martedì 29 maggio 2012

Odissea nei Caraibi, capitolo II: Samuelito, l'amaca e altre vicende

Con i nostri due nuovi amici ci sistemiamo nel terrazzino davanti alla stanza, accanto alle barche che ondeggiano nel buio a un passo da noi. Mentre scaldiamo sul fornello elettrico i fagioli in scatola comprati oggi dai cinesi, facciamo due chiacchiere.
Walter è un argentino ex calciatore di serie A, un difensore che i tifosi avevano soprannominato El Bestia. Ora fa il preparatore atletico e gli ultimi mesi li ha passati in Honduras, ad allenare una squadra. “Se sono qui ora è perché sto pagando un mio errore” spiega. Durante la stagione, infatti, ha lasciato un club in Costarica con il quale si trovava bene per accettare un ingaggio meglio pagato nello Stato vicino. Come spesso capita da quelle parti e in quel particolare mondo, almeno stando a quanto dice Walter, gli accordi con la dirigenza sono stati solo verbali. Un mese dopo è cambiato il presidente e i soldi hanno smesso di arrivare, fino a che lui si è stancato ed è andato a chiederli: “Se vinci, a fine stagione ti paghiamo” gli hanno detto. “Questo per non aver firmato un contratto, per essermi fidato!” ha protestato lui. “Qui non contano niente i contratti,” gli hanno risposto “qui contano solo le pallottole.” E così se n'è andato ed ora, con pochi soldi in tasca, sta cercando di tornare in Perù dalle sue due figlie, in una delle sue due case (l'altra è in Argentina, a Buenos Aires, dove ha un altro figlio). Si vede che non aveva in programma di viaggiare via terra: il suo bagaglio è costituito da un trolley e da una borsa sportiva, entrambe dotate di rotelle che purtroppo su queste strade di terra e di sassi non gli serviranno a niente. Ha poi una borsetta più piccola piena di creme, profumi, pettini e lamette e uno zainetto mono-spalla contenente un computer portatile.
A Walter piace parlare, raccontare. Durante la serata si parla di sport, di politica, di problemi sociali. La conversazione è polarizzata più che altro tra lui e Laura. Rafael, il ragazzo tedesco, interviene di rado e più che altro cerca di cogliere il senso generale di ogni frase. Io ascolto: tra le altre cose Walter mi spiega la differenza tra una mara e una pandilla (entrambe bande giovanili). Poi mi stanco e mi defilo: fuori dal bar chiuso di don Pablo prendo una cassa vuota di coca cola, me la porto in spiaggia e mi ci siedo sopra. Me ne sto un po' nel buio a guardare la luce intermittente di una boa cento metri a largo. Quasi subito arriva un cane e, come fossimo vecchi amici, si accomoda nella sabbia fresca a farmi compagnia.

