mercoledì 17 luglio 2013

Stiamo arrivando. Forse siamo già lì!

Quel pomeriggio di giugno me ne stavo seduto sui gradini d'ingresso del Viet Lotus Hotel a fissare la pioggia. Una pioggia battente che, sul centro di Hanoi come su tutta l'Indocina, avrebbe continuato a scendere per i prossimi tre mesi. Ma non era affar mio, questo lo sapevo: l'indomani Laura e io saremmo partiti in treno per il confine cinese e presto avremmo cambiato latitudine, orizzonte e stagione.
Non so da quanto tempo fossi lì, mi ero semplicemente imbambolato e quasi non sentivo più i clacson e lo sciabordare dell'acqua sotto le ruote dei taxi. Il traffico continuava nel suo solito tenore; la gente mi passava davanti agli occhi nelle mantelle colorate, in bici, a piedi o in motorino. Ma io non vedevo i dettagli, non percepivo ogni passante come un individuo. Vedevo solo macchie liquide di colore.
Una donna camminava lungo il marciapiede dall'altro lato della strada. Non so perché misi a fuoco proprio lei. Procedeva senza schivare le pozzanghere, avvolta nella sua mantella nera. La sua faccia rimaneva nell'ombra del cappuccio e non riuscivo a darle un'età, non potevo dire se fosse bella o brutta. La vidi attraversare la strada proprio all'altezza in cui mi trovavo io, senza guardare a destra o a sinistra. Veniva verso di me e ora potevo vederle il viso: aveva un'espressione che giudicai saccente, di quelle facce che hanno le persone che la sanno lunga e stanno per rivelare, a te che non capisci un cazzo, come gira il mondo.
Mi si parò davanti e io mi sentii subito in imbarazzo. Ero anche irritato per esser stato privato del mio status di osservatore e per il fatto di dover ora partecipare a una qualche conversazione.
“Hello.” dissi.
“Non mi riconosci?” mi rispose in italiano, mentre la sua mantella nera mi gocciolava sui piedi bagnandomi i sandali.
La guardai più attentamente: non mi ricordava proprio nessuno. E poi, pensai, mi sarei ricordato di un'asiatica che parla italiano. Diventai diffidente, come sempre. Pensai che il gestore dell'albergo le avesse detto che ero italiano e che, col pretesto di quella lingua imparata chissà come, avessero ordito un piano per abbindolarmi e derubarmi.
“Non credo che ci conosciamo.” dissi.
“Sicuro che non ci siamo visti prima?”
“Assolutamente sicuro.”
Rimasi in silenzio. Toccava a lei ora: doveva dirmi chi era. Oppure poteva spremersi in un sorriso imbarazzato, se ne era capace, e dirmi che si era sbagliata. Invece avvicinò le labbra al mio orecchio. La sua mantella mi gocciolava addosso, bagnandomi i pantaloni e la maglietta. Mi sussurrò il suo nome.
“Non conosco nessuna Lara” dissi.
Roteò gli occhi verso l'alto, tra il divertito e lo spazientito.
“Non Lara, Lora!”
“Nemmeno.”
“Ma allora sei proprio stupido! L'ora! ELLE-APOSTROFO-ORA.”
Ma certo, l'ora! Sapevo che sarebbe arrivata e adesso che ci pensavo aveva ragione lei: ci eravamo già incrociati. Ma ogni volta avevo trovato un pretesto per evitarla, infilandomi in un negozio all'ultimo momento, attraversando la strada, o cacciando la testa sott'acqua. L'ora di tornare a casa...

Quando la donna sparì (quando tornò a non esistere) rimasi a riflettere. Passai un momento difficile su quel gradino. Mi accorsi che un'ombra si era allungata su di me, silenziosa, senza che me ne fossi accorto. Qualcosa si era rotto, una luce s'era spenta da qualche parte e io non trovavo l'interruttore. Non avevo nemmeno in tasca un fiammifero. Buio.
Iniziai a farmi delle domande, a darmi delle risposte. Non ero andato fin là per ammalarmi di un male che mai in vita mia mi aveva sfiorato. Non avevo attraversato mezzo mondo per sentirmi oppresso come quand'ero un uomo bloccato nel traffico e avevo un orologio al polso.

