mercoledì 17 luglio 2013

Stiamo arrivando. Forse siamo già lì!

Quel pomeriggio di giugno me ne stavo seduto sui gradini d'ingresso del Viet Lotus Hotel a fissare la pioggia. Una pioggia battente che, sul centro di Hanoi come su tutta l'Indocina, avrebbe continuato a scendere per i prossimi tre mesi. Ma non era affar mio, questo lo sapevo: l'indomani Laura e io saremmo partiti in treno per il confine cinese e presto avremmo cambiato latitudine, orizzonte e stagione.
Non so da quanto tempo fossi lì, mi ero semplicemente imbambolato e quasi non sentivo più i clacson e lo sciabordare dell'acqua sotto le ruote dei taxi. Il traffico continuava nel suo solito tenore; la gente mi passava davanti agli occhi nelle mantelle colorate, in bici, a piedi o in motorino. Ma io non vedevo i dettagli, non percepivo ogni passante come un individuo. Vedevo solo macchie liquide di colore.
Una donna camminava lungo il marciapiede dall'altro lato della strada. Non so perché misi a fuoco proprio lei. Procedeva senza schivare le pozzanghere, avvolta nella sua mantella nera. La sua faccia rimaneva nell'ombra del cappuccio e non riuscivo a darle un'età, non potevo dire se fosse bella o brutta. La vidi attraversare la strada proprio all'altezza in cui mi trovavo io, senza guardare a destra o a sinistra. Veniva verso di me e ora potevo vederle il viso: aveva un'espressione che giudicai saccente, di quelle facce che hanno le persone che la sanno lunga e stanno per rivelare, a te che non capisci un cazzo, come gira il mondo.
Mi si parò davanti e io mi sentii subito in imbarazzo. Ero anche irritato per esser stato privato del mio status di osservatore e per il fatto di dover ora partecipare a una qualche conversazione.
“Hello.” dissi.
“Non mi riconosci?” mi rispose in italiano, mentre la sua mantella nera mi gocciolava sui piedi bagnandomi i sandali.
La guardai più attentamente: non mi ricordava proprio nessuno. E poi, pensai, mi sarei ricordato di un'asiatica che parla italiano. Diventai diffidente, come sempre. Pensai che il gestore dell'albergo le avesse detto che ero italiano e che, col pretesto di quella lingua imparata chissà come, avessero ordito un piano per abbindolarmi e derubarmi.
“Non credo che ci conosciamo.” dissi.
“Sicuro che non ci siamo visti prima?”
“Assolutamente sicuro.”
Rimasi in silenzio. Toccava a lei ora: doveva dirmi chi era. Oppure poteva spremersi in un sorriso imbarazzato, se ne era capace, e dirmi che si era sbagliata. Invece avvicinò le labbra al mio orecchio. La sua mantella mi gocciolava addosso, bagnandomi i pantaloni e la maglietta. Mi sussurrò il suo nome.
“Non conosco nessuna Lara” dissi.
Roteò gli occhi verso l'alto, tra il divertito e lo spazientito.
“Non Lara, Lora!”
“Nemmeno.”
“Ma allora sei proprio stupido! L'ora! ELLE-APOSTROFO-ORA.”
Ma certo, l'ora! Sapevo che sarebbe arrivata e adesso che ci pensavo aveva ragione lei: ci eravamo già incrociati. Ma ogni volta avevo trovato un pretesto per evitarla, infilandomi in un negozio all'ultimo momento, attraversando la strada, o cacciando la testa sott'acqua. L'ora di tornare a casa...

Quando la donna sparì (quando tornò a non esistere) rimasi a riflettere. Passai un momento difficile su quel gradino. Mi accorsi che un'ombra si era allungata su di me, silenziosa, senza che me ne fossi accorto. Qualcosa si era rotto, una luce s'era spenta da qualche parte e io non trovavo l'interruttore. Non avevo nemmeno in tasca un fiammifero. Buio.
Iniziai a farmi delle domande, a darmi delle risposte. Non ero andato fin là per ammalarmi di un male che mai in vita mia mi aveva sfiorato. Non avevo attraversato mezzo mondo per sentirmi oppresso come quand'ero un uomo bloccato nel traffico e avevo un orologio al polso.

Immaginate di essere stati a una festa di matrimonio. Avete mangiato e bevuto a volontà, senza badare al portafoglio né al fegato, e ora siete stanchi ma soddisfatti, pronti per tornare alla normalità e ricordarvi di questo giorno magico. Entrate in casa e quando accendete la luce tutti i vostri amici sono lì, con dei cappellini buffi in testa: “Sorpresa!” Vi eravate dimenticati che oggi è anche il vostro compleanno ed è appena cominciata un'altra festa. Intorno a voi c'è musica, c'è da bere e da mangiare, ma voi avete altro per la testa.
È più o meno così che mi sentivo in quel momento. Pensai che sarebbe stato uno spreco continuare ad attraversare paesi e continenti senza riuscire a vedere più niente, senza avere fame.

Tornai dentro e ne parlai con Laura. Anche lei era stanca; aveva raggiunto un livello d'entusiasmo minimo e non aveva certo la forza per risollevare il mio, fisiologicamente più basso. Cercammo di ragionare insieme, mettendo su un piatto della bilancia il nostro progetto (non ufficiale ma nemmeno segreto) di tornare a casa via terra attraversando la Cina, la Mongolia, la Russia, eccetera. Oltre alle infinite traversate c'erano anche da considerare i problemi relativi ai passaporti e ai visti: tutti guai che solo un anno prima avremmo affrontato con spirito d'avventura e che ora ci sembravano solo insormontabili rotture di coglioni. Sull'altro piatto della bilancia ci abbiamo messo la stanchezza e la voglia di essere a casa, tra le nostre cose e i nostri cari. E la voglia di tornare ai nostri progetti, alle migliaia di cantieri aperti con la fantasia negli ultimi due anni alla voce “Quando torneremo...”

Se il nostro viaggio era un cerchio, quel cerchio andava chiuso. Su questo non avevamo dubbi. Forse l'errore era stato pensare di doverlo chiudere sulla carta geografica, mentre bastava farlo nella nostra testa.
Ci abbiamo messo un altro mese a fare di quelle sagge parole un'intenzione, e infine un'azione. Ormai avevamo il visto per la Cina, e la Cina era ciò che avevamo aspettato per tanto tempo. E poi, poteva anche darsi che la Cina stessa ci avrebbe rigenerati, che ci avrebbe ridato le energie e la voglia di farci frullare ancora sugli autobus, di farci stipare nei vagoni di terza classe, di passare notti insonni in stanze troppo calde.
Ma non è successo. A Xi'An, nella lussuosa suite di un ostello (!), il giorno del mio compleanno, abbiamo messo uno stop a tutti i se e a tutti i ma. Abbiamo comprato un biglietto aereo. Per Mosca? Per Berlino? Parigi, Londra, Riga, Helsinki? No. Per Milano. Tutte le altre sarebbero state inutili consolazioni simboliche di cui non avevamo più bisogno. Tanto valeva avere il coraggio di tornare, così come avevamo avuto quello di partire. Appena la compagnia aerea ha confermato l'ordine via e-mail abbiamo iniziato a ridere come due scemi. Due scemi contenti.


Stiamo arrivando. Forse siamo già lì!

domenica 14 luglio 2013

Ultime da Pechino: tenetevi pronti

Leo, il mio collega cinese in Nuova Zelanda, mi aveva descritto la Cina come un paese sovrappopolato, caotico ai limiti dell'invivibile. Lui veniva da Pechino ed evidentemente non era mai stato al Sud. Probabilmente frequentava poco le remote zone di provincia, così come io non sono mai stato in Sardegna o in Basilicata.
Qui ad Anyang, come a Hekou, la tranquillità regna sovrana. Il traffico è più che sostenibile, fatto più che altro di biciclette elettriche, e ogni individuo ha il suo spazio. Non c'è certo da sgomitare per camminare sui marciapiedi o per entrare nei negozi.
Ci rimaniamo cinque giorni, in attesa del treno per Pechino. Trascorriamo il tempo nell'ozio, nella spaziosa stanza del 7 Days Inn o camminando per il quartiere. Stiamo bene: ci sentiamo a nostro agio nella quiete e nei ritmi lenti di una città che non ha motivo di correre.
Mangiamo quasi sempre ravioli al vapore in un ristorante dietro l'angolo: è il nostro organismo che ce lo chiede. Basta schifezze. Basta esperimenti ai suoi danni. La cuoca è molto gentile con noi. Ci lascia sbirciare nelle padelle in modo che possiamo indicare il ripieno che preferiamo: funghi, carne, verdure... perché, ovviamente, qui nessuno parla inglese e noi il cinese non l'abbiamo certo imparato in due settimane.
La gente è curiosa di noi, ancor più di quanto lo siamo noi di loro. L'ultimo giorno di permanenza lasciamo libera la stanza e ci sediamo sui divani della hall, in attesa che sia ora di andare a prendere il treno. Due uomini e una donna si avvicinano, ci guardano, parlano di noi tra loro. Poi si siedono vicino a noi e ci fanno delle domande, ma noi non capiamo niente e glielo diciamo, in un'altra lingua. Quelli allora vanno avanti argomentando qualcosa sul fatto che noi non capiamo niente e via così. Per darci un taglio chiedo a Google di tradurre per me: “Io non capisco il cinese.” Mostro il display del telefono a uno dei due uomini e quello fa capire che non mi devo preoccupare. Ma poi, come se si fosse già dimenticato di quanto ha appena letto, prende in mano il mio cellulare e inizia a farmi altre domande, immagino riguardo a certe funzioni che anche lui vorrebbe avere sul suo enorme smartphone. È imbarazzante e divertente al tempo stesso. Più imbarazzante che divertente a dire il vero. Prendo dalla tasca dei pantaloni il mio taccuino per annotare quanto quella situazione sia imbarazzante e li ritrovo tutti e tre alle mie spalle, a commentare la mia scrittura, così strana ai loro occhi.

Che Leo non dicesse il falso l'avevo capito già alla stazione di Xi'An e sul treno che ci ha portati fin qui. Ma è alla stazione di Pechino capisco esattamente cosa intendeva. Non credo di essere in grado di descrivere la quantità di esseri umani che brulicano, si muovono, si scontrano. Più di un formicaio, più di una miriade. Un puttanaio insomma.
Appena scesi dal treno non possiamo che seguire la fiumana, che rallenta sempre più fino a fermarsi. Ma noi non sappiamo perché: non riusciamo a vedere oltre le centinaia di teste che abbiamo davanti. Lo scopriamo quando viene il nostro turno: non è altro che un ordinario imbottigliamento all'imbocco delle scale del sottopassaggio.
La metropolitana di Pechino è moderna e ben sviluppata: 14 linee, treni ogni 3-4 minuti nelle ore di punta e ottimi collegamenti. Ma non basta per avere la certezza di riuscire a entrare nel vagone.
Questo capita anche a Milano, è vero, anche se non esattamente allo stesso livello. Ciò che a Milano non succede, però, è di trovarsi imbottigliati nei sottopassaggi di raccordo tra una linea e l'altra, di metterci dieci minuti per raggiungere una scala mobile.