Il mattino seguente arriva un tale mai visto prima, un colombiano. Dice che di lì a poco parte una lancia che trasporta merci nella nostra direzione e che per 40 dollari per persona il capitano ci porterebbe fino a Narganà, un'isola caraibica a metà strada tra Miramar e Puerto Obaldia. Vuole i soldi subito. Così parte la solita pantomima: io dico che voglio parlare col capitano, che 40 dollari sono troppi. Lui si indispettisce, dice che devo trattare con lui, dice che la benzina costa tanto, eccetera eccetera. Poi, siccome non gli diamo i soldi, se ne va.
Il capitano in questione è noto in paese come Samuelito ed è un gigante, nero di pelle e d'umore. Lo vado a cercare di persona al molo di legno dove sta caricando, cinquecento metri più avanti lungo la costa. Mi presento, gli parlo, ma a stento sembra accorgersi di me: a quanto pare questa è una strategia comunicativa diffusa tra la gente di mare che vive da queste parti. Poi muove le labbra facendo calcoli tra sé e dice: “60 dollari”. Evidentemente il colombiano gli ha già detto che volevamo tirare giù il prezzo e lui rilancia alto. Ci sa fare in queste cose e io scherzando glielo dico, nel tentativo di instaurare un clima minimamente accettabile per negoziare. Ma lui continua a fare avanti e indietro sul molo, parla con altre persone, ignora le mie frasi. “Senta, se non ci vuole portare che lo dica, me ne vado e finiamola qua.” “Quanti siete?” chiede (ma lo sa benissimo). “Quattro.” “Quanti bagagli?” “Uno zaino a testa” dico io mentendo. “Gli argentini odiano i negri” dice, riferendosi alla presenza di Walter nel gruppo. “Sì, ma quello è un argentino strano, la pensa diversamente. Però il prezzo era 40.” “Cinquanta” dice lui senza lasciare le sue occupazioni. Mi girano davvero le palle: ma proprio in questo paese di stronzi dovevo capitare? penso. Vengo a negoziare i 40 dollari e torno che dobbiamo pagarne 10 in più... “Cinquanta è la sua ultima parola?” chiedo. “Sì.” “Peccato. Faccia buon viaggio.”
Torno dal resto della ciurma per riferire. Poi insieme andiamo da don Pablo a prendere un po' di informazioni (è un furbacchione, ma è un vecchio sincero e non ci metterebbe nei guai per soldi). Dice che questo Samuelito è una brava persona, che ci si può fidare. Dice che in effetti Narganà è a metà strada e che quindi l'altra metà del percorso ci costerà più o meno uguale. Con i contanti che ci sono rimasti dovremmo farcela con un discreto margine di sicurezza.
Come mi aspettavo il colombiano torna: “Ce l'hai fatta, quaranta.” Poi si lamenta del fatto che non mi sono fidato della sua parola e io gli dico che anche lui avrebbe fatto uguale. Insomma, grazie alla mia abile manovra risparmieremo zero, ma almeno partiamo e sappiamo con chi. La lancia di Samuelito si avvicina al molo per presentare i documenti al poliziotto di guardia (qui è obbligatorio lasciar traccia di dove si è passati e con chi). Noi diamo i nostri passaporti, paghiamo il colombiano in presenza di Samuelito, carichiamo gli zaini e saliamo a bordo.
La lancia è piccola, carica di barili di benzina e molto bassa sul livello dell'acqua. A bordo, oltre al capitano, ci sono due ragazzi giovani, uno dei quali è suo figlio. Io salgo per ultimo e prendo posto su una piccola tanica ed ho appena lo spazio per rannicchiare le gambe. Uscendo lentamente dal porto Samuelito è in piedi a poppa, con un piede sulla punta della barca e la cima della corda ancora in mano. Vista da dietro la sua figura imponente si staglia contro il cielo sereno come una statua di bronzo, di quelle che rappresentano la fierezza dei guerrieri. Una volta in mare aperto Samuelito si sdraia in punta a mo' di sirena e fa cenno ai ragazzi di accelerare. La velocità è altissima da subito. Uno dei ragazzi tiene con le due mani la leva del timone, direttamente attaccata ad uno dei due motori fuoribordo. Ha i muscoli tesi e un'espressione contratta in viso, batte i denti bianchissimi per il freddo e soffia forte col naso per cacciar fuori l'acqua che lo schiaffeggia onda dopo onda. Presto tutti noi ci ritroviamo fradici: l'acqua ci arriva addosso a secchiate e la pelle ci si copre di sale. Nonostante abbia chiuso i passaporti in un sacchetto di plastica, con tanto di doppio nodo, si bagnano completamente anche loro. Persino i dollari nascosti nella tasca segreta che ho cucito nelle mutande si inzuppano d'acqua.
Quattro ore più tardi siamo a Narganà, a destinazione. Salutiamo Samuelito e ci mettiamo, di nuovo, a cercare un passaggio per Puerto Obaldia. Ma per oggi niente da fare, ormai è tardi. Tocca cercare un alloggio. Dopo aver preso informazioni al solito ostello (ma c'è ancora gente convinta che siano economici, gli ostelli?) chiedo in giro se c'è qualcuno che affitta una stanza di casa sua, o qualsiasi sistemazione economica. Alla fine riesco a impietosire un cinese, dicendogli che non ci serve niente, che ci basta un tetto e un pavimento. Lui ci sistema per pochi dollari al piano di sopra di una costruzione in legno, su quattro amache legate alle travi del tetto. Altro che ostello: da qui si vede il mare (non ci sono pareti), ci si addormenta dondolando nell'aria fresca e ci si sveglia col profumo del pane che sfornano proprio al piano di sotto. Questa e altre mie manovre più o meno vincenti mi varranno da parte di Walter il soprannome di consigliori, probabilmente in riferimento al personaggio de Il Padrino, quello che tutto accomoda per il meglio.
Nel pomeriggio Rafael propone di fare una nuotata. “Possiamo andare a quell'isola, poi all'altra e poi all'altra ancora... Che bello!” dice indicando punti vicini e lontani in direzione del mare. Laura e Walter non ne vogliono sapere. Io credo che stia scherzando e gli dico “Ok, andiamo.” Nuotiamo fino alla prima isola, che vista dalla stanza sembrava vicina ma che tanto vicina non è. Quando arriviamo Rafael si tuffa di nuovo e io gli dico: “Ma davvero vuoi andare fino all'altra?” “Sì, perché, tu non vieni?” “No hombre, io mi fermo qui.”
Mentre lo guardo allontanarsi arrivano dei ragazzini con una lunga canoa di legno ad un solo remo, di quelle che usano gli “indigeni” delle isole. Iniziano a terrorizzarmi sulla pericolosità di quelle acque, su quanta gente sia stata divorata dagli squali. “Due settimane fa gli hanno portato via una gamba a un signore” dice uno, tutto serio. Sono quasi sicuro che mi stiano prendendo in giro, ma quando se ne vanno mi accorgo che Rafael non si vede più. Probabilmente è già oltre la seconda isola, oppure è uscito dall'acqua ed è nascosto dalla vegetazione. Provo a chiamarlo con tutta la voce che ho, agito le braccia, ma non si fa vivo nessuno. Così torno indietro, “Ci ritroveremo a casa” penso. Quando torno trovo Walter in una crisi d'ansia, preoccupato per Rafael. Anche lui non l'ha più visto, poi ha visto me che mi agitavo chiamandolo e... “E adesso che facciamo, Dio mio?” Cerchiamo di calmarlo, Laura e io, dicendogli che va tutto bene, che a Rafael piace nuotare, che ogni tanto gli piace stare per conto suo, “Sai come sono i tedeschi, no?” La situazione peggiora quando un vicino ci chiama e ci dice, indicando la seconda isola, che il nostro amico è là, che sta chiedendo aiuto. Indica un punto preciso, dice: “Lo vedi? Sta urlando e sta agitando le braccia.” Ma io non riesco a vederlo. Nella tragicità della situazione mi viene in mente Enzo Jannacci, che canta “Io non vedo niente, non vedo un accidente, son venuto da Como per niente.” Però inizio a preoccuparmi anch'io: dopo tutto non è che ci veda benissimo. E poi non metto in dubbio ciò che dice la gente di qua, che queste isole ce le ha davanti agli occhi da tutta la vita.
Il vicino è disposto a prestarci la canoa, mi chiede se so guidarla. “Certo” dico io. Laura siede a poppa, mentre io a prua impugno l'unico remo di legno massello, spesso e pesante, che diventa sempre impegnativo da sollevare man mano che si impregna d'acqua. Procediamo con una lentezza che sfiora il ridicolo, mentre i bambini fanno il tifo lungo tutta la costa. Tempo dopo, molto tempo dopo, siamo abbastanza vicini all'isola per vedere e per farci sentire. Ma non vediamo nessuno, chiamiamo e non risponde nessuno. A quel punto ci si avvicina un francese con un piccolo gommone: stava tranquillo sul suo veliero ormeggiato quando ci ha sentiti urlare ed ha pensato di venire a darci una mano. Gli spieghiamo la situazione e lui si offre di andare a dare un'occhiata intorno. Torna poco dopo e ci si avvicina di nuovo: “È là” dice indicando l'isola, “gli ho offerto un passaggio ma mi ha detto che vuole tornare a nuoto. Mi sembra un po' scemo il vostro amico.” Sbalorditi, ringraziamo e salutiamo. “Adesso voglio andare a vedere che cazzo sta facendo” dico a Laura. In un quarto d'ora copriamo i venti metri che ci mancavano e sbarchiamo. Faccio il giro dell'isola ma non c'è nessuno: solo palme, lattine vuote e detriti levigati dal mare. E due tombe di cemento nel centro, una della quali più vecchia e malridotta, con una croce dalle braccia spezzate e la scritta “Arrivederci Bea”. Ma Rafael non c'è. Che il francese ci abbia detto cazzate? Che se ne sia andato mentre noi arrivavamo? E come abbiamo fatto a non vederlo? Il sole sta per tramontare, il vento si alza e la corrente si fa più forte. Visti i tempi di percorrenza ci conviene tornare, se non vogliamo ritrovarci a Boston.
Rafael, che si butterebbe dalla finestra piuttosto che dar noia a qualcuno, non sa più come scusarsi. Tartaglia desolato le sue spiegazioni, col suo vocabolario insicuro. Ci spiega che è stato lì un po' a mangiare noci di cocco e a riposare, che non ci ha visti, che non era lui a chiamare aiuto, che è tornato nuotando tranquillo. A me dispiace più per il suo imbarazzo che per tutto il resto, gli dico che in fin dei conti mi son divertito con la canoa. Walter cerca di calmarsi, dice che ha avuto paura anche per noi, che il mare ci portasse via con tutta la canoa. “Walter, mi sembri mia nonna” gli dico.