Immaginate di essere stati a una festa di matrimonio. Avete mangiato e bevuto a volontà, senza badare al portafoglio né al fegato, e ora siete stanchi ma soddisfatti, pronti per tornare alla normalità e ricordarvi di questo giorno magico. Entrate in casa e quando accendete la luce tutti i vostri amici sono lì, con dei cappellini buffi in testa: “Sorpresa!” Vi eravate dimenticati che oggi è anche il vostro compleanno ed è appena cominciata un'altra festa. Intorno a voi c'è musica, c'è da bere e da mangiare, ma voi avete altro per la testa.
È più o meno così che mi sentivo in quel momento. Pensai che sarebbe stato uno spreco continuare ad attraversare paesi e continenti senza riuscire a vedere più niente, senza avere fame.

Tornai dentro e ne parlai con Laura. Anche lei era stanca; aveva raggiunto un livello d'entusiasmo minimo e non aveva certo la forza per risollevare il mio, fisiologicamente più basso. Cercammo di ragionare insieme, mettendo su un piatto della bilancia il nostro progetto (non ufficiale ma nemmeno segreto) di tornare a casa via terra attraversando la Cina, la Mongolia, la Russia, eccetera. Oltre alle infinite traversate c'erano anche da considerare i problemi relativi ai passaporti e ai visti: tutti guai che solo un anno prima avremmo affrontato con spirito d'avventura e che ora ci sembravano solo insormontabili rotture di coglioni. Sull'altro piatto della bilancia ci abbiamo messo la stanchezza e la voglia di essere a casa, tra le nostre cose e i nostri cari. E la voglia di tornare ai nostri progetti, alle migliaia di cantieri aperti con la fantasia negli ultimi due anni alla voce “Quando torneremo...”

Se il nostro viaggio era un cerchio, quel cerchio andava chiuso. Su questo non avevamo dubbi. Forse l'errore era stato pensare di doverlo chiudere sulla carta geografica, mentre bastava farlo nella nostra testa.
Ci abbiamo messo un altro mese a fare di quelle sagge parole un'intenzione, e infine un'azione. Ormai avevamo il visto per la Cina, e la Cina era ciò che avevamo aspettato per tanto tempo. E poi, poteva anche darsi che la Cina stessa ci avrebbe rigenerati, che ci avrebbe ridato le energie e la voglia di farci frullare ancora sugli autobus, di farci stipare nei vagoni di terza classe, di passare notti insonni in stanze troppo calde.
Ma non è successo. A Xi'An, nella lussuosa suite di un ostello (!), il giorno del mio compleanno, abbiamo messo uno stop a tutti i se e a tutti i ma. Abbiamo comprato un biglietto aereo. Per Mosca? Per Berlino? Parigi, Londra, Riga, Helsinki? No. Per Milano. Tutte le altre sarebbero state inutili consolazioni simboliche di cui non avevamo più bisogno. Tanto valeva avere il coraggio di tornare, così come avevamo avuto quello di partire. Appena la compagnia aerea ha confermato l'ordine via e-mail abbiamo iniziato a ridere come due scemi. Due scemi contenti.


Stiamo arrivando. Forse siamo già lì!

domenica 14 luglio 2013

Ultime da Pechino: tenetevi pronti

Leo, il mio collega cinese in Nuova Zelanda, mi aveva descritto la Cina come un paese sovrappopolato, caotico ai limiti dell'invivibile. Lui veniva da Pechino ed evidentemente non era mai stato al Sud. Probabilmente frequentava poco le remote zone di provincia, così come io non sono mai stato in Sardegna o in Basilicata.
Qui ad Anyang, come a Hekou, la tranquillità regna sovrana. Il traffico è più che sostenibile, fatto più che altro di biciclette elettriche, e ogni individuo ha il suo spazio. Non c'è certo da sgomitare per camminare sui marciapiedi o per entrare nei negozi.
Ci rimaniamo cinque giorni, in attesa del treno per Pechino. Trascorriamo il tempo nell'ozio, nella spaziosa stanza del 7 Days Inn o camminando per il quartiere. Stiamo bene: ci sentiamo a nostro agio nella quiete e nei ritmi lenti di una città che non ha motivo di correre.
Mangiamo quasi sempre ravioli al vapore in un ristorante dietro l'angolo: è il nostro organismo che ce lo chiede. Basta schifezze. Basta esperimenti ai suoi danni. La cuoca è molto gentile con noi. Ci lascia sbirciare nelle padelle in modo che possiamo indicare il ripieno che preferiamo: funghi, carne, verdure... perché, ovviamente, qui nessuno parla inglese e noi il cinese non l'abbiamo certo imparato in due settimane.
La gente è curiosa di noi, ancor più di quanto lo siamo noi di loro. L'ultimo giorno di permanenza lasciamo libera la stanza e ci sediamo sui divani della hall, in attesa che sia ora di andare a prendere il treno. Due uomini e una donna si avvicinano, ci guardano, parlano di noi tra loro. Poi si siedono vicino a noi e ci fanno delle domande, ma noi non capiamo niente e glielo diciamo, in un'altra lingua. Quelli allora vanno avanti argomentando qualcosa sul fatto che noi non capiamo niente e via così. Per darci un taglio chiedo a Google di tradurre per me: “Io non capisco il cinese.” Mostro il display del telefono a uno dei due uomini e quello fa capire che non mi devo preoccupare. Ma poi, come se si fosse già dimenticato di quanto ha appena letto, prende in mano il mio cellulare e inizia a farmi altre domande, immagino riguardo a certe funzioni che anche lui vorrebbe avere sul suo enorme smartphone. È imbarazzante e divertente al tempo stesso. Più imbarazzante che divertente a dire il vero. Prendo dalla tasca dei pantaloni il mio taccuino per annotare quanto quella situazione sia imbarazzante e li ritrovo tutti e tre alle mie spalle, a commentare la mia scrittura, così strana ai loro occhi.

