domenica 28 ottobre 2012

Fate largo, arriva il cuoco


La storia si ripete. Come qualche mese fa in Perù, mi faccio forte della mia italianità. Sono italiano, quindi di cucina ne so per mia natura. Non lo faccio perché mi piaccia vantarmi di cose non vere, né perché mi diverta a mettermi in situazioni difficili da sostenere. Lo faccio perché mi serve un lavoro e, come tutti, cerco il modo più efficace per ottenerlo.
Mi sono presentato in tutti i bar e ristoranti, curriculum alla mano. “Aiuto cuoco italiano, esperto in pasta e pizza” diceva il riassunto. E tutto infatti è andato liscio, come l'altra volta, quando a Cuzco questo era bastato a fare di me un docente con una schiera di allievi in divisa che pendevano dalle mie labbra. Anche qui a Taupo questo è bastato, quasi al primo tentativo. Darren, il proprietario del locale, mi ha illustrato i termini del contratto mentre Kathy, la chef, mi ha guidato per un tour tra le stufe, i magazzini e le celle frigorifere. Tour che si è concluso davanti ad un lavandino traboccante di piatti e padelle, tazze e posate che spuntavano oltre la coltre di grasso, riso e foglie di rucola. “Ok, benvenuto!” mi ha detto Kathy. “Quella è la spugna, quello è il detersivo.”
Ma non pensiate che ci sia rimasto male. Se c'è una cosa che mi piace fare per guadagnarmi da vivere è muovere le mani e fissare il vuoto. Intanto è già iniziato il mio addestramento: devo imparare a fare i panini in menù, le patate fritte, le uova con bacon e una serie di altre cose, così da potermi alternare con gli altri e cambiare postazione di tanto in tanto. Come spiegare che io voglio lavare i piatti? 
Dalle fessure della porta della cucina, oltre i tavoli e le teste dei clienti, si vede un pezzetto di lago, come in una foto verticale scattata col grandangolo. Quando nel primo pomeriggio il lavandino è vuoto, attraverso la strada e con il mio natante solco le acque del lago Taupo, alla ricerca di spiagge remote e sconosciuti orizzonti. (Qui tutti hanno un motoscafo una barca, o almeno una canoa. Perché io non dovrei avere qualcosa che galleggia? Bisogna pur imparare, poco alla volta, a godersi la vita. La Nuova Zelanda è una buona scuola in questo senso.)

lunedì 22 ottobre 2012

Taupo, un posto da chiamare Casa


Abbiamo girato impazziti come un palloncino che ti scappa dalle mani mentre cerchi di fargli il nodo. Abbiamo battuto l'Isola Nord dall'alto in basso, da costa a costa e anche in diagonale, tornando a volte ossessivamente sulle stesse strade. Laddove la mappa segnava un centro abitato, meglio se sul mare o nei pressi di un corso d'acqua, noi ci siamo andati, cercando con determinazione il posto giusto da chiamare Casa. La nostra strategia ci ha procurato il mal di schiena e una spesa enorme in benzina, a volte attraverso infiniti chilometri di nulla, laddove i nomi sulla mappa non corrispondono che a un recinto e ad una casella della posta ammaccata sul ciglio della strada. Ma più ci allontanavamo da quello che stavamo cercando, più restavamo a bocca aperta. Dietro a curve di sterrate prese per madornale errore, ci siamo spesso trovati davanti a Lei, la  Natura. Scogliere lavorate dai secoli, dove il vento fa il culo alla forza di gravità e gli alberi crescono orizzontali, con la messa in piega. O quella collina verde, appena all'uscita di una fitta foresta, sulla cui cima c'è un vecchio autobus variopinto, circondato dalle mucche al pascolo. O ancora il mare che lambisce la East Cape road, che conduce al faro più a est del mondo (se lo guardiamo a partire da Greenwich).
Poi ci è toccato smetterla. Smettere di fare finta che i soldi non stiano finendo. Smettere di strisciare la carta di credito senza pensare a come funziona, il credito. Abbiamo stilato una lista di città che avessero un panorama mozzafiato, i bagni pubblici gratuiti, le docce, una biblioteca accogliente con internet a disposizione, svaghi nelle immediate vicinanze e almeno un supermercato con prezzi convenienti. Abbiamo votato ed eletto all'unanimità Taupo come nostra Capitale. Città di lago e di fiume, sta più o meno nel centro dell'Isola ed ha tutto ciò che potremmo desiderare. A parte un clima più amichevole, ma per questo non c'è speranza in Nuova Zelanda, almeno in questa stagione.

