lunedì 26 marzo 2012

Carramba che ironia!

La sede del Mojoca
Nel piccolo ufficio dell'équipe di strada, sempre in disordine nonostante la pulizia giornaliera che oggi per altro è toccata a me, c'è troppa gente per trovare un posto a sedere. Mi appoggio ad un mobiletto accanto alla porta d'entrata, spostando indietro col sedere il telefono tenuto insieme con lo scotch, le cartacce, le felpe e i bicchieri appiccicosi di caffè.
Oggi è giovedì, e come ogni giovedì mattina alcuni dei ragazzi con cui abbiamo lavorato in strada sono stati invitati in sede a conoscere le attività del Movimento. La mattinata è finita e, come da prassi, ci si riunisce per parlare con quelli che, dopo aver assistito alla presentazione, sono interessati a partecipare. Si chiede loro a quale meta vogliono arrivare e in che modo hanno intenzione di partecipare, se cerchino solo un appoggio temporaneo per poi tornare in strada, o se siano seriamente interessati ad intraprendere un percorso attraverso le quattro tappe del Mojoca: la partecipazione alle attività di strada, la scuola e i laboratori, l'inserimanto nelle case alloggio e infine il reinserimento nella società.
Oggi abbiamo davanti Hugo, che molto schiettamente dice che a lui interesserebbe solo un aiuto legale per conseguire un documento d'identità, visto che non ce l'ha. Sta seduto a capotavola. Intorno, almeno tre gironi di persone: quelli seduti al tavolo, quelli in piedi alle loro spalle e quelli che, come me, cono abbarbicati sui vari mobili lungo le pareti della stanza.
Hugo non sa di preciso quando è nato, dice di avere più o meno quindici anni. Suo padre, di cui non conosce il cognome, non l'ha mai conosciuto, e a quanto ne sa lui è morto da molto tempo. In poche parole, nemmeno lui saprebbe dire di preciso il suo nome completo. Wendy, la nostra coordinatrice, gli fa altre domande per cercare di capire qualcosa di più, e mentre lui risponde intorno si crea una confusione sempre maggiore: battute, risate, scherni. Io e Laura restiamo allibiti. Io penso che, se fossimo in Italia, tutto questo avverrebbe in una stanza pulita e fin troppo ordinata, forse con un paio di disegni infantili alle pareti per stemperarne l'austerità. Di questo colloquio si occuperebbero persone presumibilmente ben preparate, le quali userebbero tutto il tatto necessario nel porre certe domande, parlando magari con un tono accogliente, comprensivo.
Invece qui l'umore è alto. Lo stesso Hugo ride quando racconta che un paio d'anni fa, a scuola, ha fatto amicizia con una compagna che poi ha scoperto essere sua sorella da parte di madre (anche lei mai conosciuta). A sentire questo i ragazzi dell'équipe esplodono, quasi battono i piedi a terra dal ridere, lo sfottono. E lui, bonariamente, li manda a fare in culo. La coordinatrice si copre la faccia con le mani come a dire: "Certo che sei un caso disperato, tu!"

Solo noi siamo in imbarazzo, ma a parte noi due non c'è nulla di stonato in tutto questo. Non c'è nulla di crudele, se non quel che ormai è stato.
Ride Helmer, che quando aveva nove anni sua madre gli ha dato uno zainetto con dentro le sue cose e gli ha detto: "Ormai sei grandicello, puoi farti la tua vita". E tutto perché il piccolo non aveva voluto accettare, su di sè e sulla propria madre, le violenze e i maltrattamenti del patrigno.
Ride Diana, cresciuta fino agli otto anni con un padre alcolista e violento e con la sua matrigna. Entrambi le hanno sempre detto che la sua vera madre era morta. Alla fine l'ha conosciuta, sua madre, all'età di diciotto anni, da dietro le sbarre di un istituto correzionale.
Anche Carlos ride. Cresciuto con la nonna fino ai quattro anni, prima di finire in strada, visto che la madre non lo ha mai voluto con sé.
E ride Mirna, cresciuta fino ai dieci anni con la nonna, la quale l'aveva sottratta ai genitori tossicodipendenti raccontandole che erano morti. All'età di dieci anni Mirna ha scoperto che quella che credeva essere sua zia (Carramba!) era in realtà sua madre ed è andata a vivere con lei. Ma per poco, visto che con i suoi veri genitori ha trovato botte e maltrattamenti e che la nonna, ormai offesa, non la rivoleva con sè.