Piede sinistro, piede destro. Un centimetro alla volta. Il tale che cammina accanto a me non guarda nemmeno dove va, si lascia portare dalla corrente mentre legge e scrive messaggi sul suo telefono. Probabilmente vive questa scena tutti i giorni. Anche quello accanto a lui ha il telefono in mano, anche quello davanti. Praticamente tutti hanno in mano il cellulare, appoggiato alla schiena della persone che li precede. Sento qualcosa di freddo toccarmi il collo, penso sia un insetto, mi giro di scatto: è quello dietro e mi guarda indispettito. Quasi gli facevo cadere il telefono.
Ci muoviamo tutti in modo meccanico, con lo sguardo altrove. I piccoli passi di centinaia di piedi mi fanno tornare in mente i bambini di Another Brick In The Wall, il video dei Pink Floyd, che alla fine finiscono nel trita-carne. Oppure si ribellano e distruggono tutto.

A Pechino troviamo anche il tempo di fare il nostro dovere di turisti: Muraglia Cinese, Città Proibita e Piazza Tienanmen. Fatto, fatto, fatto.
La stanchezza ha raggiunto livelli mai visti. Bisognerà farci qualcosa, e una mezza idea ce l'abbiamo già. Tenetevi pronti.


sabato 13 luglio 2013

Kunming-Anyang: la Cina in treno

A Kunming, capoluogo dello Yunnan, trascorriamo circa cinque giorni. Giorni oziosi fatti di brevi passeggiate, chiacchiere da ostello con altri viaggiatori e pasti consumati sui marciapiedi, ai tavoli di ristoranti improvvisati che offrono carni alla griglia, riso, noodles e ravioli al vapore.
Più o meno lo stesso copione si ripete a Xi'An, una città antica (più di 3100 anni di storia), capoluogo dello Shaanxi. Solo che qui la questione alimentare si risolve in ristoranti al chiuso, in cui sperimentiamo pietanze mai viste prima. Costante è la difficoltà di comunicazione, che ci porta a non sapere mai con certezza cosa abbiamo ordinato e ad affidarci alla fortuna e alla buona fede di chi ci sta servendo.
Kunming e Xi'An. Due grandi città, due capoluoghi. Iniziamo a sentire il richiamo della provincia, del posto tranquillo. Siamo diretti a Pechino, la Grande Capitale, ma nulla ci vieta di fare una tappa intermedia. Così, consultata la mappa delle ferrovie, scegliamo Anyang. Una città di una certa rilevanza storica, ma luogo di scarso interesse turistico, in cui non c'è motivo di andare. È il luogo che fa per noi.

Il vasto piazzale della stazione di Xi'An è affollato di gente che si muove in tutte le direzioni. Attraversarlo vuol dire muovere piccoli passi, schivare di continuo, non lasciarsi scoraggiare dalle urla e dalle spinte di chi, senza guardarci in faccia, vuole passarci oltre. Nella confusione generale capiamo che c'è una lunghissima coda da fare per entrare nella stazione. Uno alla volta si passa accanto alla guardiola, dalla quale un poliziotto ammette solo le persone munite di biglietto. È una seccatura, ma se non lo facessero la stazione rimarrebbe semplicemente bloccata. Una volta dentro, infatti, siamo come due pesci in un acquario troppo piccolo. Sono solo le 19:00, il nostro treno è in partenza alle 21:30 e non ci resta che fare come tutti: scegliere un punto a caso del pavimento, sederci sugli zaini a guardare i piedi della gente schivarci e farsi strada nella corrente.
Verso le 20:00 il numero del nostro treno compare sul tabellone luminoso. Ci mettiamo in coda. C'è già molta gente accampata sul pavimento: pochi hanno avuto la fortuna di trovare una sedia libera. Qualcuno mangia, qualcun altro gioca a carte. Famiglie, gruppi di amici, anziani con grossi sacchi di iuta al seguito. Ci sediamo di nuovo sugli zaini ad aspettare che aprano le porte metalliche e che ci facciano accedere al binario. Accanto a noi una mamma fa fare la cacca al proprio bambino nel piatto in cui ha appena finito di mangiare. Abbandonerà il tutto con noncuranza sotto il sedile sul quale è seduta. Alle 21: 20 la calca si serra a ridosso delle porte, ma quelle non si aprono. Venti minuti più tardi, mentre sto fissando il piccolo fazzoletto di pavimento libero davanti ai miei occhi, sento un boato. Il tabellone luminoso comunica che il treno partirà alle 22:20. Manca l'aria e fa caldo, ma non c'è molto da fare.

Nel salire sul treno mi trovo faccia a faccia con un tale. Ha un grosso sacco di iuta caricato su una spalla e  un ventilatore, con piantana e tutto, nell'altra mano. Io ho il solito zainone sulle spalle, lo zaino piccolo sul davanti e la chitarra in mano come Toto Cutugno. Siamo all'entrata del vagone, già affollato di viaggiatori. Non ci passiamo. Le persone in fila dietro di me si bloccano sui gradini e mi spingono in avanti; l'uomo col ventilatore mi spinge indietro. Per farla breve, faccio l'errore "culturale" di indietreggiare. Mi troverò a percorrere un intero vagone in retromarcia, ad impigliarmi nella maniglia di una porta e prendere a zainate praticamente tutti i passeggeri, più divertiti che infastiditi dalle mie goffe manovre. L'uomo di fronte a me continua ad avanzare, io non trovo un'ansa nella quale ritirarmi e alla fine non mi resta che spingere anch'io, spremermi contro quel tale e contro la gente ai lati finché non riusciamo a sgusciare via, ognuno nella sua direzione. Se l'avessi fatto subito avrei evitato di congestionare il traffico e di passare per ridicolo, dato che non mi sembra essere una questione di educazione. La gente è semplicemente troppa e lo spazio troppo poco: per starci non c'è altro modo che stringersi. Stringersi molto.

Ripercorro il vagone e raggiungo Laura, che ha già preso posto. Noi siamo fortunati: per quanto i sedili siano scomodi e angusti, noi abbiamo i posti assegnati. C'è talmente tanta gente che si sposta in treno che, nonostante la rete sia moderna e ben sviluppata, vengono venduti più biglietti di quanti siano i posti a sedere: i cosiddetti posti "in piedi". Noi abbiamo comprato i biglietti con cinque giorni di anticipo ed erano gli ultimi due sedili rimasti su questo treno. Ci sarebbero i vagoni con le cuccette, o altri con sedili più grandi e reclinabili, ma i posti erano esauriti per settimane.

Seduta di fronte a noi c'è una ragazza che parla un po' di inglese. Ci offre delle piccole prugne e vuol fare un po' di conversazione. Siamo gli unici stranieri nel vagone (e forse in tutto il treno) e la gente è curiosa. Molti chiedono alla ragazza da dove veniamo: "Yìdàlì" risponde lei, e quelli annuiscono guardandoci.
Abbiamo tutta la notte davanti. Molte donne hanno comprato un solo biglietto e tengono in braccio i loro bambini. Finiranno col dormire per terra e lasciare il sedile ai figli. C'è gente seduta sul pavimento lungo tutto il corridoio, gente davanti ai bagni, gente sui gradini, gente sulle soglie, gente che dorme in piedi accasciata sui poggiatesta dei sedili.
Ma non uno screzio. Non un litigio. Solo tanta pazienza. Ogni volta che qualcuno deve andare in bagno tutti si svegliano e senza dire beh si alzano, lasciano passare, si risiedono. Lo stesso al passare del carrello dei cibi o ad ogni stazione, quando scendono e salgono i passeggeri con le loro valigie. Quando a scendere è un passeggero che aveva un posto a sedere, le persone usano quel sedile a turni, comunicando i cambi con semplici sguardi.
A me manca un po' il respiro. Sono seduto tra Laura e una signora con la figlia in braccio; posso appena muovere i piedi di qualche centimetro, incastrato come sono tra le gambe degli altri, i bagagli, la chitarra... E poi le sigarette, anche se il cartello dice che non si può. Certo, le persone vanno a fumare nello spazio tra un vagone e l'altro, ma che differenza fa? L'aria è pesante e non c'è altra soluzione che aspettare con pazienza l'indomani mattina.

Ci sveglia un sole pallido pallido. Una luce grigia illumina il vagone. Il treno entra nella stazione di Anyang alle otto del mattino e la gente ci aiuta a caricarci gli zaini in spalla, ci fa spazio per uscire. Lasciamo loro altri due posti liberi da spartire.
Per prima cosa compriamo il biglietto per Pechino, con largo anticipo, determinati a viaggiare di giorno e su un sedile comodo. Ma tutto ciò che troviamo, dopo un'ora di coda allo sportello, sono due posti come quelli che abbiamo appena lasciato, per un treno che parte quattro giorni dopo.

mercoledì 10 luglio 2013

Siamo onesti: siamo ipocriti

La piazza del centro di Kunming è un enorme monumento al capitalismo più genuino, quello entusiasta degli albori, che ancora non ha imparato a mascherarsi dietro i banchetti per le adozioni a distanza, o a scaffali di prodotti biologici. Una zona a traffico limitato assediata da decine di banche, luccicanti centri commerciali, fast food americani.

Proprio in uno di quei fast food ci eravamo rifugiati, presi da fame improvvisa. (D'accordo: che senso ha andare in Cina per poi mangiare da McDonald? E soprattutto, che senso ha mangiare da McDonald? Ma mettiamo per un attimo da parte gli integralismi. Un occidentale, per quanto dica peste e corna dell'Occidente – seduto sulla poltrona di casa sua – sente poi bisogno dell'Occidente quando i punti di riferimento vengono a mancare. Come un bambino abbandonato torna sempre, anche se con rancore, a cercare i suoi vecchi, così l'occidentale, almeno una volta al mese, si trova a cercare conforto tra le braccia tossiche della Grande Distribuzione).