Ed ora eccomi qui, nella Skype room della biblioteca, a scrivere queste memorie. Mezz'ora fa sono entrato in un ufficio pubblico con un modulo incompleto tra le mani, pronto ad affrontare il muro della burocrazia. Ho spiegato timidamente che mi serviva un codice fiscale e cinque minuti dopo ero di nuovo fuori, tutto era a posto. Niente “Torni settimana prossima, dalle nove alle nove e venti.” Niente “Vada all'Ufficio Magagne, poi faccia la coda allo sportello 2 e torni qui con la fotocopia fronte-retro della Carta d'identità”. Fatto, e basta.
Venerdì inizio a lavorare nella cucina di un ristorante. Con un REGOLARE CONTRATTO. Laura sta già lavorando come cameriera in un caffè. Da un paio di giorni la nostra macchina è tornata ad essere una semplice macchina, mentre noi dormiamo in una stanza vera con un letto, un tavolo, due sedie, un divano e un televisore con tre canali.

mercoledì 17 ottobre 2012

Margarina adesso è mia


In Nuova Zelanda il cielo cambia in fretta di colore, ormai ci stiamo abituando. Il tempo di comprare del pane e una busta d'insalata, di fare la coda alla cassa, e fuori c'è Il diluvio. Ci fermiamo ad aspettare, Laura e io, nello spazio tra le due porte scorrevoli del supermercato New World, nella città di Hamilton. Che spiova almeno un poco! Abbastanza da permetterci di scattare a passo di papera fino alla macchina. (Ma com'è che poi ci metto sempre un'ora a infilare la chiave nel buco e finisco col bagnarmi lo stesso?)

Accanto alla porta che dà all'esterno c'è un agente di polizia. Vicino a lui, di spalle all'uscita, un ragazzo sui trenta, scuro di pelle. Tiene in mano uno scontrino e una confezione di margarina, col fare di chi non ha nulla da nascondere ed è pronto a dimostrarlo. A due passi da loro, il vigilante del supermercato osserva la scena con attenzione.
L'agente di polizia ha una ricetrasmittente sulla spalla, attaccata al giubbotto catarifrangente. China la testa per parlarci dentro, ascolta il gracchiare di una risposta, infine rimane in attesa. Anche il ragazzo sui trenta rimane in attesa. Il vigilante continua a seguire la scena.
Le porte scorrevoli si aprono. Un signore in pantaloncini cortissimi e stivali di gomma entra con nonchalance, accompagnato dal fracasso della pioggia battente e da un ragazzino scalzo. Nello stesso istante il ragazzo con la margarina scivola fuori, improvviso, e inizia a correre come Bolt lungo il perimetro dell'edificio. Qualche secondo dopo, il tempo necessario agli esseri umani per mettere in piedi una reazione, il poliziotto si lancia all'inseguimento. Dietro di lui il vigilante. Li perdiamo di vista in fretta, inghiottiti nella foresta grigia e orizzontale di acqua e di vento.
Non so bene chi dei tre invidiare di meno.

mercoledì 10 ottobre 2012

Un anno dopo: due parole su questo viaggio


L'11 ottobre 2011, alle 11:20 del mattino, partiva dall'aeroporto di Milano Linate il volo EI433 con destinazione Boston, U.S.A. Quel giorno i nostri zaini pesavano circa dieci chili in più di adesso, pieni com'erano di cose che avevamo ritenuto indispensabili e che abbiamo poi abbandonato, regalato o rispedito a casa strada facendo. Io avevo in mano una copia de La Repubblica di quel giorno: me l'aveva lasciata mio padre perché la leggessi durante il volo, ma non l'ho mai fatto. E neanche Laura. Perché l'Italia era tutto ciò che stavamo mettendo da parte per un po', e non ci interessava se il Ministro della Giustizia aveva deciso di inviare gli ispettori alle procure di Napoli e Bari per salvare Berlusconi dalle inchieste sulle escort. Volevamo sentire altro, qualcosa che non sapessimo già. Volevamo essere sbalorditi da qualcosa di cui non sospettassimo l'esistenza, come i bambini davanti al primo arcobaleno.