Tutti loro ridono, e nel farlo forse condividono qualcosa. Intanto Hugo ci saluta. La coordinatrice ha preso appunti e ne parlerà con l'incaricata dell'Ufficio Giuridico per vedere cosa si può fare.

domenica 18 marzo 2012

Funamboli della strada

Il Mojoca è un movimento di giovani di strada autogestito, seppur con l'aiuto di una parte (minoritaria) di persone esterne. Questo significa una complessa organizzazione fatta di organi decisionali a diversi livelli, un manuale di funzionamento annualmente e democraticamente rivisto, elezioni e continui dibattiti. In parole più povere, significa che i ragazzi e le ragazze di strada, nel partecipare al movimento, decidono per sé stessi se e come aiutarsi a vicenda.
Il senso (l'utopia?) del movimento è aprire possibilità affinché i giovani che abitano la strada possano auto organizzarsi, studiare, imparare un mestiere e divenire parte attiva della società. E cambiarla, alla fine, la società. Nella pratica, il manuale di funzionamento attuale prevede borse di studio, una scuola interna, delle case alloggio, dei laboratori di cucina, pasticceria, falegnameria e sartoria. Sono previsti anche sostegni a distanza per i figli delle ragazze di strada che vogliano intraprendere uno dei percorsi del movimento, gruppi di attività per persone già “uscite” dalla strada e un gruppo per i loro figli, chiamato “Generazione del cambio”. Le regole, decise dai ragazzi stessi, prevedono che si lascino le droghe e la criminalità e che si rispettino i principi base del movimento. E, soprattutto, è richiesto di partecipare come si può, di dare il proprio contributo umano e intellettuale. Il denaro necessario per tutto questo proviene da ONG e fondazioni europee, da iniziative di autofinanziamento e dalle così dette “reti di amicizia” italiana e belga.
L'équipe di strada, quella in cui lavoriamo noi, è composta da una coordinatrice e da due operatori, che in passato hanno vissuto in strada, da un maestro esterno e dai coordinatori di zona, che vivono in strada tutt'ora. Lavoriamo in quattro zone di Città del Guatemala, scelte sulla base del fatto che sono abitate da gruppi di ragazzi di strada, e per ogni zona c'è un coordinatore: uno di loro viene eletto dai compagni affinché li rappresenti nel movimento.
Queste persone, i coordinatori, fanno parte dell'équipe e, in un certo senso, ne sono il nucleo. Sono, nella loro fragilità, il punto di forza. Sono l'anello di congiunzione con la strada, la sua voce più autentica, la chiave di accesso alle persone che vi abitano. Ai coordinatori, come a tutti coloro che partecipano al movimento, viene chiesto di lasciare le droghe e di smettere i comportamenti criminali. Si chiede loro di essere d'esempio per i compagni, secondo i principi democratici e solidali del movimento. Ricevono, per il loro lavoro, una piccola “borsa di studio” con la quale comprare cibo e vestiti. Partecipano, eventualmente, al Comitato di gestione o ad altri organi decisionali.

Detto così forse tutto sembra facile, ma non è.
Qualche giorno fa camminavamo attraverso il mercato della Terminal, una delle nostre quattro zone. Io seguivo Hector, il coordinatore di quella zona. Non lo perdevo di vista un attimo, mentre mi facevo largo tra la frutta e le grida e i DVD pirata, tra i pesantissimi carretti che passavano veloci aprendo le folla in due e gli sguardi che si appiccicavano addosso alla mia faccia da gringo e ai miei occhi stranieri.
Seguivo la schiena di Hector e mi chiedevo che cosa avesse a che fare lui, così sicuro e perspicace, con quegli altri, quelli che si alzano a fatica dal loro letto di cemento, con la mano chiusa a pugno sullo straccio imbevuto di solvente. Dove sono in lui i segni della strada, mentre lo seguo come fanno i bambini, mentre mi sento al sicuro? Ci penso e ci ripenso, mentre guardo la sua faccia pulita e i suoi vestiti freschi di bucato.

Decine e decine di autobus sono parcheggiati a lisca di pesce davanti all'edificio in muratura della Terminal, la stazione degli autobus al di là del mercato. Alcuni dei ragazzi di questa zona dormono sul tetto di questo edificio e per raggiungerli dobbiamo arrampicarci e camminare su uno degli autobus. La parte centrale del tetto, più alta, sporge per circa un metro sulla parte laterale, creando una sorta di tettoia sotto la quale si può stare solo sdraiati e che, quando piove o fa freddo, è un luogo ideale per passare la notte. Hector tira un calcio ad una scarpa destra, che va a finire nei resti ancora fumanti di un barbecue: avanzi di pollo recuperati chissà dove messi a cuocere su una manciata di rifiuti bruciacchiati. Poi scosta una coperta, che costituisce la terza parete del giaciglio. Scuote il suo compagno, avvolto nella coperta, gli dice qualcosa a voce alta, scandendo bene le parole: conosce bene la difficoltà, la lentezza provocata dal solvente. Quello si alza dal materasso, barcolla un po' infastidito dalla luce. Alla fine fa un gran sorriso e ci saluta tutti. Allo stesso modo svegliamo gli altri e poi giù attraverso il tetto e la scaletta di un altro autobus, perché quello di prima se n'è andato.
Quindi è qui che dormi, Hector? È qui che tornerai alla cinque, finita la tua giornata di lavoro? Oppure all'incrocio, vicino alla vostra “Tour Eiffel”?