A ora di cena ce ne andiamo in piazza a mangiare il pane che abbiamo comprato oggi. Ci ha attirati qui il chiasso di un impianto voce e il suono orribile di una pianola. Un predicatore sta aizzando una platea di vecchi e di ragazzini, ripetendo di continuo “Amen?” e pretendendo che tutti rispondano “Amen!”. Tutti sembrano in uno stato di trance, a un passo dal toccare con mano il divino. C'è un tale seduto accanto a me che ogni tanto mi tocca una spalla, mi guarda con gli occhi lucidi e mi dice “Dio ti chiama”.
Dondolando sull'amaca passiamo il resto della serata, scherzando un po' sui fatti del giorno (non troppo, sennò Rafael ricomincia a chiedere scusa e va avanti fino a domani mattina) e cantando qualche canzone in italiano o in spagnolo. Walter mi chiede la chitarra e, accompagnandosi sempre con lo stesso accordo, racconta delle storie da pisciarsi dal ridere.

Il mattino seguente facciamo i bagagli e alle sette siamo già sul molo, in attesa di chiunque ci porti verso sud. Alle cinque del pomeriggio siamo ancora lì, bruciati dal sole. Ci tocca passare qui un'altra notte. Inizio ad essere seriamente preoccupato per i soldi: temo che non bastino. Se non troviamo il modo di andarcene in fretta e di arrivare a un bancomat, rischiamo di rimanere a spasso per le isole.
La preoccupazione si fa certezza della catastrofe quando ci rendiamo conto che nessuno ci darà un passaggio a basso prezzo, e che per percorrere questa seconda metà del percorso ci vorrà molto più di 40 dollari per persona. Riusciamo a prendere accordi con un capitano che domani andrà verso Capurganà, in Colombia. Ci accordiamo per un “prezzo speciale” di 70 dollari per persona. Pagata l'amaca al cinese, io e Laura abbiamo in tutto 141 dollari. E se poi a Capurganà non c'è un bancomat? Sono preoccupato e non riesco a nasconderlo. Nello sconforto inizio a straparlare di soluzioni poco plausibili: costruire una piccola zattera con le taniche d'acqua, metterci sopra lo zaino, legarmela alla caviglia e andare a nuoto; comprare una canoa dagli indios e seguire la costa panamense fino alla Colombia e altre cagate così. “Perché non rubiamo quello lì?” dice Walter indicando un catamarano a vela ormeggiato poco più in là. “Perché, lo sai guidare?” gli chiedo io. “Io so guidare di tutto,” dice “l'unica cosa che non ho saputo guidare in vita mia è stata mia moglie.” Alla fine Walter ci dice di stare tranquilli, che se non dovessero bastarci i soldi ce li presta lui. Anche Rafael, più timidamente, dice lo stesso. Andiamo avanti insieme, dicono, en las buenas y en las malas. Così mi metto più tranquillo. In fin dei conti siamo pur sempre ai Caraibi, anche se ci siamo finiti contro la nostra volontà. Così io e Rafael ci mettiamo in costume, decisi a goderci il lato positivo della nostra Odissea. Prima di tuffarci dal ponte che collega le isole Corazon de Jesus e Narganà chiedo a un vecchio del luogo: “Ma ci sono gli squali qui?” “In tutti i mari del mondo ci sono gli squali” mi risponde lui, e aggiunge “Comunque no, più che altro di qua ci sono i coccodrilli.” Io e Rafael ci guardiamo: “Un altro che si diverte a prenderci per il culo!”

Sono tre giorni che mangiamo solo pane Laura e io. Con il dollaro che abbiamo a disposizione, considerato che domani dovremo comprare dell'acqua prima di imbarcarci, compriamo dell'altro pane per la cena di oggi. Rafael, che mangia e beve pochissimo, ha dato fondo alla sua scorta di crackers e biscotti. Walter invece non si fa mai mancare un pasto come si deve e ogni tanto compare con una coca cola o con un caffè in mano, e ne offre sempre un sorso a tutti. Ma anche lui sta iniziando a cambiare regime: ieri sera ha mangiato un po' del nostro pane e ha contribuito comprando una scatoletta di carne.
Prima di diventare un calciatore Walter era un ragazzo povero di Buenos Aires, che ben sapeva stare al mondo anche senza i soldi in tasca. Mi immagino che sia per questo che non si lascia abbattere dalla situazione. E immagino sia sempre per questo che non si fa mancare niente, che ha l'abitudine di spendere ciò che ha, finché ce l'ha, senza troppi calcoli. “Domani è un altro giorno. L'importante è andare avanti un poco alla volta” dice per tirarmi su di morale. E aggiunge: “Ricorda, uno scemo che cammina avanza più veloce di dieci intellettuali seduti.” Più tardi, verso le sette di sera, esce un attimo e torna con un sorriso vittorioso. Apre il trolley nero, ormai senza maniglia e senza ruote, e dice “Andiamo in piazza a vendere, mi hanno detto che si può.” Inizia a fare un inventario di magliette, pantaloni, scarpe, articoli sportivi vari: tutte cose di marca. Ci chiede un aiuto per stabilire i prezzi e poi, per farsi coraggio, canta a se stesso la canzone che i tifosi delle squadre avversarie gli cantavano allo stadio: "Bestia, hijo de puta, la puta que te repariò" (Bestia, figlio di puttana, la puttana che ti ha partorito). Poi ci avviamo. Io e Laura abbiamo trovato un po' di cose di cui ci possiamo liberare: un frisbee, due sciarpe, un paio di jeans, un cappello, un portafoglio in finta pelle. Passiamo davanti alla casa di una donna che vende artigianato locale e Walter le si avvicina. Sulle prime lei pensa che voglia comprare qualcosa e scoppia a ridere quando scopre che, al contrario, vuole vendere a lei.
A fine serata Walter incassa 40 dollari e il suo cliente principale è niente meno che Samuelito, che si è trattenuto un paio di giorni sull'isola per i suoi traffici. Io riesco a vendere solo il mio cappello per tre dollari, con parte dei quali ci concediamo il lusso di un uovo fritto da mangiare insieme al pane.