Che Leo non dicesse il falso l'avevo capito già alla stazione di Xi'An e sul treno che ci ha portati fin qui. Ma è alla stazione di Pechino capisco esattamente cosa intendeva. Non credo di essere in grado di descrivere la quantità di esseri umani che brulicano, si muovono, si scontrano. Più di un formicaio, più di una miriade. Un puttanaio insomma.
Appena scesi dal treno non possiamo che seguire la fiumana, che rallenta sempre più fino a fermarsi. Ma noi non sappiamo perché: non riusciamo a vedere oltre le centinaia di teste che abbiamo davanti. Lo scopriamo quando viene il nostro turno: non è altro che un ordinario imbottigliamento all'imbocco delle scale del sottopassaggio.
La metropolitana di Pechino è moderna e ben sviluppata: 14 linee, treni ogni 3-4 minuti nelle ore di punta e ottimi collegamenti. Ma non basta per avere la certezza di riuscire a entrare nel vagone.
Questo capita anche a Milano, è vero, anche se non esattamente allo stesso livello. Ciò che a Milano non succede, però, è di trovarsi imbottigliati nei sottopassaggi di raccordo tra una linea e l'altra, di metterci dieci minuti per raggiungere una scala mobile.

Piede sinistro, piede destro. Un centimetro alla volta. Il tale che cammina accanto a me non guarda nemmeno dove va, si lascia portare dalla corrente mentre legge e scrive messaggi sul suo telefono. Probabilmente vive questa scena tutti i giorni. Anche quello accanto a lui ha il telefono in mano, anche quello davanti. Praticamente tutti hanno in mano il cellulare, appoggiato alla schiena della persone che li precede. Sento qualcosa di freddo toccarmi il collo, penso sia un insetto, mi giro di scatto: è quello dietro e mi guarda indispettito. Quasi gli facevo cadere il telefono.
Ci muoviamo tutti in modo meccanico, con lo sguardo altrove. I piccoli passi di centinaia di piedi mi fanno tornare in mente i bambini di Another Brick In The Wall, il video dei Pink Floyd, che alla fine finiscono nel trita-carne. Oppure si ribellano e distruggono tutto.

A Pechino troviamo anche il tempo di fare il nostro dovere di turisti: Muraglia Cinese, Città Proibita e Piazza Tienanmen. Fatto, fatto, fatto.
La stanchezza ha raggiunto livelli mai visti. Bisognerà farci qualcosa, e una mezza idea ce l'abbiamo già. Tenetevi pronti.


sabato 13 luglio 2013

Kunming-Anyang: la Cina in treno

A Kunming, capoluogo dello Yunnan, trascorriamo circa cinque giorni. Giorni oziosi fatti di brevi passeggiate, chiacchiere da ostello con altri viaggiatori e pasti consumati sui marciapiedi, ai tavoli di ristoranti improvvisati che offrono carni alla griglia, riso, noodles e ravioli al vapore.
Più o meno lo stesso copione si ripete a Xi'An, una città antica (più di 3100 anni di storia), capoluogo dello Shaanxi. Solo che qui la questione alimentare si risolve in ristoranti al chiuso, in cui sperimentiamo pietanze mai viste prima. Costante è la difficoltà di comunicazione, che ci porta a non sapere mai con certezza cosa abbiamo ordinato e ad affidarci alla fortuna e alla buona fede di chi ci sta servendo.
Kunming e Xi'An. Due grandi città, due capoluoghi. Iniziamo a sentire il richiamo della provincia, del posto tranquillo. Siamo diretti a Pechino, la Grande Capitale, ma nulla ci vieta di fare una tappa intermedia. Così, consultata la mappa delle ferrovie, scegliamo Anyang. Una città di una certa rilevanza storica, ma luogo di scarso interesse turistico, in cui non c'è motivo di andare. È il luogo che fa per noi.