punto di forza fragilità anello di congiunzione voce autentica autogestione lasciare le droghe vestiti puliti occhi che si chiudono comitato di gestione risate battute solvente spazzatura cappellino da rapper
dove sono i segni della strada?

Se cammini dietro a Hector e lo osservi bene ti accorgi che, mentre ti parla e ti fa ridere con uno dei suoi giochi di parole, le sue dita si infilano automaticamente e distrattamente a cercare monete dimenticate nei telefoni pubblici.
Quando entri nell'ufficio dell'équipe, la mattina, manca sempre qualcuno. Allora guarda sotto al tavolo e lo troverai dormendo, recuperando il poco sonno della strada. La sveglia ha suonato alle sei, per arrivare a farsi il bucato alle sette, la colazione alle otto e il lavoro alle nove. E ogni marciapiede, ogni sedile di autobus, ogni colonna è buona per recuperare un minuto di sonno.
Entrando al Tanke, al Bolivar, i ragazzi si alzano dai loro materassi e pescano da alcuni sacchetti, a terra, pezzi di tortillas, manciate di riso, avanzi di pollo. Ne offrono ai loro compagni, ai nostri coordinatori. Anche qui siamo diversi, Hector: ne offrono anche a me ma io rispondo che non ho fame, mentre a te brillano gli occhi.
Oggi sei qui con me, Hector. Mi guidi in giro per la città, mi presenti gente, mi togli di torno i rompipalle. Ma certi giorni il tuo sguardo è diverso e allora è evidente che cammini su un confine sottile, che ti porti un peso enorme e che dubiti di potercela fare. Quei giorni capisco che la strada, con tutto quello che significa per te, ti chiama e ti strattona e quasi ti inghiotte un'altra volta. E d'altra parte quanta gente mi hai presentato, in strada, dicendomi: “Guarda, lei era coordinatrice”, “Lui era nella Casa de los amigos”, “Quello lì era nel Comitato di gestione”. Quanti funamboli prima di te sono caduti e risaliti e caduti di nuovo? Mi dico che forse hanno solo scelto, liberamente, di tornare in strada. Ma i loro sguardi e le loro parole si riempiono di malinconia quando si parla di quel che è stato, e le bocche chiamano a sé il solvente, treno deragliante che porta all'oblio.

giovedì 8 marzo 2012

Diego: una storia in cucina

La pensione della signora Ernestina è una casa uguale alle altre, nella 12 calle A. Non ci sono insegne, cartelli, prezzi, né nomi sul campanello. Ancora mi è oscuro come funzioni il giro di affari: come ci ha detto la stessa Ernestina, una signora dai lunghi capelli grigi e dal volto più giovane e più bello di quello che la vecchiaia di solito concede, qui c'è “solo gente fidata”. Noi ci siamo arrivati su consiglio delle ragazze del Mojoca, che hanno contrattato per noi il prezzo per telefono, prima di accompagnarci e presentarci alla proprietaria.
Oltre ai tre inquilini fissi (Mario, il tuttofare tarchiato e massiccio che russa come un Diesel da rottamare e non ci lascia dormire; i due studenti, quello alto e quello ciccione che somiglia - che è uguale - all'orso Yogi). Oltre a questi tre, dicevo, per questa casa passa parecchia gente. C'è chi ha alloggiato qui per un giorno, o una settimana: una donna bionda e americana, chiassosa soprattutto nelle prime ore del mattino e madre di due bambine, una bianca e una nera, entrambe perfettamente bilingue; una trentina di studenti canadesi in gita scolastica, che si sono fermati due notti in attesa di trasferirsi per una settimana in una comunità Maya (mica li mandano a Mantova a fare il giro con la motonave, loro...); poi famiglie, ragazzi di passaggio e una vecchia centenaria, più sorda che orba, che in questo momento sta girando in corridoio col deambulatore.
Una sera della scorsa settimana, nello spazio della cucina tra il lavandino e il microonde, abbiamo conosciuto Diego. Stavamo seduti a tavola, Laura e io, sfiniti dopo una lunga giornata di incontri e dialoghi in lingua straniera. E nonostante ciò lo abbiamo ascoltato per più di un'ora.