Non ho intenzione di fare bilanci o elenchi di luoghi visti. Vorrei invece spendere due parole su questo viaggio, sui suoi perché. Parlo al singolare perché sarebbe difficile spiegare insieme le mie motivazioni e quelle di Laura, motivazioni che in parte coincidono e in parte divergono. Perché per quanto da un anno non ci siamo mai persi di vista per più di ventiquattro ore, restiamo due individui, due universi separati, come tutti gli esseri umani.
Lo so, una dichiarazione d'intenti come quella che segue è cosa che si dovrebbe fare all'inizio, magari prima di partire. Non certo un anno dopo, lontano tanto dalla partenza quanto dal ritorno. Ma per paura di dire troppo, spesso mi ritrovo col non dire abbastanza. Penso questo quando mi capita di rileggere il mio primo, non del tutto sincero, post.
Un anno fa non avevo nessuna voglia di giustificarmi, di mettere alla prova una scelta che anche a me sembrava azzardata. Sono partito entusiasta e dubbioso, con pochi soldi in tasca, con gli echi di voci che dicevano “Altro che giro del mondo! Con quei pochi soldi tu tra un mese sei di nuovo qui.” Pareva che dovessimo dimostrare qualcosa Laura e io, e l'idea non ci piaceva per niente. Sarà che noi stessi non sapevamo bene come sarebbe andata a finire, come ce la saremmo cavata alle prese con le lingue e le culture diverse, con la lontananza da casa, con gli imprevisti, con la necessità di riempirci lo stomaco ed avere sempre un tetto sulla testa. Stavamo scommettendo senza conoscere la materia in questione.
Ma veniamo a noi. 

Sono partito perché, se c'è una cosa su cui non ho mai avuto il minimo dubbio, è che volevo partire.

Sono partito perché sono curioso, e non mi fido a farmi raccontare il mondo dai libri e dal cinema. Volevo guidare di persona sulle immense freeway di Los Angeles, come i Chip's. Volevo pernottare in un motel americano come quelli di Thelma e Louise, mangiare in un fast food coi divanetti come Fonzie. Ho scoperto che si può essere molto tristi in Messico, dove le nuvole ci sono per davvero. Ho sentito che in certe strade di Città del Guatemala l'aria odora di merda e di solvente, ma non per questo è vietato sorridere. Volevo navigare tra le isole dei Caraibi e vedere se erano davvero sincere lo brochure delle agenzie di viaggi. Come sospettavo, nessun luogo è davvero l'inferno. Nessuno è il paradiso.

Sono partito perché ero stanco, mi ci voleva una vacanza.

Sono partito perché magari ci sono posti più belli, sani, onesti e puliti in cui vivere. O magari il posto giusto è quello in cui sono nato e cresciuto. Forse c'è un posto nel mondo in cui mi posso sentire a casa, un luogo in cui tutto venga più facile e leggero. Oppure vale la pena fare la propria parte insieme alla propria gente, fosse anche nella Pianura Padana. Forse, vista da fuori, non è poi una merda la Pianura Padana.

Sono partito per prendermi il tempo di fare alcune cose a lungo rimandate, per dare una chance ai sogni messi da parte per il solo fatto di essere diventato adulto. In passato ho fatto altre cose, col mio tempo. Cose sagge e giuste: lavorare, studiare. Ma non ho smesso di sognare. Ho scoperto che se metti insieme gli strumenti di un adulto alle ambizioni di un ragazzo, ti ritrovi in Nuova Zelanda con un canotto arancione e un conto corrente a tuo nome.

Sono partito per meglio somigliare all'idea che ho sognato di me stesso, come dice un travestito in “Tutto su mia madre” di Almodovar.

Sono partito perché, porca miseria, almeno l'inglese lo voglio imparare. 

Sono partito perché volevo sapere cosa significa essere straniero. Figlio di migranti quale sono, ho sempre avuto ammirazione per la gente che, per scelta o per condizione, si confronta con altre lingue, altri climi, altri cibi, altri odori, altri mezzi di trasporto, altre economie, altri sguardi, altri sottintesi, altri pregiudizi. Ho sempre avuto l'istinto di stringere la mano al muratore albanese, alla badante sudamericana, all'avvocato africano che vende DVD pornografici fuori dal Brico Center. Ho sempre sospettato, e ora lo so, che quella gente fa una fatica cane, e si porta dentro una ricchezza che spesso non sa (o non vuole) esprimere. Lo pensavo anche durante uno dei miei ultimi giorni di lavoro, quando con Erick, un quattordicenne ecuadoregno con il quale lavoravo come educatore domiciliare, tentavo di fare i compiti di spagnolo. Lui aveva pessimi voti in quella materia, e quando c'era da studiarla erano grandi scenate di svogliatezza. E sì che nella sua famiglia tutti parlano spagnolo e lui, quanto meno, lo capisce. E io mi arrabbiavo, gli dicevo: “Cazzo Erick, tu non ti rendi conto del culo che hai a sapere due lingue così, gratis, solo per averle sentite da piccolo. Io ti invidio e tu fai tutte queste storie per due esercizi che potresti fare in un minuto e ad occhi chiusi!” Ma per lui il fatto stesso di capire lo spagnolo era una ricchezza inutile, una moneta senza valore. Anzi, era un fardello, significava quella differenza che avrebbe voluto cancellare, per essere semplicemente come tutti gli altri. “Sai,” gli ho detto “molto probabilmente passerò dal tuo paese durante il mio viaggio.” Mi ha guardato come se fossi pazzo. “In Ecuador? E cosa ci vai a fare?” Non me la sono sentita di rispondere che andavo a fare il migrante per gioco, per vedere come ci si sente. Non a lui.