Il vasto piazzale della stazione di Xi'An è affollato di gente che si muove in tutte le direzioni. Attraversarlo vuol dire muovere piccoli passi, schivare di continuo, non lasciarsi scoraggiare dalle urla e dalle spinte di chi, senza guardarci in faccia, vuole passarci oltre. Nella confusione generale capiamo che c'è una lunghissima coda da fare per entrare nella stazione. Uno alla volta si passa accanto alla guardiola, dalla quale un poliziotto ammette solo le persone munite di biglietto. È una seccatura, ma se non lo facessero la stazione rimarrebbe semplicemente bloccata. Una volta dentro, infatti, siamo come due pesci in un acquario troppo piccolo. Sono solo le 19:00, il nostro treno è in partenza alle 21:30 e non ci resta che fare come tutti: scegliere un punto a caso del pavimento, sederci sugli zaini a guardare i piedi della gente schivarci e farsi strada nella corrente.
Verso le 20:00 il numero del nostro treno compare sul tabellone luminoso. Ci mettiamo in coda. C'è già molta gente accampata sul pavimento: pochi hanno avuto la fortuna di trovare una sedia libera. Qualcuno mangia, qualcun altro gioca a carte. Famiglie, gruppi di amici, anziani con grossi sacchi di iuta al seguito. Ci sediamo di nuovo sugli zaini ad aspettare che aprano le porte metalliche e che ci facciano accedere al binario. Accanto a noi una mamma fa fare la cacca al proprio bambino nel piatto in cui ha appena finito di mangiare. Abbandonerà il tutto con noncuranza sotto il sedile sul quale è seduta. Alle 21: 20 la calca si serra a ridosso delle porte, ma quelle non si aprono. Venti minuti più tardi, mentre sto fissando il piccolo fazzoletto di pavimento libero davanti ai miei occhi, sento un boato. Il tabellone luminoso comunica che il treno partirà alle 22:20. Manca l'aria e fa caldo, ma non c'è molto da fare.

Nel salire sul treno mi trovo faccia a faccia con un tale. Ha un grosso sacco di iuta caricato su una spalla e  un ventilatore, con piantana e tutto, nell'altra mano. Io ho il solito zainone sulle spalle, lo zaino piccolo sul davanti e la chitarra in mano come Toto Cutugno. Siamo all'entrata del vagone, già affollato di viaggiatori. Non ci passiamo. Le persone in fila dietro di me si bloccano sui gradini e mi spingono in avanti; l'uomo col ventilatore mi spinge indietro. Per farla breve, faccio l'errore "culturale" di indietreggiare. Mi troverò a percorrere un intero vagone in retromarcia, ad impigliarmi nella maniglia di una porta e prendere a zainate praticamente tutti i passeggeri, più divertiti che infastiditi dalle mie goffe manovre. L'uomo di fronte a me continua ad avanzare, io non trovo un'ansa nella quale ritirarmi e alla fine non mi resta che spingere anch'io, spremermi contro quel tale e contro la gente ai lati finché non riusciamo a sgusciare via, ognuno nella sua direzione. Se l'avessi fatto subito avrei evitato di congestionare il traffico e di passare per ridicolo, dato che non mi sembra essere una questione di educazione. La gente è semplicemente troppa e lo spazio troppo poco: per starci non c'è altro modo che stringersi. Stringersi molto.

Ripercorro il vagone e raggiungo Laura, che ha già preso posto. Noi siamo fortunati: per quanto i sedili siano scomodi e angusti, noi abbiamo i posti assegnati. C'è talmente tanta gente che si sposta in treno che, nonostante la rete sia moderna e ben sviluppata, vengono venduti più biglietti di quanti siano i posti a sedere: i cosiddetti posti "in piedi". Noi abbiamo comprato i biglietti con cinque giorni di anticipo ed erano gli ultimi due sedili rimasti su questo treno. Ci sarebbero i vagoni con le cuccette, o altri con sedili più grandi e reclinabili, ma i posti erano esauriti per settimane.

