giovedì 10 novembre 2011

Naperville

Foto di Laura Pelliciari

Ce ne stiamo qui, a Naperville. In questa casa americana dalle grandi finestre.
Mi metto al tavolo a scrivere qualcosa; inizio ad esplorare la musica nuova che ho portato con me da Boston. Jazz e rock: queste sono solo due delle piacevoli conseguenze dell'aver conosciuto Michael.

Per arrivare qui abbiamo viaggiato due giorni, aspettato coincidenze, dormito sui sedili di un treno lento. Alla South Station di Boston avremmo dovuto prendere il treno, uno solo. Quel treno avrebbe dovuto lasciarci direttamente a Chicago: una cosa facile. E invece alla South Station è arrivato un ciccione nero con gli occhiali che ha detto che c'erano dei problemi e ha spiegato delle cose. Io – parlo per me - non ho capito niente: guardavo le stanghette degli occhiali incastonate nelle pieghe della testa grassa muoversi mentre apriva e chiudeva la bocca. Con Laura ho seguito la massa fuori dalla stazione, fin davanti a due autobus gialli. Barcollavamo sotto il peso degli zaini. Abbiamo mostrato al ciccione i biglietti e quello ci ha indicato uno dei due bus.
Così siamo finiti alla stazione di Albany, dove abbiamo aspettato qualche ora il nostro treno (e il nostro alloggio per la notte). Quale sia stato il problema, credo che non lo sapremo mai. 
Già ad Albany il paesaggio era cambiato, comunque. Ed era quel che cercavamo. Dicevamo, io e Laura: va bene, ok, bellissime queste città americane. Ma la provincia? Com'è? Ed eccola qui, sulla strada di Albany: case di legno distanti, non più così ordinate e perfette – o almeno non tutte. Giardini di erbacce ingombri di detriti vari. Qualche prefabbricato, qualche roulotte.

Naperville certi giorni sembra un paradiso terrestre, certi altri una vasta e desolata distesa di nulla. In questo quartiere ci sono centinaia di villette in legno azzurro tutte uguali, che se ti dimentichi il numero civico non sai più qual'è casa tua. Guardo fuori dalla finestra: c'è un lago a meno di 10 metri, dentro ci sono le oche. Vento e pioggia sottile.
Marco è un ingegnere, questa è casa sua. Oggi si è alzato alle cinque per volare a Wichita per lavoro. Tra due giorni dovrà volare a Lecce, poi di nuovo a Chicago, poi a Torino. Poi? In Brasile. 
L'altra sera ci ha accompagnati a fare un giro a Chicago con due suoi colleghi italiani. C'era Davide, qui “in viaggio”, come dice lui, ma che da gennaio dovrà trovarsi una casa e trasferirsi definitivamente. C'era Lorenzo, che ha appena fatto l'upgrade, e cioè ha rinunciato al contratto italiano ed è stato assunto qui negli U.S. Quanto a Marco, siccome non ci sono le condizioni per restare come vorrebbe, tornerà presto a stare in Italia. Tutti e tre conoscono la lingua, i luoghi, la gente.
Io e Laura camminavamo dietro di loro per le strade del centro. Sembravano a loro agio ed allo stesso tempo spaesati, sempre e comunque stranieri. Si prendevano in giro, facevano battute colorite ad alta voce. Lorenzo faceva considerazioni sulla “fauna” locale che gli pascolava davanti agli occhi, per lo più costituita da manze.
Guardavo quelle tre ombre camminare davanti a me. Pensavo che due di loro non tornavano a casa da mesi. Ho sorriso pensando che per me era un po' come incontrare mio padre. Era così che doveva essere la sua vita quando io ero piccolo, a casa con mia madre, e lui in giro in qualche parte del mondo? A suo agio ed allo stesso tempo spaesato, straniero?

2 commenti:

  1. Io ci provo a mandarvi un messaggio ma sono un'imbranata con i blog .... vediamo se mi riesce.
    Vi sto seguendo e sono contenta che siate soddisfatti della scelta fatta, in fondo forse anch'io vi invidio un pochetto ....
    Continuerò a seguirvi e mando un super kiss a te ed un grande hug a Laura. Chicca

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  2. Ciao Chicca.
    Che bello che ci stai seguendo.
    Più tardi ti scriviamo una mail, così anche noi ti chiediamo qualche aggiornamento su come vanno le cose lì... Siamo curiosi.

    Ciao ciao

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