[CONTINUA...]


domenica 27 maggio 2012

Odissea nei Caraibi, capitolo I: L'attesa a Miramar

A Panama City i giorni passano nell'attesa e nella ricerca di un modo per andarcene verso la Colombia. Giorno dopo giorno mi trovo a consegnare sedici dollari al padrone dell'albergo a ore in cui abbiamo l'illusione di esserci sistemati provvisoriamente.
Poi, il quinto giorno, una via d'uscita la troviamo: un piccolo mercantile di legno dal nome Amparo ci porterà da qui a Jaqué, un paese vicino alla frontiera con la Colombia, lungo la costa del Pacifico. Là, sbrigate le pratiche doganali, troveremo una lancia che ci porterà oltre confine. La piccola nave salpa domani e noi siamo ormai in sei: oltre ad Adrian e Ligia (la coppia svizzero-brasiliana) si sono aggiunti un olandese timido e un italiano in moto. Accanto al molo, nel capannone in cui si smistano le merci in partenza e in arrivo, prendiamo accordi col capitano Salvador, un nero dai modi gentili che ci ispira fiducia: quindici ore di navigazione, venticinque dollari per persona; centocinquanta per la moto. Molto bene, appuntamento a domani alle dieci.
Ma ventiquattro ore d'attesa sono molte, abbastanza per nutrire dubbi e raccogliere nuove informazioni: troppe incognite in questo viaggio, troppe variabili fuori controllo. Cosa troveremo una volta sbarcati in Colombia, in un luogo dove non ci sono strade né, probabilmente, altri mezzi di comunicazione? E chi troveremo ad aspettarci una volta scesi dall'Amparo? Durante la notte Adrian, che ha più di cinquant'anni ed ha viaggiato molto in tutto il mondo, ha scartabellato decine di siti e blog ed è dell'idea di lasciar perdere. Anche gli altri non se la sentono. Anche noi rinunciamo. Non tanto per i pericoli legati al narcotraffico o alla guerriglia, quanto perché pare che lungo quella tratta siano diffusi i sequestri-lampo a scopo di estorsione, a danno soprattutto di turisti. Davanti all'ingresso dello stesso molo che solo ieri è stato teatro di sollievo collettivo, ecco che siamo di nuovo punto e a capo. Chi in inglese e chi in spagnolo, ricominciamo a buttar fuori idee alla rinfusa ben sapendo che non saranno praticabili. Sconsolati, Laura e io ce ne torniamo alla nostra pensione-bordello a raccogliere le idee. Ma l'idea dominante è una: andarcene. Basta Panama City. Se la costa del Pacifico non è praticabile (ed è un peccato, dato che siamo diretti in Ecuador), tanto vale andarcene dall'altra parte e vedere che opportunità si aprono. Così torniamo a cercare i nostri amici all'ostello in cui stanno e li salutiamo, promettendogli di fargli avere informazioni dal fronte orientale.