Seduta di fronte a noi c'è una ragazza che parla un po' di inglese. Ci offre delle piccole prugne e vuol fare un po' di conversazione. Siamo gli unici stranieri nel vagone (e forse in tutto il treno) e la gente è curiosa. Molti chiedono alla ragazza da dove veniamo: "Yìdàlì" risponde lei, e quelli annuiscono guardandoci.
Abbiamo tutta la notte davanti. Molte donne hanno comprato un solo biglietto e tengono in braccio i loro bambini. Finiranno col dormire per terra e lasciare il sedile ai figli. C'è gente seduta sul pavimento lungo tutto il corridoio, gente davanti ai bagni, gente sui gradini, gente sulle soglie, gente che dorme in piedi accasciata sui poggiatesta dei sedili.
Ma non uno screzio. Non un litigio. Solo tanta pazienza. Ogni volta che qualcuno deve andare in bagno tutti si svegliano e senza dire beh si alzano, lasciano passare, si risiedono. Lo stesso al passare del carrello dei cibi o ad ogni stazione, quando scendono e salgono i passeggeri con le loro valigie. Quando a scendere è un passeggero che aveva un posto a sedere, le persone usano quel sedile a turni, comunicando i cambi con semplici sguardi.
A me manca un po' il respiro. Sono seduto tra Laura e una signora con la figlia in braccio; posso appena muovere i piedi di qualche centimetro, incastrato come sono tra le gambe degli altri, i bagagli, la chitarra... E poi le sigarette, anche se il cartello dice che non si può. Certo, le persone vanno a fumare nello spazio tra un vagone e l'altro, ma che differenza fa? L'aria è pesante e non c'è altra soluzione che aspettare con pazienza l'indomani mattina.

Ci sveglia un sole pallido pallido. Una luce grigia illumina il vagone. Il treno entra nella stazione di Anyang alle otto del mattino e la gente ci aiuta a caricarci gli zaini in spalla, ci fa spazio per uscire. Lasciamo loro altri due posti liberi da spartire.
Per prima cosa compriamo il biglietto per Pechino, con largo anticipo, determinati a viaggiare di giorno e su un sedile comodo. Ma tutto ciò che troviamo, dopo un'ora di coda allo sportello, sono due posti come quelli che abbiamo appena lasciato, per un treno che parte quattro giorni dopo.

mercoledì 10 luglio 2013

Siamo onesti: siamo ipocriti

La piazza del centro di Kunming è un enorme monumento al capitalismo più genuino, quello entusiasta degli albori, che ancora non ha imparato a mascherarsi dietro i banchetti per le adozioni a distanza, o a scaffali di prodotti biologici. Una zona a traffico limitato assediata da decine di banche, luccicanti centri commerciali, fast food americani.

Proprio in uno di quei fast food ci eravamo rifugiati, presi da fame improvvisa. (D'accordo: che senso ha andare in Cina per poi mangiare da McDonald? E soprattutto, che senso ha mangiare da McDonald? Ma mettiamo per un attimo da parte gli integralismi. Un occidentale, per quanto dica peste e corna dell'Occidente – seduto sulla poltrona di casa sua – sente poi bisogno dell'Occidente quando i punti di riferimento vengono a mancare. Come un bambino abbandonato torna sempre, anche se con rancore, a cercare i suoi vecchi, così l'occidentale, almeno una volta al mese, si trova a cercare conforto tra le braccia tossiche della Grande Distribuzione).