Inizia a piovigginare e stiamo per tornare verso l'ostello. Verso l'uscita della piazza c'è una ragazzina, in piedi accanto a una fioriera. Ha una frangia di capelli dritti come spaghetti che le copre completamente gli occhi, un paio di jeans e uno zainetto dagli spallacci lunghi che le poggia sul sedere. Non ne ho mai letto uno in vita mia, ma mi fa pensare a un personaggio di un manga giapponese. Con lei ci sono un uomo e una donna che potrebbero essere i genitori. Lui, in una polo lilla, preme dei tasti su un piccolo lettore mp3 e fa partire la base di una canzone cinese. Il suono esce pulito e potente da un amplificatore poggiato sul lastricato, al qual è collegato anche un microfono. L'uomo attacca a cantare sulla base con una voce impostata e vibrante, con la sicurezza di chi conosce il proprio lavoro a memoria. Solo sugli acuti mi sembra che stoni un poco, ma ciò nonostante i passanti iniziano a radunarsi intorno ai tre e sembrano entusiasti. La donna inizia una danza armoniosa e saltellante, facendo svolazzare la larga gonna. La gente deve arretrare un poco per lasciarle spazio e le fa cerchio intorno.
Alla fine della prima canzone i due adulti sembrano incitare la ragazzina a cantare. Lei non reagisce. Non dice nulla; non scuote la testa per dire no, non prende il microfono per dire sì. L'uomo canta una seconda canzone. La donna ricomincia a ballare. Qualcuno, prima di andarsene, lascia una banconota nella custodia floscia dell'amplificatore.
Finita la seconda canzone prende il microfono la ragazzina. Ora è chinata a terra, con il lettore mp3 in mano. Inizia a cantare tenendo la bocca lontana dal microfono, seguendo la voce originale di una canzone. Canta bene, comunque: soave e intonata. Penso che forse è agli inizi e sta prendendo coraggio. Alzo lo sguardo per vedere le facce di quelli che forse sono i suoi genitori: saranno fieri? Commossi? Severi?
Sono semplicemente spariti. La musica smette d'improvviso, come se avessero tagliato i fili della corrente. Vedo la ragazzina discutere con un tipo sui trenta, in camicia bianca e scarpe lucide, che nel frattempo sta chiamando qualcuno dal suo gigantesco smartphone. Compaiono delle guardie private e la ragazzina raccoglie di corsa la strumentazione. C'è la polizia poco distante, quella vera. Gli agenti chiacchierano distrattamente al chiuso di una piccola stazione di controllo, ma non sembrano occuparsi di queste cose. Le guardie private, appurato che la musica è cessata, lasciano stare la ragazzina e partono alla ricerca dei due adulti (che ormai saranno lontanissimi).
Nel silenzio lasciato dall'amplificatore spento mi accorgo che c'è altra musica nell'aria, proveniente da altri angoli della piazza. Altre voci di bambini, anche quelle troncate una ad una al passare delle guardie.
Alcuni minuti più tardi la ragazzina dalla lunga frangia si riunisce ad altri bambini, quasi tutti più piccoli di lei. In tutto sono poco meno di una decina, alcuni con un amplificatore caricato sulla schiena, altri con un microfono in mano. Confabulano tra loro e decidono che è meglio andarsene di lì.

Mettete pure, accanto al banco dei prosciutti, un banchetto per adottare (si intende a distanza) un tenero negretto del Burkina Faso (ma dov'è il Burkina Faso?). Ma non metteteci sotto gli occhi i bambini poveri del quartiere. Quelli non sono teneri. Quelli ci ricordano chi siamo stati ieri e chi siamo veramente oggi.

sabato 6 luglio 2013

Da Hekou a Kunming, the Toilet Experience

Lasciamo la desolata stazione di Hekou in tarda mattinata. Il bus scivola dentro a un'autostrada nuova di zecca: asfalto regolare, guardrail e arredi impeccabili, stazioni di servizio immacolate e deserte. Intorno a noi coltivazioni a perdita d'occhio, terra rossa e terrazzamenti. 
C'è un rumore fastidioso a bordo, una specie di beep intermittente che comincia di quando in quando. Inizialmente i beep sono distanti l'uno dall'altro, ma si fanno progressivamente più frequenti, fino ad essere quasi un suono continuo, per poi scemare di nuovo e scomparire. Si tratta di un marchingegno che, oltre a perforare i timpani della gente, serve all'autista per sapere dove sono i controlli della velocità. Ma potrebbe anche farne a meno, dato che questi controlli sono ovunque.
A parte quel suono fastidioso, non mi sembra vero di viaggiare ad una velocità accettabile, su una strada dritta e priva di buche, senza sorpassi, sbandate e brusche frenate. Ma la festa dura poco, perché l'autostrada è interrotta (forse non è stata ancora completata). E allora è all'autista che non sembra vero di potersene finalmente infischiare dei controlli e lasciarsi andare a sorpassi, sbandate e inchiodate a suo piacimento.
Inizialmente passiamo attraverso una città dalle decine di semafori, tutti rossi, a distanza regolare l'uno dall'altro. Poi, appena fuori dalla zona urbana, l'asfalto viene a mancare per un po' ed è come essere in barca. In mezzo alla tempesta. A un certo punto rimaniamo bloccati in un ingorgo, in attesa che una gru rimuova un enorme pannello pubblicitario crollato in mezzo alla strada.
Il nostro autista, va detto, è proprio uno stronzo e ce la mette tutta per rendersi antipatico. Se c'è una coda, lui sente il dovere morale di occupare l'altra corsia e sorpassare tutti. Se c'è un valido motivo per rallentare, lui accelera. Poi inchioda.

Finalmente una sosta: mi serve un bagno e sto morendo di fame. Ancora non lo so che risalirò sull'autobus con la pancia vuota e con la vescica piena, pur avendo pagato sia per il pranzo che per l'entrata al bagno. Laura non ha appetito, dice. L'ultimo tratto di strada le ha dato la nausea e preferisce rimanere a bordo.
Ad un lato dello spiazzo, delimitato da costruzioni fatiscenti e spazzatura, c'è una piccola mensa. C'è poco tempo e la gente si accalca in una coda cinese: chi si impone sugli altri viene servito per primo. Io, almeno secondo Darwin, sarei destinato all'estinzione, se non altro per il fatto che non so una parola di cinese. Decido però che voglio sopravvivere: mi piazzo davanti all'espositore e indico le due cose che mi sembrano meno disgustose. La signora dall'altro lato del banco spiaccica due cucchiaiate di cibo in un vassoio di metallo a scompartimenti (l'ultima volta che ci ho mangiato dentro è stato alla mensa dei poveri a Città del Guatemala) e mi liquida in fretta, dandomi come resto delle banconote impiastrate di salsa di soia.
Riuscirò a mandar giù solo una parte di quel cibo. In uno degli scompartimenti, quello che mi era sembrato essere pollo si è rivelato un avanzo di macelleria: ossa e articolazioni di animali vari con ben poca carne attaccata, e comunque piccante da farmi grondare di sudore. Per fortuna nell'altro scompartimento riuscirò a isolare dei brandelli di uovo e qualche pezzo di pomodoro.
Bene. Di fame non si muore per così poco. Almeno fatemi andare in bagno.
C'è una scritta di vernice azzurra su di un muro grigio: WC. All'ingresso una signora mi chiede 1¥. Pago e faccio un passo avanti, oltre il muretto che mi separa dalla soglia dei bagni. E sulla soglia rimango, pietrificato, per mezzo minuto buono. Davanti a me c'è un tale, accovacciato. Fuma una sigaretta e sembra rilassato. Sta cagando. Sotto di lui un buco pieno di merda. Cerco di capire come dovrei comportarmi: la stanza è larga circa due metri e si restringe verso il fondo. Sul lato sinistro c'è una specie di fossato di cemento, per i bisogni liquidi; sul lato destro tre piccole buche, per quelli solidi. Un odore terribile e niente muri, niente porte, niente sciacquoni. Niente di niente.
Il tipo accovacciato mi guarda. Sto facendo la figura dello scemo. Ormai sono qui, penso, ci devo almeno provare. Mi dirigo al lato sinistro e provo a fare il mio dovere. Ci provo ma non ci riesco. Tiro su la cerniera dei pantaloni ed esco di corsa, imprecando nella mia lingua. La signora all'ingresso mi guarda perplessa.
Allora mi è tornato in mente quel ragazzo di origine cinese, cresciuto nel Sultanato del Brunei. Eravamo in una strada del centro di Siem Reap, in Cambogia, coi piedi in ammollo in una vasca piena di pesci carnivori che si occupavano di ripulirci da calli e pelli morte. Era sera, intorno a noi un gran baccano di gente in giro per locali, musica e venditori. Gli avevo chiesto del suo paese d'origine, se ci fosse mai stato. Lui si era limitato a dire che in Cina aveva fatto la peggior "toilet experience" della sua vita e che ci consigliava vivamente di portarmi dietro delle pastiglie contro la diarrea. La sua fidanzata annuiva, mentre io e Laura ci guardavamo confusi. Ora so che cosa intendeva.
Ritorno alla mensa. Questa volta provo a farmi dare dei noodles e li porto a Laura, ma anche quelli sono  immangiabili: li abbandonerò su un paracarro. Infine mi guardo intorno in cerca di un angolo per fare ciò che non ho potuto fare prima, ma l'autista ha appena finito di fumare. Butta il mozzicone in una pozzanghera, si siede al posto di guida e suona il clacson: è ora di ripartire.

L'ultimo tratto del viaggio torna ad essere piacevole. Riprendiamo l'autostrada e attraversiamo la Foresta di pietra, una distesa di rocce calcaree simili a stalagmiti che danno l'impressione di essere tronchi d'albero pietrificati.
Arriviamo a Kunming prima del tramonto, ma sarà buio da un pezzo quando avremo trovato un posto per la notte, dopo ore passate a disperarci e a camminare schiacciati dal peso degli zaini. Impossibile trovare un taxi libero, e se c'è non ci capisce e preferisce trovarsi un cliente più facile. Verso le undici finiamo in un ostello che ha un solo posto letto e mi trovo ad implorare la ragazza della reception di lasciarmi dormire da qualche parte sul pavimento. Sarà magnanima abbastanza da concedermi il divano del bar, dove per tutta la notte le zanzare approfitteranno senza scrupoli del mio corpo.