Ed eccoci qui a Miramar, l'ultimo paese raggiunto dalla strada che costeggia la costa atlantica: oltre, tra noi e la Colombia, chilometri e chilometri di selva. Da qui dobbiamo trovare il modo di andare via mare a Puerto Obaldia, l'ultimo paese panamense lungo la costa e da là, fatti i timbri di uscita sui passaporti, dovremo trovare un altro passaggio verso Capurganà, primo centro abitato colombiano.
Don Pablo, un vecchio dalla pelle nera e dai lunghi peli bianchi che gli escono dalle narici, ci ha dato  una stanza che dà direttamente sul molo: dal nostro piccolo terrazzino possiamo vedere tutte imbarcazioni in partenza e in arrivo. “C'è un mercantile in partenza,” dice don Pablo indicando un barcone verde di nome Joselin, “e va proprio a Puerto Obaldia.” Pieno di speranza mi faccio indicare il capitano, che in quel momento sta camminando sul molo verso di noi. Armato del migliore dei sorrisi gli vado a parlare: non ne vuole sapere. “Posso lavorare, caricare e scaricare” gli dico. “Un poco posso anche pagare” aggiungo. Niente. Quasi non mi guarda, continua a camminare per la sua strada come se non fossi che una scocciatura e un tormento, un po' come a volte capita di fare a certi italiani con i venditori senegalesi nel parcheggio del Brico.
Chiedo a don Pablo se c'è un Internet point nei paraggi, così da avvisare i nostri amici delle scarse novità in nostro possesso. “Eh?” dice lui, e da come mi guarda capisco che non sa di cosa sto parlando. Un ragazzino mi dice poi che l'unico Internet point è a Palenque, il primo paese più a nord, ma che a quest'ora ormai è sicuramente chiuso. Così rimandiamo tutto a domani. Facciamo due passi nel piccolo paese fino alla spiaggia, oltre la baia del molo. Sotto un telone di plastica blu, teso in malo modo a pochi metri dal mare, mangiamo un pesce fritto così buono da far scoppiare il cervello di piacere. Poi ce ne andiamo a dormire.
Il giorno dopo ci alziamo presto e lo Joseline è ancora lì. I suoi marinai continuano a dondolare sulle amache e a sfottersi a vicenda come la sera prima. Iniziamo ad imparare che i tempi della vita di mare sono fatti d'attesa, che una nave in partenza forse partirà domani, forse tra una settimana. Cerchiamo altre possibilità e don Pablo ci propone di andare con la lancia di suo figlio, ma per un prezzo decisamente alto e solo fino alla prima isola dei Caraibi, ben lontana dalla nostra destinazione. “I prezzi della benzina sono alti” dice. “Con questi soldi appena mi pago il carburante” dice. “Vedete un po' voi ragazzi.”
Verso le nove prendiamo il bus e andiamo a Palenque, in cerca dell'Internet point. Nelle strade di terra battuta che passano tra le case tutto sembra muoversi al rallentatore e i pochi rumori sembrano riverberarsi nell'aria ferma e soffocante, così umida che ci si appiccica addosso come grasso di pollo. L'Internet point è una casa uguale alle altre, però chiusa con un grosso lucchetto. Chiamiamo, bussiamo, ma nessuno risponde. Un cartello mezzo sbiadito dal sole e dalle piogge, buttato a terra nel prato, dice che il servizio aprirà alle undici: mancano quasi due ore, ma decidiamo di aspettare all'ombra del portico. Alle undici e mezza ancora non si vede nessuno. Chiedo ad un gruppo di bambini in bicicletta e uno mi dice che la signora dell'Internet si chiama Carla ed è la mamma di un suo amico. “Sì, ma dov'è?” voglio sapere io. Mi spiega più o meno dove sta la casa, così che andiamo a cercare questa Carla. La troviamo a casa con l'influenza e ci dice che la sostituirà di sicuro Elena, ma nel pomeriggio, dopo le due. Sfiniti dal sole insistente facciamo l'autostop e torniamo a Miramar, seduti nel cassone vuoto e senza finestre di un furgone Toyota.
Nel pomeriggio proviamo a contattare i nostri amici via telefono, ma l'unico apparecchio pubblico di Miramar è rotto. Così torniamo a Palenque, ma di Elena nessuna traccia. Il lucchetto è ancora al suo posto, la porta è chiusa e le finestre pure. Dopo aver cercato l'unico telefono pubblico di Palenque e aver trovato rotto pure quello, riprendiamo la nostra indagine: a quanto pare la signora Elena è introvabile, ma ci sarebbe una terza collega, Maria, momentaneamente impegnata a lavorare da un'altra parte. Un signore anziano incarica uno più giovane di accompagnarci da lei, direttamente sul posto di lavoro. Da dietro la scrivania, Maria prova a chiamare la sua collega Elena: non è in paese, ha avuto un'emergenza e oggi non verrà. Indagine finita, niente Internet. Torniamo di nuovo a Miramar a mani vuote, questa volta a piedi.
A sera cadiamo di nuovo nello sconforto. Anche se aspettare qui, accanto al mare e nel silenzio, è molto meglio che fare la stessa cosa in una città come Panama City, resta il fatto che continuiamo a pagare l'albergo e che i contanti piano piano se ne vanno. Qui siamo isolati dal mondo, totalmente dipendenti da ciò che offre il paese. Niente telefoni, niente Internet, niente bancomat, niente. E la gente non sembra molto collaborativa, non mi pare che abbia troppa voglia di aiutarci a raggiungere il nostro obiettivo di andarcene al più presto.
Il terzo giorno trascorre uguale, senza novità rilevanti. Di tanto in tanto si fa avanti qualcuno (ormai ci conoscono tutti) per offrirci un costoso passaggio sulla sua lancia privata. Ma di mercantili sui quali scroccare un passaggio neanche l'ombra. O meglio, ne è arrivato uno, ma il capitano cinese mi dice che sarà lieto di darci un passaggio quando partirà, tra due settimane. E poi ci sarebbe una barca più piccola già carica e pronta a salpare, ma il capitano ogni giorno dice: “Domani amigo, domani.”
Nel tardo pomeriggio, mentre siamo seduti sotto il portico davanti alla nostra stanza, vediamo una figura alta, una testa bionda, un grosso zaino verde avanzare lungo il molo. Il ragazzo si ferma a fare le stesse nostre domande alle stesse persone a cui le abbiamo fatte noi. Vederlo mi dà un senso di tenerezza, più che altro verso me stesso. Poi un marinaio gli indica in punto in cui siamo noi e lui ci raggiunge. Si chiama Rafael, ed è un tedesco di 25 anni appena laureatosi in fisica. Parla uno spagnolo abbastanza preciso, ma si inceppa spesso e si vede che gli costa fatica. Anche lui ha lo stesso nostro problema: arrivare in Colombia. Ma è pieno di entusiasmo e mi dispiace dirgli “Guarda, lascia stare, lì ho già chiesto io” oppure “No, quello parte tra due settimane” eccetera. E poi non sembra accontentarsi delle nostre informazioni, vuole chiedere di persona, e lo capisco. Così non gli dico niente e lascio che faccia anche lui il suo giro e che venga al punto della situazione da solo. Alla fine ci chiede se possiamo dividere la stanza per ridurre i costi, e noi ne siamo lieti. Sistemato un altro materasso per terra ce ne andiamo tutti e tre alla spiaggia e ci facciamo una sana nuotata sotto la pioggia, che ne frattempo ha iniziato a cadere fitta e pesante.
All'imbrunire, mentre camminiamo per il paese, ci viene incontro Walter. Muscoloso, tatuato su entrambi i bicipiti, occhi e carnagione scura, sulle prime lo scambio per un altro “scafista” che ci vuol portare su qualche isola per duecento dollari. Ma poi capisco che è solo un altro poveraccio caduto nella rete di Miramar. Anche a lui avranno detto: vai là, che di sicuro trovi un passaggio. Insomma, ecco che siamo in quattro, quattro scapestrati pronti a imbarcarsi per la loro Odissea nei Caraibi.

mercoledì 16 maggio 2012

Il muro di Panama

Attraversare in tre giorni il Centroamerica, dal Guatemala a Panama, è come ruzzolare giù per una montagna innevata e ritrovarsi in fondo alla valle senza ben capire come. Dico una montagna innevata perché quelli della Tica Bus non ne vogliono sapere di abbassare l'aria condizionata. È pazzesco, per entrare nel bus ti devi mettere addosso tutto ciò che hai nello zaino e questo non ti salva dall'avere il naso congelato. E quando scendi per pisciare ti si appannano gli occhiali e ti devi togliere tutto prima di svenire disidratato.
Man mano che procediamo verso sud,  passando per Honduras, Nicaragua e Costarica, abbiamo la sensazione di stare tornando indietro, verso gli Stati Uniti. Gli intonaci cascanti, imprecisi e scrostati, lasciano il posto alle superfici lisce dei grandi centri commerciali, al vetro di certi palazzi. Ma ancor più che negli Stati Uniti la contraddizione è forte se si butta l'occhio oltre la facciata, nel vicolo dietro, dove gli ultimi del luogo camminano tirando calci alla spazzatura, all'ombra discontinua degli avvoltoi.
A Panama City ci arriviamo in piena notte, alle tre. Troppo presto per aspettare mattino per strada e troppo tardi per godersi una notte di sonno: non possiamo far altro che accompagnarci ad una coppia di argentini nella stessa situazione e rivolgerci ad un taxista. In questi casi mi chiedo sempre: cosa direbbe il mio mentore, il Puffo Brontolone? Ah, già: Io ooodio i taxisti. Tanto più che gli argentini sono più veloci di noi e già hanno caricato i bagagli senza neanche chiedere quant'è. Ma ormai c'è poco da fare, tocca darglieli tutti questi dodici dollari. Dopo la prima notte nell'ostello “El casco viejo” usciamo in perlustrazione e troviamo, nel quartiere cinese, una pensione a ore tutta specchi e pareti rosa shocking che per molto meno ci dà una privata con bagno e tv. Sul telecomando c'è un pezzetto di carta attaccato con lo scotch, dice: porno=83.