Circa un anno fa, al villaggio dove Diego vive, un ragazzino camminava per strada, vestito alla moda di certi cantanti visti in televisione: pantaloni dal cavallo bassissimo, cresta e qualche altra diavoleria che ora non ricordo. Fa parte delle stagioni della vita, insomma: a una certa età ti vesti da deficiente; poi, di solito, smetti. Fa parte di quell'età anche lo sguardo probabilmente di sfida (ma forse solo non abbastanza remissivo) che il nostro ragazzino ha incrociato con un ex patrullero (con questa parola Diego si riferisce a un membro di un gruppo armato formato da civili e appoggiato dall'esercito al tempo del conflitto interno). Mi immagino che sia andata più o meno come con i tamarri delle nostre periferie milanesi: uno decide che l'altro l'ha guardato male, e da lì comincia la storia. Solo che qui abbiamo un uomo armato e influente, amico di senatori, poliziotti e militari. Dall'altra parte abbiamo un ragazzino imberbe, per giunta vestito da deficiente.
L'uomo ordina alle sue guardie del corpo di catturare il giovane e di condurlo all'edificio che durante il conflitto interno veniva usato come carcere. Dopo avergli tagliato i capelli, gli danno un sacco di botte: l'accusa, inventata lì per lì, è di essere membro di una mara, una banda giovanile dedita alla violenza e alla devianza. La madre del ragazzo, avvisata di quanto stava avvenendo, va a cercare il figlio: anche a lei toccano botte e sevizie. Infine il padre, un poliziotto che in quel momento si trovava al lavoro, venuto a conoscenza dell'accaduto va a reclamare dall'ex patrullero. Mentre gli uomini parlano, parte un colpo accidentale, probabilmente autoinferto, che ferisce a una gamba una delle guardie del corpo. All'ex patrullero questo sembra un pretesto perfetto: decide che a sparare è stato il padre del ragazzo. Così lo torturano e lo picchiano per ore, prima di portarlo sulla pubblica piazza e dargli fuoco davanti alla gente.
Questi sono i metodi che si usavano al tempo del conflitto interno, in quei primi anni ottanta che per il nostro uomo non sembrano essere finiti. Ora come allora, grazie alle sue amicizie, si sente intoccabile. La gente lo teme e, in un certo modo non proprio spontaneo, lo rispetta.
Diego ci parla in piedi, appoggiato al lavandino. Tiene in mano un piatto di minestra che ha già scaldato due volte e che, immerso nel racconto, ha dimenticato di mangiare. Continuo a chiedermi perché ci stia raccontando tutta questa storia. Perché questa e non altre. Io gli ho solo chiesto da dove viene e che cosa ci fa in questa città orrenda, niente più.
Quel giorno, in piazza, Diego ha filmato il rogo con il cellulare, e questo c'entra qualcosa con il fatto che oggi si trovi qui: con quel filmino in mano, ha trovato il coraggio di denunciare l'ex patrullero, che ora si trova in carcere. Ma i suoi uomini e i suoi sostenitori sono liberi e già una volta hanno procurato a Diego un soggiorno gratuito di una settimana all'ospedale. Per questo è costretto a stare lontano da casa per un po' e a lavorare a trecento chilometri di distanza.
Il suo lavoro lui lo chiama di “salute mentale” e consiste nel guidare gruppi di auto-sostegno per i sopravvissuti al conflitto interno e per le molte donne vittime di violenze sessuali e non (ai tempi del conflitto, quando gli uomini salivano sulle montagne per unirsi alla guerriglia, le loro donne rimaste nei villaggi erano considerate a disposizione dei desideri peggiori degli uomini dell'esercito e dei patrulleros). Anche se Diego non lo dice apertamente, si capisce che parla della sua gente, dei popoli indigeni, dal 1492 in poi vittime elette degli eventi.
Poi ci racconta altre vicende della comunità Maya a cui appartiene, nel villaggio di Cotzal. Di storie ne conosce tante perché ci tiene a conservare la memoria, che ritiene essere uno strumento di libertà: per questo continuamente interroga gli anziani, chiedendo loro di ricordare e raccontare.
Alla fine di uno dei suoi racconti, con la minestra di nuovo fredda tra le mani, sorride e ci chiede che intenzioni abbiamo: se rientreremo a casa entro l'anno o meno. Gli spiego che, siccome c'è gente che va in giro dicendo che nel 2012 finisce il mondo, preferiamo non avere piani precisi.