martedì 2 luglio 2013

Hekou, Cina: una cena da dimenticare

La sera ad Hekou c'è musica per le strade. Un gruppo di uomini sui cinquanta, seduti in cerchio su sedie di plastica, suona l'erhu, una specie di violoncello cinese dalla voce di donna. Uno di loro canta e tutti gli altri lo seguono, all'unisono sulla stessa melodia. Pochi loro compaesani si fermano a sentire, ma forse li ascoltano i vietnamiti, dall'altra parte del fiume. Poco più in là un impianto audio suona musica dance, e lì ci sono i giovani che ballano e si divertono. Nella piazza davanti al nostro albergo, invece, gente di mezza età è impegnata in una specie di danza aerobica.
Usciamo dalla nostra stanza che è già buio, in cerca di qualcosa da mangiare. Potremmo andare da KDS, una specie di Burger King locale: facile e indolore, un'esperienza nota e uguale in tutte le parti del mondo. Invece ci buttiamo a kamikaze in un locale dai divanetti rossi e tavoli in due file lungo i muri. In due secondi sfodero tutto il mio vocabolario cinese: entrando dico buonasera e rispondo con un grazie quando una ragazza mi porge il menù. Ma il menù è in cinese e la mia pronuncia di quelle due semplici frasi dev'essere stata orribile, a giudicare dal sorrisetto della mia interlocutrice. Per un momento mi sembra che tutti i clienti smettano di mangiare per guardare noi, due animali esotici, due orsi polari paracadutati in piazza del Duomo. La situazione è imbarazzante, ma anche divertente: le donne che lavorano nel locale si radunano intorno a noi e si sforzano di capire, mentre noi ricorriamo a strategie varie per spiegarci. Digito "pollo" e "patate fritte" sul traduttore che ho installato all'occorrenza sul cellulare, mostro loro il risultato in caratteri cinesi e sembra che ci siamo capiti. Per sicurezza una di loro ci porta al tavolo dei surgelati, per chiedere conferma che sia proprio quello che volevamo. Io e Laura ci guardiamo, e in quel breve sguardo comunichiamo più o meno quanto segue: Cos'è 'sta roba? Boh, è tutto scritto in cinese... Dovremmo provare a chiedere del cibo fresco? Sì, e come? Lasciamo perdere va', questa roba andrà benissimo. Sì dai, ho fame, quel che arriva arriva.
Ad arrivare invece è un ragazzo sui trenta dalla faccia butterata dall'acne, tale Gong Hu, che si offre come interprete. È gentilissimo, ma combina solo casini. Il suo inglese è davvero elementare e a nulla vale dirgli che abbiamo già ordinato: lui vuole aiutarci.
Le donne stavano già preparando quello che avevamo ordinato, ma Gong Hu dà loro dei contrordini. Quelle gli gridano dietro, ma lui è solo l'interprete, un ambasciator che non porta pena, quindi che facciano come dice, poche storie. Dopo aver impartito gli ordini ritorna da noi, appoggia sul tavolo il suo succo di frutta bevuto a metà e chiede se può sedersi con noi.
La conversazione procede a stento, ma la gentilezza di Gong Hu vale la fatica. Ci racconta che lavora nelle costruzioni e fa un sacco di quelle cerimonie tipiche delle persone timide: "Sank you, sank you very much!" mi dice arrossendo quando gli chiedo dove ha studiato inglese. Forse ha pensato che gli stessi facendo un complimento, e io non ho nessun motivo per precisare il contrario. Comunque mi risponde poco dopo, quando parlando si sé dice che sa un po' di inglese perché suo padre insegnava la lingua in una scuola media.
La cena è orribile. Prima arrivano delle crocchette bisunte dal sapore inconsistente. (Non sembra proprio pollo. Ma allora cos'è?) Poi arriva una scodella di banane fritte (forse dono di Gong Hu, che ne mangia con noi). Infine ci vengono servite le patate fritte, mollicce e crude all'interno. Ingoiato il tutto, Gong Hu chiede più volte se vogliamo ordinare altro e noi, terrorizzati, facciamo scene da mani sulla pancia: "No, grazie, siamo pieni da scoppiare!"
Una cena da dimenticare, un'esperienza da ricordare. Usciamo in fretta, diretti al KDS.

domenica 30 giugno 2013

Storie di frontiera: tra Vietnam e Cina

Arriviamo alla frontiera con la Cina nel tardo pomeriggio, dopo un'estenuante giornata iniziata alle 5 del mattino, quando picchiettando sul finestrino di una piccola Hyundai Gets nel centro di Hanoi abbiamo svegliato un taxista per farci portare alla stazione. Non l'ho invidiato, il taxista, mentre si stropicciava gli occhi, tirava dritto lo schienale del sedile e si chinava a cercare le scarpe, finite dietro ai pedali.
Dieci ore e mezza di treno. Lento. Lentissimo. Ma sempre meglio dei famigerati sleeping bus sui quali abbiamo viaggiato fin ora: nient'altro che carri bestiame per turisti che pagano bene. Non ci sono sedili sugli sleeping bus, solo tre file di lettini minuscoli con lo schienale leggermente rialzato, di solito non regolabile. Non puoi stendere del tutto le gambe se sei più alto di un metro e mezzo, non puoi dormire sul fianco per via dell'inclinazione, non c'è spazio per le braccia e non puoi fare altro che intrecciare le dita sul petto come i morti. E non puoi fare a meno di pensare che una bara, con la sua fodera bianca e quel minimo, ormai inutile, spazio vitale, sarebbe più confortevole.
Una volta ci è anche capitato di finire in fondo al bus, dove i lettini sono cinque, attaccati l'uno all'altro. Io mi trovavo tra Laura e un australiano alto un metro e novanta, pelosissimo. Faceva caldo, nonostante l'aria condizionata, e non potevo muovermi: ognuno doveva fare la sua parte nel gioco di incastri. Non potevo alzarmi perché una volta riempito il bus, non contento, l'autista ha venduto una serie di posti sul pavimento a viaggiatori locali, che si sono stesi lungo i corridoi sulle loro stuoie.
Per fortuna alle due e mezza della notte abbiamo rotto lo sterzo e abbiamo potuto scendere per un po', per quelle tre ore che l'autista ci ha messo a smontare il braccio a martellate, farlo riparare da un meccanico lungo la strada e rimontarlo, ricominciando poi a guidare come un cane. (Un cane alla guida di un carro bestiame. Non è divertente? No.) Insieme agli altri occupanti del bus ci siamo riversati lungo il marciapiede, dove una donna stava aprendo il sue "negozio". (Sarebbe a dire che stava togliendo un telone che copriva un paio di scatole di polistirolo piene d'acqua, nella quale erano immerse le bibite in vendita, e una serie di sedie e sgabelli di plastica erosi dalle piogge.) Si è affrettata a far accomodare quanta più gente possibile: non le sembrava vero di iniziare a fare affari così presto.

Dieci ore e mezza di treno, dicevo, per arrivare al confine con la Cina. Decidiamo di sconfinare subito, anche se siamo stanchi, in modo da agevolare la ricerca di un bus per Kunming l'indomani mattina. Abbiamo imparato che essere già dalla parte giusta fin dal mattino può evitarci eventuali imprevisti e code che rischierebbero di farci perdere intere giornate. Così ce le becchiamo subito le code. E gli imprevisti.
Ogni frontiera comporta almeno due controlli: uno per uscire dal paese in cui si è stati, l'altro per entrare nel nuovo. Io passo il primo controllo egregiamente, il poliziotto non ha niente da obiettare. Oltre il metal detector mi fermo e aspetto Laura, che era in coda dopo di me. Ma la cosa va per le lunghe, il tipo si rigira il passaporto tra le mani infinite volte, guarda le pagine in controluce. Poi si sofferma sulla copertina, che è un po' scollata per via delle piogge prese, l'umidità, il sudore e le varie avventure in barca. Laura prova a spiegarglielo, ma il tipo scuote la testa. La fila di viaggiatori in attesa cresce continuamente. Alcuni si affacciano per chiedere se possono passare, ma il poliziotto li ricaccia indietro. Infine si gira verso di me e mi chiede di nuovo il passaporto: lo ricontrolla, lo confronta con quello di Laura e me lo restituisce.
Decide che non si fida, le chiede di seguirlo. Vedo che vanno verso una stanza, forse un ufficio dietro oltre la fila dei terminali, ma li perdo di vista. Io sono ufficialmente uscito da Vietnam e non posso rientrare. Laura, a quanto sembra, non può uscire. Pochi minuti dopo il poliziotto mi chiede di tornare indietro, di andare anch'io in quell'ufficio.
Nella stanza c'è solo una scrivania e un armadio di metallo, appoggiato al muro per il lato corto, che nasconde dietro di sé una porzione di stanza che non possiamo vedere (ma dev'esserci un bagno, a giudicare dai rumori che il poliziotto emette quando vi sparisce dietro). Le pareti sono bianche e spoglie, appena chiazzate di giallo dall'umidità. Nessun quadro, non un calendario o una foto di Ho Chi Minh: solo un condizionatore nuovo di zecca. C'è un ragazzo cinese insieme a noi, e un altro poliziotto seduto alla scrivania intento a parlare con quello che ci ha accompagnati. Insieme esaminano i passaporti, discutono. Poi ci dicono di aspettare ed escono dalla stanza. Il ragazzo cinese ci spiega il suo problema: si sono "dimenticati" di timbrargli il passaporto quando è entrato e ora, probabilmente, dovrà pagare "qualcosa".
Il poliziotto che ci fermati allo sportello rientra nella stanza. Con lui ce n'è un altro che non abbiamo mai visto. Quello che ci ha fermati fa cenno al ragazzo cinese di seguire il suo collega, indica l'armadietto di metallo. Il ragazzo si alza e insieme al poliziotto vi sparisce dietro. Ne escono dieci secondi dopo, entrambi sorridenti. Il ragazzo cinese sembra decisamente sollevato e nell'andare via cerca la mano dell'altro poliziotto (quello che ha "arrangiato le cose", apparentemente). Vuole stringergliela in segno di gratitudine, ma quello lo liquida sbrigativamente. Quanto gli sarà costato questo scherzo? mi chiedo.
Ci lasciano di nuovo soli nella stanza. Io e Laura decidiamo che, dovessero chiederne, soldi non gliene diamo. Assolutamente. Per principio.
Come prima cosa chiediamo che ci facciano una ricevuta ufficiale (tra Messico e Guatemala è una mossa che funziona). Se dicono di no, chiediamo di telefonare all'ambasciata italiana (il che sarebbe solo un bluff, visto come funzionano le cose da quelle parti). Infine, se si impuntano a non far uscire Laura e non mi lasciano tornare indietro, diciamo "Grazie, arrivederci." Laura torna indietro e prova a passare il confine domani mattina, mentre io l'aspetto ad Hekou, in Cina.
La cosa va avanti a lungo. Di noi si occupa un agente più giovane, che parla inglese e ha un'aria distinta. Porta gli occhiali e la sua divisa è più ordinata, meglio stirata. Fa diverse telefonate, ispezionando di continuo i nostri passaporti. Poi ci interroga rispetto ai nostri dati personali e ai nostri spostamenti, per confrontarli con le informazioni registrate sui passaporti. Fa altre telefonate, altri controlli. Infine ci fa spostare di nuovo nei pressi dei terminal e ci fa aspettare ancora. Lì ci rendiamo conto che questi problemi di passaporti sono un vero e proprio business. Altri turisti che erano sul treno con noi sono in attesa di capire quale sia il problema. A diversi cinesi, che fanno avanti e indietro per questa frontiera, hanno "dimenticato" di mettere il timbro di entrata e ora, se vogliono tornare a casa, devono "sistemare le cose".
Non so perché, ma a noi alla fine non chiedono soldi. Fanno il loro lavoro con scrupolo, ci fanno aspettare molto (e su questo non ho nulla da obiettare, i nostri passaporti sono effettivamente rovinati), ma poi ci lasciano andare.
Tiriamo un sospiro di sollievo e ci avviamo al prossimo controllo. Anche questo è lento e scrupoloso, fatto di domande incrociate e controlli ripetuti. Ma l'atteggiamento è molto diverso, decisamente più accogliente.
Facciamo i primi passi sul suolo cinese, lungo una strada che costeggia il fiume che divide la Cina dal Vietnam. Sarà solo una suggestione, ma mi sembra che da questo lato della linea si respiri un'aria diversa. A cominciare dal fatto che non c'è nessuno ad aspettarci, a offrirci passaggi, stanze, gite organizzate... Qui di turisti se ne vedono pochi (sono sicuro che siamo gli unici due "bianchi" in città) e la gente è curiosa. Non ti assale pensando di sapere esattamente cosa cerchi per offrirtela a prezzo cheap (cioè il doppio del prezzo che un locale considererebbe onesto).
Dei ragazzini scoppiano petardi sul marciapiede lungo il fiume, le famiglie mangiano sui tavoli all'aperto dei ristoranti, uomini e donne passeggiano. Nella piazza antistante il nostro albergo una decina di persone ballano a ritmo di musica cinese, mentre ragazzi e ragazze sfrecciano sui motorini, diretti non so dove.
Sarà una suggestione, ma mi piace.

venerdì 28 giugno 2013

Sicuro di voler tornare in Italia?