L'umore è piuttosto basso. Cosa ci facciamo qui? Pensavamo di essere di passaggio, volevamo solo prendere alcune informazioni sulla possibilità di lavorare sulle navi cargo (utili per il nostro ritorno) e poi andarcene via, proseguire verso sud.
Verso il tramonto, quando il caldo molla un poco la presa, ci affacciamo al muretto che dá sulla baia del porto. Davanti a noi la skyline di grattacieli riflette le sue luci sul mare e sembra di essere a Chicago, sulle rive del lago Michigan. Dietro di noi il quartiere vecchio, con le sue forme trascurate e irregolari, il suo chiasso “multietnico” e i suoi baracchini di pollo fritto. Rinfrancati dalla brezza facciamo il punto della situazione: primo, per andare in Colombia non esistono strade; secondo, il confine è pericoloso da passare a piedi e i narcotrafficanti ti sparano nell'orecchio (questo è quello che ho capito io dal discorso in inglese di uno svizzero tedesco conosciuto all'ostello); terzo, nessuna nave, traghetto, peschereccio, scialuppa o canotto ti ci può portare; quarto, fino alla fine del mese gli aerei per Bogotà sono pieni e gli altri, quelli che vanno più giù, costano veramente troppo. Panama sembra essere un muro invalicabile.
Per il momento facciamo squadra con il suddetto svizzero e la sua compagna brasiliana, che hanno lo stesso problema. Condividiamo informazioni e scambiamo idee (questo è quello che ho capito io). Domani andremo agli uffici dell'Autorità Marittima di Panama, come mi ha consigliato di fare un tale guidatore di treni incontrato oggi sul bus. “Se c'è un modo, loro lo sanno”, mi ha detto. Staremo a vedere.

lunedì 7 maggio 2012

Dalla polvere all'amaca: il Mar dei Caraibi

Svegliati di buon ora dal caldo insopportabile di Lanquin, prepariamo gli zaini e andiamo a cercare un microbus che ci porti verso est, così da avvicinarsi poco a poco alla costa atlantica. Dopo le immancabili scene per il prezzo del passaggio (alla fine interviene un vecchio, che cazzia l'autista e pretende per noi un prezzo equo) carichiamo gli zaini sul tetto e via. Il bus ci lascia a Cahabon, tappa intermedia in cui ci mettiamo in cerca di un altro mezzo di trasporto, sempre in direzione est.  Ma scopriamo presto che non ce ne sono più per oggi: ne parte solo uno ogni giorno, dalla piazza del mercato, alle quattro del mattino. 
Fa un caldo torrido, abbiamo sete e fame, siamo stanchi per via della strada dissestata e dell'affollamento del bus. Ci mettiamo in cerca di un alloggio, così da liberarci almeno degli zaini, ma neanche questa sembra una cosa facile: camminiamo in varie direzioni, in salita e in discesa, seguendo le scarse indicazioni della gente; ma non troviamo che un albergo al completo e una pensione abbandonata. Sudati da fare pietà, incapaci di ragionare con calma, ci infiliamo allora in un comedor (locale dove si mangia a prezzo popolare e a menù fisso). Le tre donne nella cucina ci guardano come se fossimo un incrocio tra un marziano e un pagliaccio, addirittura ridono e parlano tra loro in lingua quiché, senza però mostrare accoglienza, senza gentilezza. Mi avvicino al banco e tacciono, niente "Buongiorno", niente "Cosa le porto?" 
"Questo è un comedor, giusto?" dico io, preso dal dubbio di essere magari entrato in casa di qualcuno, ingannato dai molti tavoli del suo salone. "Sì" mi risponde la più anziana.
Per farla breve, con fatica abbiamo ottenuto di ordinare carne, riso e fagioli. Ci portano anche da bere: qui chiamano acqua ogni sorta di miscuglio, dalla pepsi alle bevande solubili che servono solitamente insieme al pasto. Se si vuole l'acqua, quella vera, bisogna ricordarsi di aggiungere l'aggettivo pura. Ma io non lo faccio: ci scoliamo in un sorso il bicchierone d'intruglio rosato con ghiaccio che ci portano. La pagheremo cara, non aggiungo altro.
Comunque sia, con lo stomaco pieno si ragiona sempre meglio. Rinfrescati dall'intruglio, seccatosi il sudore, mettiamo il naso fuori e scopriamo che c'è un albergo proprio a due passi. Ci danno una stanza ampia e con due porte, una sul corridoio e l'altra sul balcone. C'è perfino un tavolo e due sedie che ci consentiranno il piacere di una partita a briscola. (ho vinto io)
Nonostante le due porte spalancate il caldo non molla la presa. Piazzo il mio letto davanti all'apertura che dà sul balcone, così da prendere più aria e da accorgermi di eventuali intrusi, ma la notte si preannuncia difficile. E' venerdì e i vicini di stanza domani non lavorano: per questo fanno baccano. Con la sveglia puntata alle tre, verso l'una riesco a chiudere un occhio, aiutato da una leggera brezza che mi passa sulla schiena. Un'ora dopo ci svegliamo tutti e due d'improvviso per lo stesso motivo: qualcuno sta urlando. Proprio sotto la nostra stanza - lo vedo senza neanche alzarmi dal letto - una decina di persone stringono in un angolo un uomo, lo picchiano, lo insultano, gli tolgono le scarpe e la maglietta. Non capisco bene il motivo della contesa, capisco solo che il capo del gruppo, quello più incazzato, ripete di continuo "Adesso succhia!" e che l'altro piange, dice no, implora di lasciarlo. Mentre due persone tengono il poveraccio fermo per le braccia, mentre quello incazzato continua a urlare "Succhia", un altro da dietro gli avvicina la sigaretta accesa alla schiena nuda. Pur cagandomi sotto mi affaccio e parlo ad alta voce con i vicini di stanza, nascosti nella penombra della loro stanza a seguire la vicenda e commentando sotto voce. Anche loro vengono fuori e mi spiegano che sono solo due ragazzi che litigano. Prendo in mano il telefono, neanche io so perché. Giù, nel gruppo, c'è un tipo con la maglietta blu e lo zainetto che fa la guardia. Ci vede. Poco dopo la situazione sembra più calma e tutti se ne vanno, forse a scannarsi un po' più in là.
La sveglia non servirà a nulla, noi siamo già svegli e vigili da un pezzo quando alle tre e mezza, zaini in spalla, andiamo verso la piazza del mercato, mica tanto tranquilli. Per fortuna c'è un po' di gente, per lo più lavoratori, che vanno nella stessa direzione. Gente che si sveglia ogni giorno a quest'ora e torna a casa che è già sera, dopo una giornata di lavoro a quattro ore di cammino da qui.
In piazza è ancora buio. Un ragazzo con la maglietta rosso-blu del Barcellona e gli stivali di gomma bianca spazza i rifiuti e li raduna in una montagna al centro della piazza. Un ragazzino sui dieci anni si arrampica sul tetto del mercato coperto per aiutare il padre a legare un angolo del telone che oggi farà ombra alla loro bancarella di frutta e verdura. Un altro ragazzino, della stessa età, si ferma a guardarlo mentre aspetta il bus che lo porterà a scuola. Laura e io ci sediamo a terra accanto a due donne indigene, anche loro in attesa con i loro sacchi di mercanzie. Passa veloce un altro ragazzino spingendo una carriola grondante sangue di un bue appena macellato. Infine, si affacciano due fari deboli e gialli dall'altra parte della piazza e tuona la voce del cobrador che urla la nostra destinazione.