Inizia a piovigginare e stiamo per tornare verso l'ostello. Verso l'uscita della piazza c'è una ragazzina, in piedi accanto a una fioriera. Ha una frangia di capelli dritti come spaghetti che le copre completamente gli occhi, un paio di jeans e uno zainetto dagli spallacci lunghi che le poggia sul sedere. Non ne ho mai letto uno in vita mia, ma mi fa pensare a un personaggio di un manga giapponese. Con lei ci sono un uomo e una donna che potrebbero essere i genitori. Lui, in una polo lilla, preme dei tasti su un piccolo lettore mp3 e fa partire la base di una canzone cinese. Il suono esce pulito e potente da un amplificatore poggiato sul lastricato, al qual è collegato anche un microfono. L'uomo attacca a cantare sulla base con una voce impostata e vibrante, con la sicurezza di chi conosce il proprio lavoro a memoria. Solo sugli acuti mi sembra che stoni un poco, ma ciò nonostante i passanti iniziano a radunarsi intorno ai tre e sembrano entusiasti. La donna inizia una danza armoniosa e saltellante, facendo svolazzare la larga gonna. La gente deve arretrare un poco per lasciarle spazio e le fa cerchio intorno.
Alla fine della prima canzone i due adulti sembrano incitare la ragazzina a cantare. Lei non reagisce. Non dice nulla; non scuote la testa per dire no, non prende il microfono per dire sì. L'uomo canta una seconda canzone. La donna ricomincia a ballare. Qualcuno, prima di andarsene, lascia una banconota nella custodia floscia dell'amplificatore.
Finita la seconda canzone prende il microfono la ragazzina. Ora è chinata a terra, con il lettore mp3 in mano. Inizia a cantare tenendo la bocca lontana dal microfono, seguendo la voce originale di una canzone. Canta bene, comunque: soave e intonata. Penso che forse è agli inizi e sta prendendo coraggio. Alzo lo sguardo per vedere le facce di quelli che forse sono i suoi genitori: saranno fieri? Commossi? Severi?
Sono semplicemente spariti. La musica smette d'improvviso, come se avessero tagliato i fili della corrente. Vedo la ragazzina discutere con un tipo sui trenta, in camicia bianca e scarpe lucide, che nel frattempo sta chiamando qualcuno dal suo gigantesco smartphone. Compaiono delle guardie private e la ragazzina raccoglie di corsa la strumentazione. C'è la polizia poco distante, quella vera. Gli agenti chiacchierano distrattamente al chiuso di una piccola stazione di controllo, ma non sembrano occuparsi di queste cose. Le guardie private, appurato che la musica è cessata, lasciano stare la ragazzina e partono alla ricerca dei due adulti (che ormai saranno lontanissimi).
Nel silenzio lasciato dall'amplificatore spento mi accorgo che c'è altra musica nell'aria, proveniente da altri angoli della piazza. Altre voci di bambini, anche quelle troncate una ad una al passare delle guardie.
Alcuni minuti più tardi la ragazzina dalla lunga frangia si riunisce ad altri bambini, quasi tutti più piccoli di lei. In tutto sono poco meno di una decina, alcuni con un amplificatore caricato sulla schiena, altri con un microfono in mano. Confabulano tra loro e decidono che è meglio andarsene di lì.

Mettete pure, accanto al banco dei prosciutti, un banchetto per adottare (si intende a distanza) un tenero negretto del Burkina Faso (ma dov'è il Burkina Faso?). Ma non metteteci sotto gli occhi i bambini poveri del quartiere. Quelli non sono teneri. Quelli ci ricordano chi siamo stati ieri e chi siamo veramente oggi.

sabato 6 luglio 2013

Da Hekou a Kunming, the Toilet Experience

Lasciamo la desolata stazione di Hekou in tarda mattinata. Il bus scivola dentro a un'autostrada nuova di zecca: asfalto regolare, guardrail e arredi impeccabili, stazioni di servizio immacolate e deserte. Intorno a noi coltivazioni a perdita d'occhio, terra rossa e terrazzamenti. 
C'è un rumore fastidioso a bordo, una specie di beep intermittente che comincia di quando in quando. Inizialmente i beep sono distanti l'uno dall'altro, ma si fanno progressivamente più frequenti, fino ad essere quasi un suono continuo, per poi scemare di nuovo e scomparire. Si tratta di un marchingegno che, oltre a perforare i timpani della gente, serve all'autista per sapere dove sono i controlli della velocità. Ma potrebbe anche farne a meno, dato che questi controlli sono ovunque.
A parte quel suono fastidioso, non mi sembra vero di viaggiare ad una velocità accettabile, su una strada dritta e priva di buche, senza sorpassi, sbandate e brusche frenate. Ma la festa dura poco, perché l'autostrada è interrotta (forse non è stata ancora completata). E allora è all'autista che non sembra vero di potersene finalmente infischiare dei controlli e lasciarsi andare a sorpassi, sbandate e inchiodate a suo piacimento.
Inizialmente passiamo attraverso una città dalle decine di semafori, tutti rossi, a distanza regolare l'uno dall'altro. Poi, appena fuori dalla zona urbana, l'asfalto viene a mancare per un po' ed è come essere in barca. In mezzo alla tempesta. A un certo punto rimaniamo bloccati in un ingorgo, in attesa che una gru rimuova un enorme pannello pubblicitario crollato in mezzo alla strada.
Il nostro autista, va detto, è proprio uno stronzo e ce la mette tutta per rendersi antipatico. Se c'è una coda, lui sente il dovere morale di occupare l'altra corsia e sorpassare tutti. Se c'è un valido motivo per rallentare, lui accelera. Poi inchioda.