Poco tempo fa un vecchio amico mi chiedeva via e-mail se fossi proprio sicuro di voler tornare in Italia e se non temessi, una volta in patria, di ritrovarmi a dire: "Ma io qui che ci sto a fare?" Io rispondevo che sì, ero sicuro di voler tornare perché ogni posto in cui ero stato nascondeva i suoi guai e che, vista da fuori, l'Italia non è poi tutta una merda. Aggiungevo però che rimandavo il mio giudizio al momento in cui sarei effettivamente tornato, perché il mio punto di vista poteva anche essere distorto dalla nostalgia.
Evidentemente doveva proprio essere la nostalgia, perché mi è bastato passare un'oretta all'ambasciata italiana di Hanoi per ricordarmi di che pasta è fatto il mio paese.

All'ingresso ci accoglie un uomo sui quarantacinque, dall'accento campano, gentilissimo. "Prego, venite avanti" dice uscendo dalla guardiola. Lo segue un ragazzo giovane in divisa, dal sorriso timido.
"Oh, finalmente un carabiniere!" mi scappa di dire, sinceramente contento di vedere colori familiari. (La lontananza fa brutti scherzi, riescono a mancare anche le cose più strane.)
"Due carabinieri!" precisa quello più anziano, che però veste con pantaloni larghi, una camicia a maniche corte e una borsa a tracolla. "Allora, ditemi, come vi posso aiutare?"
Gli spieghiamo che ci restano solo due pagine libere sul passaporto e che, quindi, ce ne serve uno nuovo, dato che siamo diretti in Cina, Mongolia e Russia e che ciascuno di quei paesi chiede almeno due pagine libere, per il visto e per i timbri. L'uomo ci parla con un calore che sento sincero, dice che non dovrebbe essere un problema, che di solito ci vogliono una decina di giorni per ottenere il nulla osta dall'Italia.
Prima di entrare per parlare con l'incaricata scambiamo due parole. L'uomo vive qui da due anni e mezzo e sa parlare il vietnamita. Non lo dice direttamente, ma capisco che è assolutamente contento di vivere qui. Dice che ci invidia un po' per il viaggio che stiamo facendo, che è sempre stato anche il suo sogno stare in giro tanto tempo, perché quello è l'unico modo per conoscere davvero il mondo. Io gli rispondo che lavorare all'estero come fa lui è anche meglio dal punto di vista della conoscenza, e lui riconosce che ho ragione. Poi indica il suo giovane collega, che ci ascolta sulla soglia della guardiola "Lui è appena arrivato invece". Il ragazzo è al suo primo giorno di servizio. Fa una faccia disperata, dice "Mi mancano ancora 50 giorni per tornare a casa!"
Il carabiniere più anziano ci accompagna in una piccola sala d'attesa e avvisa l'incaricata della nostra presenza.
"Arriva subito" dice.
Noi ci sediamo, assolutamente fiduciosi, e aspettiamo di essere ricevuti.

Dopo 45 minuti si affaccia alla porta una donna italiana.
"Qual è il problema?" chiede, senza invitarci a entrare.
Glielo spieghiamo. A metà del discorso la vedo scuotere il capo.
"Ma voi siete iscritti al registro degli italiani all'estero?" chiede.
"No..." diciamo in coro io e Laura. Il sorriso ci si spegne in faccia.
"Ah, no no no," attacca lei "noi non rilasciamo passaporti ai non residenti in Vietnam. Abbiamo troppo lavoro. Al limite possiamo farvi un documento di viaggio fino alla prossima destinazione o per rientrare in Italia."
Chiusura totale, atteggiamento teatrale. Si aspetta che ce ne andiamo, si comporta come una che è stata fin troppo paziente con due testimoni di Geova, sulla porta di casa sua, la domenica mattina. Io insisto, voglio capire.
"Ma a queste cose bisogna pensarci prima," dice lei "prima di partire!" Senza conoscerci minimamente ci tratta come fossimo idioti, due sprovveduti rimasti schiacciati con la macchina sotto la sbarra di un passaggio a livello.
Le faccio notare che siamo in viaggio da quasi due anni, che siamo partiti con due passaporti nuovi di zecca. Lei non sembra prendere in considerazione nulla di quanto le diciamo, ripete che hanno troppo da fare, che noi non ci rendiamo conto della mole di lavoro, tanto più che sta iniziando la stagione turistica e c'è un sacco di gente che ha bisogno di assistenza. Laura le fa notare che due di quei turisti bisognosi d'aiuto ce li ha proprio di fronte in questo momento.
Per togliersi d'impiccio l'impiegata decide di chiamare la responsabile, un'altra italiana, che ci raggiunge nella sala d'aspetto. Nel frattempo entra un signore, un altro italiano, che ha un appuntamento proprio con lei.
"Mi libero dei signori e sono subito da lei" dice la nuova venuta in tono cordiale. Non avrebbe potuto scegliere una frase più infelice e appropriata.
Ci ripete, in sostanza, la stessa tiritera: niente passaporti per i non residenti, hanno troppo da fare, soprattutto in questi giorni... Io a questo punto me ne andrei anche. Deluso e arrabbiato, ma me ne andrei. Ma alla responsabile scappa di aggiungere in tono paternalistico che uno a queste cose ci deve pensare per tempo. Ripeto anche a lei che siamo in giro da molto tempo.
"Ah," dice inarcando le labbra e facendo roteare la mano "beati voi!"
"Guardi che i soldi ce li siamo guadagnati lavorando!" dice Laura, indignata. Noi... vorrei precisare io.
Non ci vedo più dalla rabbia. Le dico che se non possono aiutarmi mi sta anche bene, anche se è assurdo che un italiano all'estero non possa contare sulla propria ambasciata, ma che non si permetta di farci la ramanzina sull'essere previdenti.
"Noi ci pensiamo per tempo" le dico "tant'è che siamo qui all'ambasciata da Hanoi ora per non rimanere bloccati a Pechino tra un mese. Ma purtroppo essere previdenti non basta, visto che a volte si incontrano problemi di questo tipo." Punto l'indice verso di lei e la sua collega.
Non so perché, ma invece di incazzarsi la tipa si ammorbidisce un poco. Ovviamente quella di Hanoi resta l'ambasciata più intasata del mondo, ma a quanto pare la richiesta per un nuovo passaporto si potrebbe fare, ma solo in caso di emergenza.
"Ma voi ce l'avete un biglietto aereo?" chiede la responsabile.
"No." rispondo, ormai deciso ad andarmene sbattendo la porta.
Lei sgrana gli occhi come se avessi bestemmiato e sputato in un tabernacolo.
"Ma scusate, voi viaggiate e non avete neanche un biglietto aereo?"
"Sa com'è, esistono i treni..."
"Se aveste i biglietti aerei che lo giustifichino potremmo avviare una procedura di emergenza. Lo abbiamo fatto una volta per un ragazzo che stava facendo il giro del mondo. Sapete, lui non poteva aspettare."
"Perché, noi che cosa stiamo facendo, scusi?"
"Sì, ma ci vogliono i biglietti dell'aereo." dice, barricandosi dietro la nuova barriera burocratica.

Se c'è una cosa che mi fa incazzare sono le regole non chiare, e la gente che gode del proprio piccolissimo potere per creare problemi anziché risolverli. Dal mio punto di vista, o si può o non si può. Se c'è una procedura, deve essere quella per tutti. Faccio notare alla funzionaria che dal non si può siamo passati al si può in certi casi, per certe persone e a loro discrezione.
"A quanto pare" aggiungo "noi non rientriamo nella schiera dei fortunati. Arrivederci."
"Quando ripartite voi?" dice mentre apro la porta per uscire.
"Il nostro visto scade il tre luglio." le risponde Laura.
"Se volete potete fare la richiesta, ma non vi garantisco che facciamo in tempo."
"Questa mi sembra già una risposta" dico. La responsabile dice all'impiegata di consegnarci i moduli e torna al suo lavoro. Ci faranno sapere loro se e quando avranno ottenuto il nulla osta.
"Ma di dove siete voi?" chiede l'impiegata.
"Di Milano!"
"Uuuh, Milano è anche peggio di Napoli. Ci mettono una vita!"

Usciamo dall'ambasciata furiosi, ci riversiamo in strada come un fiotto d'acqua da un tubo appena scoppiato. Laura prende a calci le cartacce per strada e inveisce, rossa in volto. Io sono troppo arrabbiato per manifestare qualsiasi emozione. Entrambi pensiamo la stessa cosa: probabilmente non avremo i nostri passaporti in tempo, ma chi se ne frega. Una soluzione si trova sempre e noi la troveremo a Pechino, o a Ulan Bator. Il problema è l'Italia, è casa nostra. Perché questa non è un'eccezione, un caso sfortunato: questa è una storia italiana, una situazione-tipo che entrambi abbiamo già vissuto, mille volte. Una gran tristezza ci assale mentre camminiamo guardando l'asfalto. Non sentiamo più nemmeno i clacson e il rombo acuto dei motorini lungo la strada. Pensiamo all'Italia.

giovedì 27 giugno 2013

I tunnel di Cu Chi

Poco distante dalla città di Saigon si trova Cu Chi, un' area percorsa da centinaia di chilometri di tunnel sotterranei, costruiti inizialmente dai Viet Minh durante la guerra di liberazione contro i francesi (1945-1954) e poi ricondizionati e ampliati in occasione della nuova guerra di liberazione, quella contro gli americani, combattuta tra il 1960 e il 1975. Si tratta di una complessa rete di gallerie, costruite su tre livelli di profondità, che consentivano ai VietCong di muoversi senza essere visti, di far muovere informazioni e rifornimenti e, infine, di sopravvivere alla schiacciante superiorità di mezzi dei nemici, che bombardavano innanzitutto per via aerea. Sotto terra si trovavano anche ospedali, depositi di armi, dormitori, cucine... A garantire la quantità d'ossigeno necessaria erano una serie di condotti che collegavano le gallerie con la superficie.
Per noi tutto inizia quando troviamo, in una stanza d'albergo in Cambogia, un libro abbandonato. Si intitola "The tunnels of Cu Chi". Laura lo legge, mi racconta quello che viene a scoprire, ed entrambi veniamo incuriositi da quella storia. Decidiamo di andarci.
Per pigrizia facciamo l'errore di prenotare una visita guidata ai tunnel direttamente dall'albergo, a Saigon. Le visite guidate hanno di solito un ritmo imposto, in genere si è in molti e ci si affolla tutti insieme intorno ad uno stesso oggetto. E poi manca il silenzio, necessario a far lavorare l'immaginazione, per poter ricreare nella propria mente situazioni passate, fatti accaduti in quel determinato luogo. Comunque ormai è fatta, vada come vada.
Viene a prenderci un ragazzo magro dagli occhi affilati che sarà la nostra guida per la giornata e ci accompagna attraverso il vicolo fino alla strada principale, dove ci aspetta un bus già riempito di altri turisti di diverse provenienze.
Siamo una trentina di persone. La guida dice di chiamarsi Em: "Da non confondere con Am! Non mangiatemi per favore!" dice, prendendo un piglio sarcastico che manterrà per tutto il tempo.