Sono partito per vederci meglio, per conoscere gli altri e me stesso. Mi illudevo anche, lo ammetto, di trovare per strada una risposta alla domanda: “Cosa vuoi fare da grande?” Ma l'unico vero risultato è stato confondermi le idee.

Sono partito, insomma, con tante idee nella testa. Alcune vaghe, altre molto precise. L'unica cosa che posso dire ora è che ne valeva la pena. Suona appropriato questo modo di dire, perché viaggiare con pochi soldi a disposizione è spesso una pena, o almeno una fatica. Posso dire anche che sono contento del fatto che ogni giorno che passa mi avvicina sempre di più al ritorno, anche se non esiste una data precisa né una decisione presa in merito. Ma mi piace l'idea, l'idea di tornare.

venerdì 5 ottobre 2012

Carol: sette giorni di pioggia e poi un fuoco acceso


Metafore a parte, Cape Reinga è la fine del mondo. Puoi solo tornartene da dove sei venuto, guidando verso sud lungo l'unica strada. Oppure, con una 4x4, puoi percorrere la leggendaria 90 Miles Beach, pucciando le gomme in acqua di tanto in tanto. Ma sempre verso sud, perché in tutte le altre direzioni c'è solo mare, per miglia e miglia fino all'Asia in direzione nord-ovest, al Sudamerica verso est, all'Australia verso ovest. 
Punta nord della Nuova Zelanda, luogo in cui le anime entrano nell'aldilà secondo la tradizione maori, Cape Reinga è considerato il punto di incontro tra l'Oceano Pacifico e il Mare di Tasman. E in effetti, dalla terrazza del faro, si possono vedere creste schiumose e turbolenze che sono espressione della lotta tra le correnti. Perché non stiamo parlando solo di una linea immaginaria, di quelle che i navigatori tracciavano arbitrariamente sulle loro mappe. Questi due mari si scontrano proprio, spalla a spalla, come in una mischia infinita di un'eterna partita di rugby. 

A Cape Reinga noi ci arriviamo dopo quattro giorni di lenta crociera, quasi sempre sotto la pioggia, che ci accompagna da quando abbiamo lasciato l'isola di Waiheke. Quattro giorni di continue soste fatte per equipaggiare la macchina di materasso, tendine anti-voyeur, fornello da campeggio, pentolame, una radio e un paio di gomme nuove. E per riparare il parabrezza, che dava segni di volersi staccare dal suo telaio. Come al solito abbiamo cercato le soluzioni più economiche, che nella piccola città di Kerikeri ci hanno portati a scoprire l'esistenza di incredibili negozi dell'usato, organizzati per sostenere il servizio delle ambulanze o gli hospis. Mercatini in cui, tra le altre cose, abbiamo comprato un paio di Levi's per due dollari e un paio di scarponcini di pelle per cinque. 
Ma una volta arrivati a destinazione (o per meglio dire al punto di partenza, visto che da Cape Reinga comincia la nostra traversata dal nord al sud della Nuova Zelanda) una stanchezza infinita si impossessa di me, rendendomi ogni piccolo imprevisto una fatica insormontabile. Il vento, la pioggia incessante, il materasso che si sgonfia ogni notte verso le quattro, il finestrino dell'auto che non chiude bene e che fischia dalla piccola fessura nell'orecchio di chi guida... Inizia così una lenta discesa, ben diversa da come l'avevamo in mente.
Perché il piano era questo: Si va in cima al Paese e poi si scende lentamente, facendo del sano e rilassante turismo: spiaggia, libri, bei paesaggi... Niente fretta. Appena troviamo un posto che ci piace ci sistemiamo e ci troviamo un lavoro. Ma di tutti i chilometri percorsi non uno è andato all'insegna del relax: solo un profondo malumore, che ha visto il suo apice con una tavola sparecchiata dal vento e uno scroscio d'acqua sulla bistecca al sangue, comprata per tirarsi su il morale. 
Quando si vive in una macchina, pioggia e vento rendono tutto più difficile. Non tanto perché la macchina diventi più scomoda o più fredda, ma perché non ne puoi uscire. Ci devi rimanere ventiquattro ore nella cazzo di macchina. Si aggiunga che, da queste parti, alle cinque del pomeriggio tutto chiude e tace. McDonald's a parte.