Finalmente una sosta: mi serve un bagno e sto morendo di fame. Ancora non lo so che risalirò sull'autobus con la pancia vuota e con la vescica piena, pur avendo pagato sia per il pranzo che per l'entrata al bagno. Laura non ha appetito, dice. L'ultimo tratto di strada le ha dato la nausea e preferisce rimanere a bordo.
Ad un lato dello spiazzo, delimitato da costruzioni fatiscenti e spazzatura, c'è una piccola mensa. C'è poco tempo e la gente si accalca in una coda cinese: chi si impone sugli altri viene servito per primo. Io, almeno secondo Darwin, sarei destinato all'estinzione, se non altro per il fatto che non so una parola di cinese. Decido però che voglio sopravvivere: mi piazzo davanti all'espositore e indico le due cose che mi sembrano meno disgustose. La signora dall'altro lato del banco spiaccica due cucchiaiate di cibo in un vassoio di metallo a scompartimenti (l'ultima volta che ci ho mangiato dentro è stato alla mensa dei poveri a Città del Guatemala) e mi liquida in fretta, dandomi come resto delle banconote impiastrate di salsa di soia.
Riuscirò a mandar giù solo una parte di quel cibo. In uno degli scompartimenti, quello che mi era sembrato essere pollo si è rivelato un avanzo di macelleria: ossa e articolazioni di animali vari con ben poca carne attaccata, e comunque piccante da farmi grondare di sudore. Per fortuna nell'altro scompartimento riuscirò a isolare dei brandelli di uovo e qualche pezzo di pomodoro.
Bene. Di fame non si muore per così poco. Almeno fatemi andare in bagno.
C'è una scritta di vernice azzurra su di un muro grigio: WC. All'ingresso una signora mi chiede 1¥. Pago e faccio un passo avanti, oltre il muretto che mi separa dalla soglia dei bagni. E sulla soglia rimango, pietrificato, per mezzo minuto buono. Davanti a me c'è un tale, accovacciato. Fuma una sigaretta e sembra rilassato. Sta cagando. Sotto di lui un buco pieno di merda. Cerco di capire come dovrei comportarmi: la stanza è larga circa due metri e si restringe verso il fondo. Sul lato sinistro c'è una specie di fossato di cemento, per i bisogni liquidi; sul lato destro tre piccole buche, per quelli solidi. Un odore terribile e niente muri, niente porte, niente sciacquoni. Niente di niente.
Il tipo accovacciato mi guarda. Sto facendo la figura dello scemo. Ormai sono qui, penso, ci devo almeno provare. Mi dirigo al lato sinistro e provo a fare il mio dovere. Ci provo ma non ci riesco. Tiro su la cerniera dei pantaloni ed esco di corsa, imprecando nella mia lingua. La signora all'ingresso mi guarda perplessa.
Allora mi è tornato in mente quel ragazzo di origine cinese, cresciuto nel Sultanato del Brunei. Eravamo in una strada del centro di Siem Reap, in Cambogia, coi piedi in ammollo in una vasca piena di pesci carnivori che si occupavano di ripulirci da calli e pelli morte. Era sera, intorno a noi un gran baccano di gente in giro per locali, musica e venditori. Gli avevo chiesto del suo paese d'origine, se ci fosse mai stato. Lui si era limitato a dire che in Cina aveva fatto la peggior "toilet experience" della sua vita e che ci consigliava vivamente di portarmi dietro delle pastiglie contro la diarrea. La sua fidanzata annuiva, mentre io e Laura ci guardavamo confusi. Ora so che cosa intendeva.
Ritorno alla mensa. Questa volta provo a farmi dare dei noodles e li porto a Laura, ma anche quelli sono  immangiabili: li abbandonerò su un paracarro. Infine mi guardo intorno in cerca di un angolo per fare ciò che non ho potuto fare prima, ma l'autista ha appena finito di fumare. Butta il mozzicone in una pozzanghera, si siede al posto di guida e suona il clacson: è ora di ripartire.