Mentre fa i biglietti per tutti, lo aspettiamo in una sala le cui pareti sono percorse da fuciliere piene di armi da guerra, prevalentemente di fabbricazione americana e cinese. Carabine, mitragliatrici, lanciagranate e altra artiglieria lasciata sul terreno dai soldati durante la guerra. Em ci raggiunge pochi minuti dopo: "Scegliete la vostra preferita!" dice "AK47? Come John Rambo? Ta-ta-ta-ta-ta."
Dopo aver visto un video documentario dal sapore propagandistico, datato 1967, che illustra la vita dei soldati rivoluzionari e la collaborazione dei civili nella lotta armata, ci spostiamo all'imbocco di uno dei tunnel. Em indica un punto sul terreno dove non vedo altro che foglie e terra: nessun buco, nessun segno visibile. Poi muove alcune foglie col piede e scopre una piccola botola di legno rettangolare, non più lunga di 40 cm e larga 30. La apre e spiega che quella è un'entrata "standard", ovvero che è stata lasciata delle misure originali e non allargata per meglio consentire le visite turistiche. Chiede se qualcuno se la sente di provare ad entrarci e a chiudere il coperchio dietro di sé. Dentro non si vede altro che una biforcazione e poi il buio, in entrambe le direzioni: sembra la tana di una talpa. "Il volontario deve essere magro," spiega, "a misura di vietnamita." Poi prepara un'altra frecciata: "I GI, i soldati americani, rimanevano bloccati quando cercavano di entrare nei tunnel perché erano grassi." Simula una pancia gonfia con le braccia. "Gli piaceva troppo fumare la marjuana, e la marjuana mette fame."
Un rumore molto simile a uno sparo in lontananza mi distrae, poi un altro e un altro ancora. "Hai sentito?" chiedo a Laura. Lei non l'ha sentito, e io mi sto sicuramente sbagliando. Deve essere una suggestione dovuta al luogo in cui mi trovo e ai troppi film spazzatura che Hollywood ha dedicato al tema e che io mi sono sorbito da bambino.
Proseguiamo attraverso le trappole atroci che i VietCong nascondevano per impedire ai loro nemici di trovare i tunnel: vecchie gabbie per tigri, buche con una varietà di spuntoni in bambù (o in metallo recuperato dai detriti delle bombe americane) che andavano a conficcarsi in diverse parti del corpo a seconda del tipo. I malcapitati rimanevano così bloccati e feriti, finché i VietCong non andavano a recuperarli per portarli nelle prigioni e trasferirli poi ad Hanoi, nel Nord.
Riprendiamo a camminare attraverso un bosco di alberi della gomma, che tra l'altro a quel tempo non c'era. Non un albero era rimasto, solo terra bruciata, grazie ai bombardamenti al Napalm e agli agenti chimici a base di diossina usati dai GI.
Ci avviciniamo ad un carro armato americano, probabilmente danneggiato da una mina anticarro, e sento di nuovo gli spari. Una vera e propria mitragliata questa volta, e molto vicina. E poi altri spari ancor più vicini, finché non arriviamo alla sorgente di quel rumore e io rimango a bocca aperta: c'è una cava di terra rossa alla cui estremità sono sistemate diverse armi: gli AK47 vanno per la maggiore, ma c'è anche un M16 montato su un cavalletto, a bordo di una Jeep dell'esercito americano. Capisco che Em non scherzava quando diceva "Scegliete la vostra preferita". Per una cifra che va dai 20.000 ai 40.000 VND (da circa 1 a 2$) è possibile sparare con una di quelle armi. Solo uno di noi, un australiano, lo farà. Mi avvicino incuriosito: non mi aspettavo proprio di trovarmi in una sorta di parco dei divertimenti. Una raffica di mitra mi assorda e devo portarmi le dita alle orecchie: era un italiano a sparare, ed ora se ne va col figlio in adulazione sottobraccio. "Papà, com'era?"
La situazione è paradossale: in un luogo in cui un'atroce guerra d'aggressione ha avuto luogo, turisti occidentali provenienti da quello stesso mondo un tempo sconfitto impugnano quelle stesse armi per gioco, sotto gli occhi annoiati dei locali. Quegli stessi locali che hanno organizzato tutto, e che ora ne ricavano profitti.
Il nostro australiano divarica le gambe nude una davanti all'altra, avvicina un occhio al mirino, si concentra. Poi fa fuoco, sembra soddisfatto. Un soldato vietnamita, responsabile di quell'arma, lo guarda con un'espressione incolore ad una distanza di un metro. Si avvicina per ricaricare il fucile, senza dire una parola, poi torna al suo posto. Ho la sensazione che tutto questo non gli piaccia affatto. Quanto a me, che ho fatto obiezione di coscienza, perdo volentieri l'occasione di impugnare un'arma per la prima volta.
Lasciato il rustico poligono di tiro, entriamo finalmente in uno dei tunnel, nel quale sono stati allargati gli ingressi e sistemate alcune fioche luci. Facciamo un tratto di soli 100m, ma ne esco con le gambe a pezzi e fradicio di sudore. Penso ai VietCong, che a volte ci rimanevano per mesi senza uscire. Le donne ci partorivano, i malati ci morivano. C'era perfino una compagnia di teatro che girava per i tunnel intrattenendo i soldati, cercando di tenerne alto l'umore facendo la parodia degli americani.
Em si guarda bene dall'accompagnarci sotto terra e ci aspetta dall'altra parte. "Se volete continuare a camminare" dice "da quella parte potete sbucare fino in Cambogia! E pensate" continua " che una parte dei tunnel si trovava proprio sotto una delle basi americane. Loro cercavano Charlie, e ce l'avevano sotto al culo!" Continua poi raccontando che a volte i VietCong si travestivano da civili e si avvicinavano alle basi americane. "Ma non per spiare, per ascoltare la musica!" Mi domando se questo ragazzo abbia un motivo per essere così spietatamente sarcastico nei confronti degli sconfitti americani, o se sia solo orgoglio patriottico. Gli chiedo se abbia avuto qualche parente coinvolto nella guerra e lui mi dice di sì. Suo padre. Ma non stava coi VietCong, stava con l'esercito sud vietnamita, e quindi ha combattuto con gli americani. Ora sì che sono confuso.

mercoledì 26 giugno 2013

Benvenuto in Cina, ma non dirlo a nessuno

Siamo finalmente in Cina. Welcome! ci hanno detto in tanti, fin dalla frontiera di Hekou. Ero così entusiasta che volevo raccontarvelo subito, ma ho scoperto che la piattaforma Blogger rientra tra quelle censurate, insieme a Facebook, Twitter, Youtube e compagni. Vabbè, troverò una soluzione. (Tra l'altro, se state leggendo questo post e vi risulta intelligibile, vuol dire che forse una soluzione l'ho già trovata...)

A presto

mercoledì 19 giugno 2013

L'agente Orange per le strade di Saigon

Stamane l'ennesimo piccolo grande contrattempo mi ha guastato la giornata. Ora cammino per le strade di Saigon accanto a Laura, con le spalle curve più del solito, come avessi addosso chili di abiti bagnati. Dopo essere stati all'ambasciata cinese (e aver scoperto che per varie ragioni non possiamo ottenere il visto qui, ma “forse ad Hanoi sì”) abbiamo fatto due calcoli sui paesi che ci mancano da attraversare e ci siamo resi conto che i nostri passaporti non hanno abbastanza spazio libero per i timbri. Questo vuol dire guai, noie burocratiche che vanno a complicare un quadro già abbastanza incasinato per ottenere i visti stessi. Laos, Cina, Mongolia e Russia (questo l'itinerario che avremmo in mente prima di rimettere piede in Europa) pretendono almeno due pagine vergini a testa sul passaporto, mentre noi ne abbiamo due in tutto. Questo vorrebbe dire arrivare in Laos e poi rimanere bloccati, visto che a Vientiane non c'è un'ambasciata italiana in cui chiedere un nuovo documento.
“Hai detto qualcosa?” mi chiede Laura.
“Non ho aperto bocca.” rispondo bruscamente.
In realtà stavo mugugnando tra me e me, mandando maledizioni ai quei bastardi dei poliziotti di frontiera (messicani, australiani e statunitensi in prima fila) che nell'ultimo anno e mezzo, con lo scazzo proprio di chi non aspetta altro che tornare a casa ad accendere la televisione, hanno messo timbri a caso sul mio passaporto ancora nuovo, portandosi via intere pagine che ora sarebbero preziose.
Ci sediamo al tavolo di un ristorantino, in un vicolo affollato di venditori, motorini parcheggiati e viandanti. Ordiniamo due piatti di noodles e non diciamo una parola. Mentre aspettiamo i nostri piatti inizia a piovere, come succede ogni giorno quasi sempre alla stessa ora (siamo agli inizi della stagione delle piogge) e io, che sono seduto di fronte a Laura, con le spalle al vicolo, devo spostarmi e andare a sederle accanto per poter stare sotto la tettoia. Mangiamo in silenzio guardando la pioggia che scende e la gente che passa, avvolta nelle mantelle di plastica colorate. Di fronte a noi, dall'altro lato del vicolo, un uomo è seduto a terra nel suo minuscolo negozio e gioca coi suoi due figli piccoli. Di tanto in tanto si affaccia un avventore per comprare una bottiglia d'acqua o una birra, e allora lui si tira su con la forza delle braccia, appoggiandosi all'espositore di vetro pieno di saponette e deodoranti. Ha le gambe corte, sottilissime, e un piede girato in una posizione innaturale che non gli permette camminare. È uno dei tanti, e tra i più fortunati, che a oltre trent'anni dalla fine della guerra contro gli americani ancora pagano le spese dell'uso di armi chimiche. Il cosiddetto “Agent Orange” in particolare, usato dagli americani per fare “terra di nessuno” grazie all'azione devastante della diossina.* A questa schiera impressionante di deformi, che si incontrano ad ogni angolo di strada, si uniscono le migliaia di mutilati che, anche dopo la fine della guerra, hanno lasciato le gambe e qualche volta le braccia sul terreno a causa delle mine.
Col piatto ormai vuoto, aspettiamo in silenzio che spiova, ma venti minuti più tardi dobbiamo deciderci ad alzarci, visto che non accenna a diminuire. Attraversiamo in un balzo il vicolo, schivati all'ultimo da un motorino in transito, e compriamo nel piccolo negozio dell'acqua e una bevanda al cioccolato per la colazione di domani. L'uomo ci dà il resto e ci saluta con un sorriso, poi si risiede a terra accanto ai figli. Noi camminiamo muro muro cercando riparo sotto le tende parasole dei negozi, ma quasi sempre ci ritroviamo in mezzo alla strada per aggirare mercanzie in esposizione, tavoli di ristoranti, macchine e motorini parcheggiati che rendono il marciapiede impraticabile.
Infine viene la parte più difficile: attraversare la strada. Aspettare non serve a niente: non ci sarà mai un momento in cui il flusso del traffico (un fiume di migliaia di motorini) smetterà. Il trucco è iniziare a camminare lo stesso, senza fare l'errore di fermarsi o esitare, e aver fiducia nel principio di autoregolazione del flusso.