È successo così, una delle innumerevoli volte in cui abbiamo cercato parcheggio e ci siamo infilati in un negozio dell'usato, correndo sotto la pioggia. È stato nella città di Kaikohe, quando ormai non mi sentivo più le forze per arrabbiarmi e cercavo con occhi stanchi un materasso di gommapiuma tra gli scaffali. È capitato nel momento in cui il mio pensiero più ricorrente era: Fanculo tutto, prendo un aereo e torno in Italia!

- Avete un materasso di gommapiuma? (a parlare è Laura, in piedi alla cassa, dall'altra parte del negozio.)
- No, mi dispiace, non abbiamo niente del genere al momento. (a parlare è una signora un po' in carne, sui quarantacinque, bionda.)
- Sa dove posso trovare un altro negozio dell'usato? (di nuovo Laura)
- Sì, dunque... (segue spiegazione della signora bionda).
- Ok, grazie. 
(silenzio)
- Ma voi non eravate a Kerikeri qualche giorno fa? - dice la bionda.

In effetti, le avevamo fatto le medesime domande qualche giorno prima e in un'altra città, in un altro negozio della stessa associazione per la quale Carol (questo il nome della signora bionda) gestisce i volontari. Mi avvicino un po' per ascoltare meglio, fingendo di cercare qualcosa tra pentole e forchettoni, non molto in vena di fare conversazione in prima persona. Così ascolto Laura raccontarle che sì, quelli eravamo noi, e che il materasso l'avevamo anche trovato, ma è bucato. 
Per arrivare al dunque, Carol ci invita a casa sua. Per qualche giorno o anche per una settimana, dipende da cosa vogliamo fare noi. Non ci conosce, non sa niente di noi, a parte il fatto che dormiamo in una macchina e non abbiamo un materasso. “Avreste una stanza indipendente, con bagno e acqua calda” dice, per rendere l'invito più accattivante. Vuole che capiamo che per lei è un piacere se andiamo, ma che dobbiamo sentirci liberi di accettare o meno. Ci lascia il numero di telefono e noi ci ributtiamo indecisi dall'altra parte delle vetrate, quella dove cade la pioggia e soffia il vento.
Sarà appunto per l'insistenza degli agenti meteorologici. Sarà anche perché abbiamo imparato che qui la gente non dice le cose per far bella figura, sperando di nascosto che tu gli dica di no. Sarà perché io sono esausto, e anche Laura è stanca (forse anche stanca di sopportare me che sono esausto). Insomma, accettiamo l'invito.
Quella stessa sera ci scaldiamo le ossa davanti alla stufa accesa, facciamo una doccia calda e un bel sonno ristoratore in un letto vero, parcheggiati in una stanza buia e senza ruote. Rimaniamo con Carol un paio di giorni, poi altri due e altri due ancora, rimandando di continuo la nostra partenza. Ogni sera facciamo del nostro meglio per preparare una degna cena italiana, che le facciamo trovare pronta al rientro dal lavoro. Con noi c'è anche Dylan, il suo figlio diciottenne, minore di quattro fratelli. La stanza in cui stiamo, che in effetti è una costruzione indipendente, appartiene a Ian, il penultimo figlio, che ora si trova in Thailandia in vacanza. Jacob, il maggiore, si trova invece in Australia per lavoro mentre Stacy, l'unica femmina, vive col suo compagno a pochi chilometri di distanza. Ogni sera facciamo lunghe e interessanti chiacchierate (nei limiti del nostro inglese), seduti sui grandi divani di casa sua, immaginando il mare tremolare nel buio al di là delle vetrate. Si parla un po' di tutto, ma mai viene menzionato un padre dei suoi figli, un marito o un compagno. Delle molte foto esposte nella stanza, in nessuna compare lui, la cui presenza sembra essere stata cancellata. Siamo curiosi ma non chiediamo, non sono fatti nostri.
Dopo sei giorni ripartiamo un po' più asciutti e riposati. E con un materasso nuovo di zecca che, guarda un po', Carol aveva in cantina a far niente.