E così altri bus, altra polvere sul cappello. Altro sudore, sete e mal di testa finché una lancia ci ha portati finalmente qui. E ora, qui, è un'altra storia. Tutto questo lo scrivo dondolando su di un'amaca fatta con una rete da pesca, appesa alle travi della tettoia del molo dell'Hotel El Viajero, a Livingstone. Con mezzo culo sul Mar dei Caraibi e mezzo sulla terraferma, attendo che venga l'ora di cena, per mangiare sotto questa stessa tettoia un altro di quei pesci fritti da far scoppiare il cervello. Dondolando mi godo la brezza e il riposo, prima di riprendere il viaggio.
(Riposo, poi, si dice per dire, ché stanotte alle quattro ci hanno svegliato i compagni di scuola della figlia del padrone, con una raffica di petardi. Era una sorpresa, dicono loro, per il suo quindicesimo compleanno. Vaffanculo, dico io.)

Panajachel, San Cristobal e Semuc Champey: tra mete turistiche e posti qualsiasi

Semuc Champey
Ma Laura ha ragione quando, con in mano una guida turistica presa a prestito, dice: “Siamo qua, dall'altra parte del mondo, chissà se mai ci torneremo... Almeno andiamoci a vedere questi posti!” Il nostro visto è valido ancora per alcuni giorni, quindi possiamo prendercela comoda e farci un giro, prima di fare rotta verso sud.
E così, senza navette e senza ostelli internazionali, lunedì 30 aprile andiamo Panajachel, sul lago di Atitlan. Ci sediamo accanto ai mitici moli di legno che tante volte avevamo visto fotografati, dipinti, stampati sulle magliette. Ma le nuvole non ci permettono di vedere i vulcani fare da sfondo oltre la riva opposta, e ci restiamo male. Molta gente per strada parla inglese, gli indigeni (altrove sfuggenti e diffidenti verso gli stranieri) ci sorridono e ci salutano. Lungo la strada che porta ai moli troviamo bancarelle colorate di vestiti, borse in stoffa o in cuoio, bigiotteria. Tutte cose che non possiamo caricare nei nostri già troppo pieni zaini.
La notte successiva, come per controbilanciare, la passiamo a San Cristobal, un posto qualsiasi dalle parti di Cobán. Arriviamo col buio e bussiamo al portone di metallo dell'hotel Israel, nel quale si apre uno sportellino più piccolo da cui, dietro due corte sbarre, si affaccia una ragazzina. Da queste parti sembrano essere poco abituati a ricevere turisti (e ospiti in generale), tanto che la piccola rimane come sbigottita e richiude lo sportello. Poco dopo si affaccia la madre, una giovane dalla pelle bruna e dal sorriso discontinuo, interrotto da molti denti luccicanti d'argento. Anche lei un poco sorpresa, ci fa accomodare al tavolo dell'ampio salone del suo ristorante, che a quest'ora della sera è già chiuso. “Vado a preparare la stanza” dice, e tenendosi la lunga gonna colorata con una mano sale le scale seguita da sua figlia, che intanto non ha mai smesso di guardarci di nascosto e ancora adesso, dandoci le spalle sulle scale, ci osserva con la coda dell'occhio.
Al piano di sopra ci rendiamo conto di essere gli unici avventori. Il posto è povero e decoroso, il pavimento è quasi pulito e le lenzuola profumano di sapone. Nella stanza ci sono due letti, un chiodo arrugginito per appendere i vestiti e un piccolo televisore (già acceso per far bella figura) in un angolo. Nel bagno in comune non c'è l'acqua corrente, ma un grosso bidone blu a cui attingere con secchielli più piccoli, per lavarsi e tutto il resto. Dopo esserci sistemati usciamo a fare un giro e mangiamo per pochi quetzales carne alla griglia e patate fritte in un chiosco in piazza. Passeggiando per le poche strade di questo paesino circondato dalle montagne (montagne che sono come “fantasmi neri su un fondo blu”) incontriamo due capannoni da cui escono voci tonanti, suadenti e severe allo stesso tempo: sono i predicatori dentro alle loro chiese, ciascuno dei quali parla ad un pubblico di cinque o sei persone. In giro troviamo ragazzini in bicicletta, famiglie che rincasano, coppiette che passeggiano, ubriachi che barcollano. In un negozio compriamo del pan dolce, un succo di frutta per la colazione di domani e ce ne andiamo a dormire nella fresca quiete della nostra stanza.
Laura si addormenta in fretta, non faccio in tempo a chiederle a cosa ne pensi lei. Ma io mi sento molto più a mio agio a San Cristobal, un posto qualsiasi e sconosciuto, che tra le bancarelle, la musica e i locali di Panajachel, sul lago di Atitlan.


La mattina dopo prendiamo posto su un bus in direzione Semuc Champey, la nostra prossima meta. Semuc Champey in lingua quiché significa “dove il fiume si nasconde nella montagna” o qualcosa di simile. È un luogo sperduto nel profondo della selva guatemalteca in cui, appunto, il fiume Cahabón passa per un tratto attraverso una grotta, sotto terra, mentre contemporaneamente al di sopra forma delle pozze di acqua verde e limpida nelle quali ci si può tuffare a volo d'angelo. Accanto a me, appoggiato sul pavimento del bus, c'è un grosso cesto da cui spunta la testa rossa di un tacchino. Me ne accorgo solo dopo qualche minuto di viaggio, quando ci giriamo, il tacchino e io, contemporaneamente l'uno verso l'altro, trovandoci occhi negli occhi. Il bus intanto percorre la strada sterrata, scendendo il versante di una montagna per arrampicarsi poi su quella successiva e così via, per un numero di volte di cui perdo il conto.