*Si stima che tra il 1961 e il 1971 siano stati gettati sul territorio del Vietnam del Sud circa 77 milioni di litri di diserbanti, nell'ambito dell'operazione americana “Ranch Hand”, mirata alla distruzione della vegetazione nella quale i Vietcong si nascondevano. Di questi, 49,3 milioni di litri erano di Agent Orange e contenevano più di 360 Kg di diossina, distribuita a più riprese su oltre 2,6 milioni di acri. Anche i soldati americani (e australiani, neozelandesi, sud-coreani e vietnamiti dell'esercito “regolare”) hanno subito l'esposizione all'Agent Orange, ma i civili sudvietnamiti hanno continuato – e continuano – a pagarne le spese negli anni a causa della profonda contaminazione del terreno. Secondo diversi studi scientifici vi sarebbe una correlazione diretta tra l'uso dell'Agent Orange e le malformazioni alla nascita.

domenica 16 giugno 2013

In Cambogia non portarmi a vedere i sassi

“Io in Cambogia voglio andare ad Angkor.” mi aveva detto Laura. Io come al solito non avevo voglia di fare ricerche e non avevo idea di cosa si trattasse, quindi ho detto che mi stava bene. Chi non si informa si arrangia, giusto? Avremmo dovuto fare una piccola deviazione verso nord per poi continuare a scendere in direzione Phnom Penh, dove ci saremmo fermati per le solite seccature burocratiche, in questo caso il visto per il Vietnam. Poi però, come sempre all'ultimo, non me la sono sentita di arrivare in un posto di cui non sapevo assolutamente nulla, e ho fatto le mie ricerche...
“No! I sassi no!” dico appena capisco a cosa vado incontro.
“Non ricominciare, non sono sassi. Sono rovine.”
“Che poi, alla prova dei fatti, sono sassi transennati. E per giunta rovinati, lo dice la parola stessa.”
“No invece! Sono luoghi in cui si è fatta la storia, in cui rimane la testimonianza di civiltà passate.”

Non voglio avere ragione, non posso. Ma è più forte di me: mi annoio a morte in giro per rovine, monumenti e musei archeologici. Sarà perché di architettura non capisco niente, di arte nemmeno. Sarà che la mia preparazione in storia pre-coloniale è pari a zero.
Angkor Wat si rivela poi essere un maestoso tempio indù, fatto costruire dal re khmer Suryavarman II tra il 1113 e il 1150. Si trova immerso nel verde, insieme a numerosi altri templi che insieme formano il sito archeologico di Angkor. Ha un perimetro di 3,6 km, è formato da tre gallerie rettangolari concentriche ed è circondato da un enorme fossato pieno d'acqua verdastra su cui il tempio stesso si riflette. C'è gente che ci arriva prima dell'alba e poi vi rimane fino al tramonto, per poterlo fotografare con la luce migliore.
Per arrivarci da Siem Reap, la città in cui alloggiamo, dobbiamo ingaggiare un autista per tutto il giorno. Non c'è altra scelta, ci dicono, funziona così e basta. L'autista ci accompagnerà di tempio in tempio e ogni volta ci aspetterà fuori, anche per ore, seduto all'ombra della carrozza del suo tuk tuk. Appena ci fa scendere davanti ad Angkor Wat rimango affascinato dalla sua imponenza solitaria ed equilibrata, dalla sua forma simmetrica ma per niente spigolosa. Ci incamminiamo lungo il ponte che attraversa il fossato, ma a metà strada dobbiamo rifugiarci per dieci minuti sotto un chiosco di informazioni turistiche dal tetto di foglie di palma. Piove a dirotto.
La magia, per quanto mi riguarda, svanisce in fretta quando mi trovo accalcato insieme a centinaia di turisti chiassosi e a gruppi di giapponesi in posa per farsi fotografare ad ogni angolo e... ad ogni sasso. Come puoi godere dell'atmosfera di un luogo simile con tutto questo casino? Poi finalmente imbocchiamo un corridoio silenzioso, dove ci accoglie un vecchio. Ci mette in mano dei bastoncini d'incenso e ci guida verso la statua di una divinità indù, davanti alla quale, con modi bruschi, ci fa cenno di inginocchiarci. Dice delle preghiere, credo, poi ci chiede di toccare la statua. Infine solleva un panno rosso alla base, scoprendo una banconota da 10 dollari, chiaramente invitandoci ad aggiungerne un'altra uguale. Questo è troppo, mi girano veramente le palle.
A fine giornata siamo entrambi stanchi. Siamo contenti di farci portare a casa e lasciare libero con anticipo il nostro bravo e silenzioso autista, che per scrupolo ci chiede se siamo sicuri di non voler aspettare il tramonto.

Ok, forse Angkor Wat (e il Colosseo, i templi greci...) non è solo un ammasso di sassi, ve lo concedo. Ma se guardo indietro al nostro viaggio, i luoghi che più hanno suscitato il mio interesse sono stati quelli trovati per caso. Quelli in cui ci siamo fermati per una notte mentre eravamo diretti altrove, come San Cristobal in Guatemala o Phatthalung in Thailandia. Posti in cui non c'è assolutamente nulla “da vedere”, eppure c'è un mondo in carne e ossa da scoprire. Là dove la gente è spaesata quanto te nell'incontrarti, perché non è abituata a relazionarsi con gli stranieri. In quei posti non esistono due mondi paralleli: quello in cui vive la gente normale e quello dorato (e salato) inventato apposta per i turisti. Lì nessuno ti aspetta fuori dalla stazione per proporti soluzioni facili, con l'intenzione di tenerti dentro la bolla del turismo, in un'enclave invisibile che ha poco a che fare con la realtà del posto in cui ti trovi. E Angkor Wat è servita a ricordarmi la lezione: i sassi proprio non mi interessano.
Comunque è andata, sono sopravvissuto un'altra volta. Dopo una breve escursione in tuk tuk attraverso i villaggi di palafitte intorno a Siem Reap, dove i bambini giocano nudi in strada e gli uomini si radunano nell'ombra scura dei bar, si riparte per Phnom Penh, dove rimaniamo alcuni giorni in un triste albergo accanto alla stazione dei bus, in attesa che i visti vietnamiti siano pronti. Ammazziamo il tempo passeggiando per una città grigia, caotica e deprimente. O forse siamo noi che siamo sulla via della depressione, anche se non manchiamo di sorridere quando, sul largo spiazzo pedonale sulla riva del Mekong, ci troviamo di fronte a decine di persone che si muovono a ritmo di musica, seguendo i movimenti del maestro di aerobica. C'è la giovane donna in tenuta ginnica, l'anziano col cappello, l'uomo d'affari appena uscito dall'ufficio e una serie di altri divertenti stereotipi. E pensare che al Parco Sempione la gente fa taiji!

Quella stessa sera, per disperazione, compriamo un pacco di pasta e la cuciniamo sul fornello elettrico nella nostra stanza. Non ne possiamo più di riso e noodles, e da queste parti non si trova altro (nemmeno il McDonald!). Di sicuro a stare in Indocina si diventa più magri. Un po' per il caldo tropicale che toglie l'appetito, un po' per la scarsezza delle porzioni (e della scelta dei cibi), farsi un giro da queste parti può essere una soluzione alternativa alla dieta.

giovedì 6 giugno 2013

I guerrieri della thai boxe

Dovendo parlare di Bangkok, potrei raccontarvi delle nostre avventure in tuk tuk, i moto-taxi a tre ruote tipici di queste parti. Allora dovrei dirvi di come sia difficile ingaggiarne uno per un prezzo onesto senza per questo doversi sorbire “visite gratuite” a negozianti loro amici, che pagano loro la benzina in cambio di nuovi avventori. Ci abbiamo provato:
- Noi dobbiamo andare al tempio del Budda sdraiato, quant'è?
- 30 bath.
- Un prezzo fantastico, dov'è la fregatura?
- Che vi porto anche qui, lì e là.
- Ma noi vogliamo andare al tempio e basta...
- Allora andate a piedi.
Potrei anche dirvi delle nostre lunghe camminate (per il motivo di cui sopra), dei nostri su e giù per il fiume Chao Phraya a bordo del ben più economico ed affollatissimo traghetto di linea, o della movida notturna del quartiere Banglamphu fatta di offerte a raffica di cibo, massaggi e spettacoli a luci rosse.
Potrei anche dilungarmi sul “business del buddismo”, col suo merchandising, i riti “su offerta” e le visite guidate ai templi.
Ma la verità è che l'evento più interessante del nostro breve soggiorno a Bangkok è stato andare a vedere gli incontri di thai-boxe al Rajadamner Stadium. Nove incontri, due dei quali terminati con lo sconfitto portato fuori in barella privo di sensi.

Il luogo è esattamente quello che un qualsiasi regista di Hollywood sceglierebbe per girare una scena di incontri clandestini. Il ring è l'unica parte illuminata, al centro di tre anelli di tribune, l'ultimo dei quali è privo di sedili e protetto da una rete metallica.
All'ingresso ci consegnano una fotocopia in bianco e nero del programma, in cui sono riportati i pesi in libbre dei pugili (da un minimo di 100 a un massimo di 165) e i nomi delle palestre di appartenenza. Tre telecamere riprendono l'evento, trasmesso in diretta nazionale.
Appena si fanno avanti i primi due pugili, quattro musicisti muniti di due tamburi, un campanello e una sorta di corno, iniziano a suonare una musica ossessiva chiamata Dontree Muay, che durerà per tutta la durata dell'incontro, facendosi più intensa durante le fasi più cruente.
I due pugili, dal fisico asciutto e un'altezza non superiore al metro e settanta, iniziano a girare in tondo sul ring passando una mano lungo le corde, ognuno per conto proprio, assorti, come se né l'avversario né il pubblico esistessero. Poi si fermano ad ogni angolo del ring, facendo una sorta di inchino. Infine si inginocchiano al centro del quadrato, flettendo il busto a destra e a sinistra. Si muovono a ritmo della musica, in quella che è a tutti gli effetti una danza, la Ram Muay, che racchiude in sé significati magici e scaramantici, oltre che essere una sorta di stretching. Entrambi indossano il Mongkon, un amuleto di forma circolare che cinge loro il capo e che i rispettivi maestri rimuoveranno prima dell'inizio del combattimento, sfiorando con le labbra il capo dell'allievo nel sussurrare una formula propiziatoria.
Finalmente ci siamo. La musica smette d'improvviso e una campana dà il via all'incontro. La musica riprende e i pugili sembrano di nuovo ballare, questa volta insieme, con la guardia alta e una delle gambe in avanti, pronta a sferrare il primo colpo. Il pubblico partecipa urlando, incitando i pugili e talvolta avvicinandosi all'angolo tra un round e l'altro per dare consigli.
All'inizio tutto mi sembra incredibilmente lento e innocuo, anche quando i due iniziano a colpirsi sul serio e ad azzuffarsi, prendendosi a ginocchiate attaccati alle corde. Cambio idea durante il sesto incontro, quando vedo Muenarkhom, 117,4 libbre, sferrare una gomitata rapidissima sulla testa di Jeff, 115,4 libbre, e quest'ultimo cadere a terra ad occhi chiusi. L'arbitro gli toglie il paradenti, i barellieri entrano e lo sollevano senza che lui dia il minimo segno di vita.
L'incontro successivo, il settimo, è quello più atteso. A combattere sono i pesi massimi della situazione. Nel secondo anello, dietro di noi, gli scommettitori si scaldano più di quanto non abbiano fatto fino adesso, urlando a squarciagola, alzando le mani per comunicare agli allibratori le proprie intenzioni e facendo passare banconote. Quando l'incontro entra nel vivo, i sostenitori di ciascun pugile urlano all'unisono ad ogni colpo sferrato, facendo salire la tensione in tutto lo stadio. Uno di loro inizia a percuotere con la mano un tabellone pubblicitario attaccato alla balaustra, producendo un suono che rimbomba nella penombra degli spalti. La musica è quasi scomparsa nel frastuono generale.
Purtroppo la magia del momento non dura a lungo. Verso la metà del primo round Trairat mette a segno un paio di diretti ben assestati e Suwuthlek inizia a barcollare. Tiene duro per un lunghissimo minuto, ma non appena i colpi dell'avversario lo raggiungono di nuovo cade a terra e non riesce più a rialzarsi.
Durante i due incontri successivi la tensione cala un poco, di pari passo col peso dei pugili. Le scommesse continuano, ma gli animi sembrano più calmi.