L'ultimo tratto del viaggio torna ad essere piacevole. Riprendiamo l'autostrada e attraversiamo la Foresta di pietra, una distesa di rocce calcaree simili a stalagmiti che danno l'impressione di essere tronchi d'albero pietrificati.
Arriviamo a Kunming prima del tramonto, ma sarà buio da un pezzo quando avremo trovato un posto per la notte, dopo ore passate a disperarci e a camminare schiacciati dal peso degli zaini. Impossibile trovare un taxi libero, e se c'è non ci capisce e preferisce trovarsi un cliente più facile. Verso le undici finiamo in un ostello che ha un solo posto letto e mi trovo ad implorare la ragazza della reception di lasciarmi dormire da qualche parte sul pavimento. Sarà magnanima abbastanza da concedermi il divano del bar, dove per tutta la notte le zanzare approfitteranno senza scrupoli del mio corpo.

martedì 2 luglio 2013

Hekou, Cina: una cena da dimenticare

La sera ad Hekou c'è musica per le strade. Un gruppo di uomini sui cinquanta, seduti in cerchio su sedie di plastica, suona l'erhu, una specie di violoncello cinese dalla voce di donna. Uno di loro canta e tutti gli altri lo seguono, all'unisono sulla stessa melodia. Pochi loro compaesani si fermano a sentire, ma forse li ascoltano i vietnamiti, dall'altra parte del fiume. Poco più in là un impianto audio suona musica dance, e lì ci sono i giovani che ballano e si divertono. Nella piazza davanti al nostro albergo, invece, gente di mezza età è impegnata in una specie di danza aerobica.
Usciamo dalla nostra stanza che è già buio, in cerca di qualcosa da mangiare. Potremmo andare da KDS, una specie di Burger King locale: facile e indolore, un'esperienza nota e uguale in tutte le parti del mondo. Invece ci buttiamo a kamikaze in un locale dai divanetti rossi e tavoli in due file lungo i muri. In due secondi sfodero tutto il mio vocabolario cinese: entrando dico buonasera e rispondo con un grazie quando una ragazza mi porge il menù. Ma il menù è in cinese e la mia pronuncia di quelle due semplici frasi dev'essere stata orribile, a giudicare dal sorrisetto della mia interlocutrice. Per un momento mi sembra che tutti i clienti smettano di mangiare per guardare noi, due animali esotici, due orsi polari paracadutati in piazza del Duomo. La situazione è imbarazzante, ma anche divertente: le donne che lavorano nel locale si radunano intorno a noi e si sforzano di capire, mentre noi ricorriamo a strategie varie per spiegarci. Digito "pollo" e "patate fritte" sul traduttore che ho installato all'occorrenza sul cellulare, mostro loro il risultato in caratteri cinesi e sembra che ci siamo capiti. Per sicurezza una di loro ci porta al tavolo dei surgelati, per chiedere conferma che sia proprio quello che volevamo. Io e Laura ci guardiamo, e in quel breve sguardo comunichiamo più o meno quanto segue: Cos'è 'sta roba? Boh, è tutto scritto in cinese... Dovremmo provare a chiedere del cibo fresco? Sì, e come? Lasciamo perdere va', questa roba andrà benissimo. Sì dai, ho fame, quel che arriva arriva.
Ad arrivare invece è un ragazzo sui trenta dalla faccia butterata dall'acne, tale Gong Hu, che si offre come interprete. È gentilissimo, ma combina solo casini. Il suo inglese è davvero elementare e a nulla vale dirgli che abbiamo già ordinato: lui vuole aiutarci.
Le donne stavano già preparando quello che avevamo ordinato, ma Gong Hu dà loro dei contrordini. Quelle gli gridano dietro, ma lui è solo l'interprete, un ambasciator che non porta pena, quindi che facciano come dice, poche storie. Dopo aver impartito gli ordini ritorna da noi, appoggia sul tavolo il suo succo di frutta bevuto a metà e chiede se può sedersi con noi.
La conversazione procede a stento, ma la gentilezza di Gong Hu vale la fatica. Ci racconta che lavora nelle costruzioni e fa un sacco di quelle cerimonie tipiche delle persone timide: "Sank you, sank you very much!" mi dice arrossendo quando gli chiedo dove ha studiato inglese. Forse ha pensato che gli stessi facendo un complimento, e io non ho nessun motivo per precisare il contrario. Comunque mi risponde poco dopo, quando parlando si sé dice che sa un po' di inglese perché suo padre insegnava la lingua in una scuola media.
La cena è orribile. Prima arrivano delle crocchette bisunte dal sapore inconsistente. (Non sembra proprio pollo. Ma allora cos'è?) Poi arriva una scodella di banane fritte (forse dono di Gong Hu, che ne mangia con noi). Infine ci vengono servite le patate fritte, mollicce e crude all'interno. Ingoiato il tutto, Gong Hu chiede più volte se vogliamo ordinare altro e noi, terrorizzati, facciamo scene da mani sulla pancia: "No, grazie, siamo pieni da scoppiare!"
Una cena da dimenticare, un'esperienza da ricordare. Usciamo in fretta, diretti al KDS.