Dopo tutto un giorno di viaggio arriviamo a Lanquin, a un passo dalla meta. E proprio a Lanquin, cadiamo in trappola. La saggezza ci suggerisce di fermarci per la notte e di inoltrarci solo domani verso il parco naturale, che sta a circa 12 Km di distanza. Ormai lo abbiamo imparato: meglio stare lontani dalle attrazioni turistiche; meglio appostarsi a una certa distanza, preparare l'attacco e poi “mordi e fuggi”. Ma scendendo dal bus c'è un tale ad aspettarci, forse avvisato dall'autista che ci ha portati fin lì. Il tale lavora per l'ostello El Portal, proprio a ridosso del parco naturale, e ci offre, se decidiamo di alloggiare dal suo datore di lavoro, il passaggio gratis sia all'andata che al ritorno. Il costo della stanza non è alto, anzi. Insomma: più per stanchezza che per ingenuità ci lasciamo convincere a salire sul cassone del motocarro, sul quale affrontiamo in piedi una sterrata anche peggiore di quelle viste fin lì. Al nostro arrivo ci sentiamo catapultati, che ne so, in Norvegia: mai in vita mia ho visto tante persone bionde tutte insieme come sotto la veranda del bar del Portal.
Tralasciando il fatto che non si capisce bene il senso di dormire in palafitte di bambù a due passi dalle case in muratura degli indigeni, devo dire che la loro strategia funziona bene: loro (quelli del Portal, maledetti) ti portano lì e dopo tu non te ne puoi andare in giro da solo, non hai energia elettrica per scaldarti le tue brodaglie o per mettere in fresco la tua acqua, non ci sono negozi dove comprare viveri... Insomma: se vuoi mangiare, bere o spostarti ti devi rivolgere alla reception, dove c'è un tizio che scrive il tuo nome sul suo quaderno e, sotto al tuo nome, mette in colonna i numeri: “Don't worry! You pay later” ti dice. E così, per evitare di scialacquare i nostri risparmi in un modo così indegno, il giorno appresso, dopo una serata di giochi da tavolo in mezzo a teste bionde, parlando con fatica un inglese che già non dominiamo più, andiamo a visitare il parco e ci facciamo riportare a Lanquin.
Prossima meta: Mar dei Caraibi.

Sul fiume a Semuc Champey (foto di Laura)

domenica 6 maggio 2012

Di nuovo in viaggio: Turisti fai da te in Guatemala

Foto di Laura Pelliciari
Nei tre mesi passati nella capitale abbiamo imparato la lingua quel tanto che basta a capire e a farci capire. Abbiamo anche imparato parte delle abitudini, i tempi del mangiare, i modi di dire e fare dei chapines (così i guatemaltechi definiscono se stessi). Ma le nostre facce sono rimaste dello stesso diverso colore di prima, a parte quel po' di abbronzatura. Con i ragazzi del Mojoca era diventato una specie di gioco: c'era uno, per esempio, che per farmi incazzare mi diceva “Ehi, gringo!” “Non sono un gringo” gli rispondevo io (i primi tempi convinto, poi divertito, alla fine un po' stanco). “Ehi, italiano che sembri gringo!” mi diceva lui allora.
In città ormai avevamo il nostro giro: la spesa alla Despensa Familiar, la fornaia, il macellaio... Tutti ci conoscevano, almeno di vista, e avevano smesso di tentare di fotterci, sparando per una libbra di patate prezzi doppi o tripli di quelli normali. È stato faticoso, ma alla fine ci eravamo lasciati alle spalle lo status di turista e avevamo conquistato quello di straniero. Alcuni erano curiosi di noi, cercavano la conversazione, volevano sapere da dove venivamo e com'è la vita dalle nostre parti.

E ora siamo punto e a capo: in viaggio con gli zaini in spalla e la chitarra siamo lo stereotipo preciso del turista da spolpare come un osso di pollo. Se non altro io ho abbandonato il mio cappello da scemo (il mio amico Edo lo chiamava “il cappello da Terence Hill” e forse questa notizia gli dispiacerà). L'ho regalato a Mefi, uno dei ragazzi che hanno partecipato al laboratorio di rap e che, per come mi ha guardato mentre glielo davo, non credo lo metterà mai. Ma nonostante il mio nuovo e guatemalteco cappello il copione si ripete sempre uguale, ed eccone un esempio:
“Quanto costa il passaggio per el Quiché?” chiediamo ad almeno cinque o sei persone intorno alla stazione dei bus.
“15 Quetzales per persona” è la risposta di tutti.
“Quanto costa il passaggio per el Quiché?” chiediamo infine al cobrador (il tale che si occupa di raccattare e stipare a bordo più gente possibile).
“40 per persona” dice lui.
Tra i cobradores alcuni hanno talento e non tentennano neanche un attimo: ti guardano appena e ti dicono il tuo prezzo con la massima naturalezza. Altri invece si soffermano più a lungo, come pesandoti, calcolando a occhio quanto ti possono rubare (inutile rivolgersi all'autista, suo socio e complice). È una situazione complicata quella dei trasporti collettivi, anche perché sulle prime il cobrador finge di non aver sentito la domanda, afferra lo zaino e lo butta sul tetto del bus, tra i sacchi di verdure, le biciclette e la ruota di scorta. Quindi, alle volte, c'è anche da opporre resistenza in senso fisico... Per fortuna la gente quasi sempre ci aiuta ed ha la pazienza di spiegarci le cose come stanno, con il fare di quei genitori che si scusano per le marachelle di un figlio discolo ma pur sempre amato.
Tutto questo può essere divertente, come quella volta che ho fatto l'offeso e alla fine, in cambio del mio perdono, abbiamo pagato meno noi degli altri. Però alla lunga è estenuante dover sempre dubitare di quel che ti dicono, interpretare gli sguardi, giocare d'anticipo e d'astuzia. Ma è questa l'esperienza che abbiamo voluto fin dall'inizio: conoscere la fatica dell'integrazione. Volendo, esistono navette che ti portano da un'enclave turistica all'altra, paradossalmente "senza dover mai passare per il Guatemala". Ti portano dalla Sesta Avenida della capitale ad Antigua, da Antigua a Panajachel, sul lago di Atitlan. E poi al mare, o dovunque ti pare, senza mai dover smettere di parlare inglese con altri occidentali o di usare – spesso – la tua American Express.
Non me la sto tirando per aver passato nove ore al giorno degli ultimi sei giorni a riempirmi di lividi sui bus, viaggiando su strade dissestate, seduto (ad andar bene) su sedili sfondati, prendendo capocciate sui vetri per via delle buche e facendomi venire il torcicollo per controllare se quelli che viaggiavano sul tetto mi stessero o meno rubando lo zaino. E neanche voglio intendere che sia un pirla colui che spende i suoi soldi per farsi portare direttamente nella cartolina. Voglio solo dire che sono davvero due esperienze diverse, e dovrebbero avere nomi diversi. Ma se quello delle cartoline si chiama turismo, ancora non so come chiamare il nostro fermarci e ripartire in un singhiozzo irregolare.