Alla fine del nono incontro lo stadio si svuota in fretta e la musica tace. Io rimango incantato ancora per un po' e mi dirigo a passo lento verso l'uscita, ancora sbalordito dall'esperienza appena vissuta. Fuori ci aspetta una pioggia battente e una città da attraversare.

domenica 2 giugno 2013

Phatthalung, Thailandia: avventure in un posto a caso

A Su-Ngai Kolok passiamo accanto ad alcuni soldati in divisa mimetica che presidiano l'entrata della stazione. Le mitragliatrici sono la prima cosa che notiamo entrando in Thailandia e la gente, almeno in questo piccolo paese di frontiera, sembra aver fatto l'abitudine all'esercito e alle mascelle serrate dei militari.
Attraversiamo i binari sotto il sole, camminando su tavole di legno messe a patchwork per dare una parvenza di passerella. In biglietteria scopriamo che un treno diretto per Bangkok ci sarebbe, ma ci mette 20 ore ad arrivare a destinazione. Il che vorrebbe dire passarci l'intera giornata e tutta la notte. L'idea non ci piace affatto, visto lo stato dei treni che ci sfilano davanti.
Il bigliettaio indossa una divisa impeccabile in stile militare, con tanto di cappello. Ma in inglese sa dire solo i numeri, quindi è difficile spiegargli che, anziché andare direttamente a Bangkok, vogliamo fare una tappa intermedia. Non importa dove, ma vogliamo scendere dal treno di pomeriggio. Alla fine tiriamo fuori la mappa dallo zaino e puntiamo il dito su Phatthalung (nient'altro che un nome per noi, ma ad una distanza che sembra essere un quarto della strada per Bangkok). Il bigliettaio ha capito: “5:00 pm” dice sorridendo.
Credo sia la prima volta che mi avventuro in un paese senza preoccuparmi di imparare una sola parola, o senza procurarmi un dizionario. Forse perché mi sento solo di passaggio, già proiettato in Cina. Forse per pura pigrizia, o magari per l'arroganza propria di quelli che “con l'inglese vai dappertutto”. Fatto sta che mi trovo a rimproverarmi per ragioni etiche e che, presto, me ne pentirò per ragioni pratiche.
Le sei ore in treno sono lunghe come sei giorni. La carrozza è vecchia di decenni, con le pareti interne in legno e i sedili spaziosi ma scomodi. Si viaggia con le finestre aperte,mentre grossi ventilatori in fila al centro del soffitto girano senza sosta alla massima velocità. Ma né l'una né l'altra cosa aiutano: finestre aperte e ventilatori non fanno che spararci addosso raffiche di aria calda, procurandoci uno dei peggiori mal di testa della nostra vita. Il paesaggio fuori dal finestrino è quasi sempre verde: foreste interrotte da qualche villaggio o piccola città. Le moschee della Malesia qui lasciano il posto ai templi buddisti, coi loro tetti rossi e le statue dorate.
Mentre il treno rallenta, entrando nella stazione di Phatthalung, un tale sui 50 ci guarda caricare gli zaini in spalla per dirigerci verso l'uscita del vagone. Ci ripete per due volte il nome della stazione, evidentemente convinto che stiamo per scendere alla fermata sbagliata: che cosa ci vanno a fare due turisti con lo zaino a Phatthalung? Buona domanda.
Quando arriviamo in un posto sconosciuto, abbiamo una strategia: uno di noi sta fermo in un punto sicuro con gli zaini mentre l'altro va in esplorazione e alla ricerca di una sistemazione per la notte. Oggi tocca a me. Appena fuori dalla stazione mi guardo intorno nel tentativo – vano – di individuare la scritta “Hotel”. Mi rendo conto che oggi non sarà facile: tutte le insegne sono in alfabeto Thai. Provo a chiedere in giro, ma mi rendo conto, con un certo imbarazzo, che nessuno sa una parola d'inglese. Alcune persone capiscono cosa sto cercando e mi indicano con le dita strade e svolte da prendere, ma non potendo fare riferimento alle insegne non ho davanti altro che file di edifici tutti uguali. Alla fine busso ad una serranda dietro la quale mi sembra esserci la hall di un hotel. È in realtà una gioielleria, ma l'errore mi porta comunque alla soluzione, dato che il gioielliere parla un po' d'inglese (e si compiace di poterlo finalmente fare con qualcuno).
L'albergo ha ampi corridoi e larghe scalinate. Malgrado le macchie di muffa sulle pareti della stanza e le bruciature da sigaretta sui mobili, si capisce che deve aver conosciuto tempi migliori. Comunque poco importa: è solo per una notte, visto che domani riprenderemo a muoverci verso Bangkok.

La prima cosa che mi viene in mente, appena sganciato lo zaino sul pavimento della stanza, è buttarmi sotto l'acqua fredda della doccia. E sotto l'acqua fredda della doccia, un minuto più tardi, mi ritrovo al buio: è saltata la corrente. Dietro al pallido fascio di luce di una torcia elettrica (ma perché le pile sono sempre scariche in queste circostanze?) decidiamo di uscire in cerca di cibo. L'intera città è al buio, illuminata ad altezza pube dai fari delle automobili e dei motorini. Attraversiamo le bancarelle del mercato seguendo la corrente: gli ambulanti continuano ad arrostire carne e la gente continua a comprarne, come se tutto fosse normale. Come se ci fosse la luce. Sul marciapiede della via principale prendiamo posto al tavolo metallico di un ristorante, illuminato da una candela consumata per metà. Ordiniamo a gesti e onomatopee una zuppa di riso e pollo. Intorno al nostro tavolo la città continua al buio la sua esistenza ed è questo fatto, più della mancanza di luce, a rendere la situazione ai miei occhi surreale. A pochi metri di distanza c'è un passaggio a livello (che per fortuna continua a funzionare grazie ad un generatore di emergenza). Le sbarre si chiudono e veniamo investiti dalla luce rossa intermittente del semaforo, mentre auto e motorini si accatastano in una fila scomposta e rumorosa. Ripartiranno qualche minuto dopo in un rombo polifonico, lasciandosi alle spalle l'odore dei gas di scarico.

Il mattino seguente cerchiamo il modo di andarcene con un autobus visto che ieri, al nostro arrivo, abbiamo scoperto con un certo sconforto che i treni per Bangkok partono solo di pomeriggio. È stata quindi una pensata inutile quella di fermarci per riprendere a viaggiare con la luce del giorno ed evitare di farlo di notte. Consultiamo il tabellone con la mappa della città, appena fuori dalla stazione. Accanto all'icona del treno, a indicare appunto la stazione, ce n'è un'altra raffigurante un autobus, ma non è chiaro dove sia esattamente. Proviamo a chiedere alla gente, ma ci ritroviamo sempre nella stessa situazione di incomunicabilità. Dopo vari tentativi una ragazza ci fa capire con qualche parola d'inglese che il posto che vogliamo raggiungere è lontano e dobbiamo andarci con la moto. (“Questa è una piccola città,” mi ha spiegato ieri il gioielliere “non ci sono taxi. Solo moto-taxi.”) La ragazza chiama uno dei moto-taxisti in attesa fuori dalla stazione e gli spiega in thai dove vogliamo andare. Il tipo si passa una mano sui capelli pettinati all'indietro, poi si sistema gli occhiali fumé con le dita rinsecchite che gli spuntano da un paio di guantini da ciclista. Sembra venuto fuori da un film italiano degli anni ottanta. “Sono 100 bath,” traduce per noi la ragazza, “50 a testa.” “Ok” dico, ormai curioso di sapere come diavolo pensa di portarci tutti e due in moto. Con un sidecar? Ingaggerà un collega e andremo su due mezzi diversi? La risposta è ovvia quanto disarmante. Una manciata di secondi dopo eccoci tutti e tre schiacciati l'uno dietro l'altro, lanciati a 50 Km/h per le strade della città in sella ad un piccolo scooter Honda dal rumore di taglia-erba. L'unico a mettersi il casco è il nostro autista, ma lo toglierà poco dopo per ravviarsi i capelli e fare una telefonata. Il mio stupore non dura che un minuto: il tempo di venir sorpassati da un altro scooter, a bordo del quale ci sono mamma, papà e due bambini nel mezzo. Più uno più piccolo davanti, sulle ginocchia del papà.
La stazione dei bus è davvero fuori mano, ma ormai siamo qui e tanto vale chiedere informazioni. Il problema è sempre lo stesso: le insegne con le destinazioni sono in thai e in thai parlano tutti gli addetti di tutte le compagnie. La cosa più difficile,comunque, è far capire al nostro moto-taxista che deve aspettarci: all'arrivo pago la prima parte della corsa e gli faccio cenno con la mano aperta di aspettare. Ma lui pensa sia un saluto e ripete lo stesso gesto chinando il capo, mentre l'altra mano già gira l'acceleratore . “No, no, wait!” gli dico. Lui sembra confuso. Scende di sella e entra con noi per chiedere ai bigliettai che gli traducano quello che diciamo. È una scena patetica: facciamo il giro di tutti gli sportelli di tutte le compagnie di autobus, ma nessuno ci capisce e il nostro uomo è sempre più confuso (e noi sempre più mortificati). Alla fine approfitterà di un momento di nostra distrazione per andarsene.
Con gli impiegati della compagnia di autobus comunichiamo a gesti, con molta fatica, e riusciamo a capire prezzi e orari. Ma ci rendiamo conto che non è una soluzione praticabile: come ci arriviamo alla stazione, all'alba, con gli zaini... e in motorino? Ci rassegniamo al treno.

Ma sul sito delle ferrovie ci aspetta una bella sorpresa: esistono vagoni letto con aria condizionata. Così arriviamo a Bangkok il mattino seguente, non proprio freschi ma nemmeno distrutti.