli ubriaconi che passano di qua, visto che venire a prendere Laura fa ormai parte della routine quotidiana. Mentre aspettiamo Raphael racconta le sue avventure in Colombia e in Ecuador, della ragazza della quale si è quasi innamorato a Cali. Walter, dal canto suo, spiega che non ha ancora trovato una squadra da allenare: in Perù non vuole lavorare, perché i peruviani sono irresponsabili; in una squadra in cui ci siano negri nemmeno, perché danno problemi, si ubriacano e arrivano tardi. Mi torna in mente Samuelito, il negrissimo capitano della lancia con cui abbiamo attraversato parte delle isole San Blas: Samuelito non lo voleva Walter a bordo, perché gli argentini sono razzisti e odiano i negri, diceva. Strane bestie i pregiudizi... 
Ma la chiacchierata non dura molto. Siamo tutti stanchi e un po' assonnati. Appena esce Laura facciamo un pezzo di strada insieme fino all'incrocio in cui dobbiamo prendere direzioni diverse, tra i clacson insistenti dei moto-taxi e il chiasso dei disco-bar. Raphael parte domani, dunque, in direzione nord. Noi dopodomani, in direzione sud. Per la seconda volta mi trovo a congedarmi da lui all'improvviso, per strada, senza esserne preparato. Questa volta ci diamo appuntamento in Germania, o in Italia, in un futuro indefinito; ma a differenza delle molte altre volte in cui ho scambiato frasi simili con altri viaggiatori, qualcosa mi dice che ci rivedremo davvero.