Leo, il mio collega cinese in Nuova
Zelanda, mi aveva descritto la Cina come un paese sovrappopolato,
caotico ai limiti dell'invivibile. Lui veniva da Pechino ed
evidentemente non era mai stato al Sud. Probabilmente frequentava
poco le remote zone di provincia, così come io non sono mai stato in
Sardegna o in Basilicata.
Qui ad Anyang, come a Hekou, la
tranquillità regna sovrana. Il traffico è più che sostenibile,
fatto più che altro di biciclette elettriche, e ogni individuo ha il
suo spazio. Non c'è certo da sgomitare per camminare sui marciapiedi
o per entrare nei negozi.
Ci rimaniamo cinque giorni, in attesa
del treno per Pechino. Trascorriamo il tempo nell'ozio, nella
spaziosa stanza del 7 Days Inn o camminando per il quartiere. Stiamo
bene: ci sentiamo a nostro agio nella quiete e nei ritmi lenti di una
città che non ha motivo di correre.
Mangiamo quasi sempre ravioli al vapore
in un ristorante dietro l'angolo: è il nostro organismo che ce lo
chiede. Basta schifezze. Basta esperimenti ai suoi danni. La cuoca è
molto gentile con noi. Ci lascia sbirciare nelle padelle in modo che
possiamo indicare il ripieno che preferiamo: funghi, carne,
verdure... perché, ovviamente, qui nessuno parla inglese e noi il
cinese non l'abbiamo certo imparato in due settimane.
La gente è curiosa di noi, ancor più
di quanto lo siamo noi di loro. L'ultimo giorno di permanenza
lasciamo libera la stanza e ci sediamo sui divani della hall, in
attesa che sia ora di andare a prendere il treno. Due uomini e una
donna si avvicinano, ci guardano, parlano di noi tra loro. Poi si
siedono vicino a noi e ci fanno delle domande, ma noi non capiamo
niente e glielo diciamo, in un'altra lingua. Quelli allora vanno
avanti argomentando qualcosa sul fatto che noi non capiamo niente e
via così. Per darci un taglio chiedo a Google di tradurre per me:
“Io non capisco il cinese.” Mostro il display del telefono a uno
dei due uomini e quello fa capire che non mi devo preoccupare. Ma
poi, come se si fosse già dimenticato di quanto ha appena letto,
prende in mano il mio cellulare e inizia a farmi altre domande,
immagino riguardo a certe funzioni che anche lui vorrebbe avere sul
suo enorme smartphone. È imbarazzante e divertente al tempo stesso.
Più imbarazzante che divertente a dire il vero. Prendo dalla tasca
dei pantaloni il mio taccuino per annotare quanto quella situazione
sia imbarazzante e li ritrovo tutti e tre alle mie spalle, a
commentare la mia scrittura, così strana ai loro occhi.
Che Leo non dicesse il falso l'avevo
capito già alla stazione di Xi'An e sul treno che ci ha portati fin
qui. Ma è alla stazione di Pechino capisco esattamente cosa
intendeva. Non credo di essere in grado di descrivere la quantità di
esseri umani che brulicano, si muovono, si scontrano. Più di un
formicaio, più di una miriade. Un puttanaio insomma.
Appena scesi dal treno non possiamo che
seguire la fiumana, che rallenta sempre più fino a fermarsi. Ma noi
non sappiamo perché: non riusciamo a vedere oltre le centinaia di
teste che abbiamo davanti. Lo scopriamo quando viene il nostro turno:
non è altro che un ordinario imbottigliamento all'imbocco delle
scale del sottopassaggio.
La metropolitana di Pechino è moderna
e ben sviluppata: 14 linee, treni ogni 3-4 minuti nelle ore di punta
e ottimi collegamenti. Ma non basta per avere la certezza di riuscire
a entrare nel vagone.
Questo capita anche a Milano, è vero,
anche se non esattamente allo stesso livello. Ciò che a Milano non
succede, però, è di trovarsi imbottigliati nei sottopassaggi di
raccordo tra una linea e l'altra, di metterci dieci minuti per
raggiungere una scala mobile.
Piede sinistro, piede destro. Un
centimetro alla volta. Il tale che cammina accanto a me non guarda
nemmeno dove va, si lascia portare dalla corrente mentre legge e
scrive messaggi sul suo telefono. Probabilmente vive questa scena
tutti i giorni. Anche quello accanto a lui ha il telefono in mano,
anche quello davanti. Praticamente tutti hanno in mano il cellulare,
appoggiato alla schiena della persone che li precede. Sento qualcosa
di freddo toccarmi il collo, penso sia un insetto, mi giro di scatto:
è quello dietro e mi guarda indispettito. Quasi gli facevo cadere il
telefono.
Ci muoviamo tutti in modo meccanico, con lo sguardo altrove. I
piccoli passi di centinaia di piedi mi fanno tornare in mente i
bambini di Another Brick In The Wall, il video dei Pink Floyd, che
alla fine finiscono nel trita-carne. Oppure si ribellano e
distruggono tutto.
A Pechino troviamo anche il tempo di
fare il nostro dovere di turisti: Muraglia Cinese, Città Proibita e
Piazza Tienanmen. Fatto, fatto, fatto.
La stanchezza ha raggiunto livelli mai
visti. Bisognerà farci qualcosa, e una mezza idea ce l'abbiamo già.
Tenetevi pronti.
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