sabato 23 giugno 2012

Arrivederci e grazie, America Latina

Talara è una città di mare, una città industriale. Lungo la costa desertica e montagnosa le spiagge accessibili sono rare: ovunque si trovano aree private e vigilate in cui arrugginiscono gru, carriponte, camini di raffineria, petroliere in attesa di salpare. La città si regge grazie all'azienda Petro Perù e ai suoi numerosi (e danarosi) lavoratori. Si fa un gran parlare dell'imminente ampliamento degli impianti e delle opportunità economiche che questo porterà. Molto meno si parla del fatto che se, un giorno vicino o lontano, il petrolio deciderà di non farsi più trovare, qui non resterà che un porto fantasma.
Alla pizzeria Don Maximo, dove presto servizio da ormai tre settimane come pizzaiolo, ragazzo immagine e garante dell'italianità, la pizza più costosa si chiama Petrolera. Nella sua versione grande (il cui diametro corrisponde a quello di una pizza normalissima delle nostre) costa 44 soles, circa 13 euro. (La mia paga giornaliera, per circa sette ore di lavoro, è di 45 soles.) Marcos, il proprietario della pizzeria, dice “L'ho chiamata Petrolera perché qui è pieno di petrolieri e loro me la comprano. Hanno un sacco di soldi e gli piace farlo vedere.” È una pizza immonda, la Petrolera. Cominciamo col dire che le basi vengono precotte e poi congelate: “Se no mi escono crude” dice Marcos. E vabbè. Sopra mi tocca metterci: pomodoro, mozzarella, salame, pancetta, prosciutto, salamino piccante, carne trita, pollo, carne di maiale, cipolla. E per concludere una spolverata extra di mozzarella. Tutti questi ingredienti vengono congelati e riscongelati ogni giorno, finché non finiscono, proprio come le basi delle pizze. Ma alla gente piace, la chiamano pizza e sono contenti così. Chi sono io per criticare un modo altro di cucinare, di organizzare una cucina?

Io sono una persona, mi trovo nella mia pelle, vengo da tutti i giorni e i luoghi attraverso i quali ho vissuto. Sulla base di questo, umilmente ma risolutamente, dico: quelle pizze fanno schifo. Fanno proprio cagare. Ci sono momenti in cui si guarda fisso davanti a sé una piastrella schizzata di pomodoro, muovendo veloci le mani mentre le ordinazioni piovono una dietro l'altra, sapendo che l'ananas per la pizza Hawaiana è finito e che per aprire il freezer dovrai spostare la montagna di cose che ci hanno appoggiato sopra e rimetterle a posto, mentre altre ordinazioni si accumuleranno a montagna. In momenti così è difficile mantenersi relativisti a oltranza; quello che si pensa è: non solo non sapete fare la pizza, ma pure questa cucina è un casino di cose e persone alla rinfusa. Un lavoro tanto semplice e piacevole diventa un supplizio qua dentro. E poi, Marcos, perché non compri un paio di stracci nuovi, che così la smettiamo di usare tutti lo stesso e per tutti gli scopi.
Lo so, forse è impopolare e per giunta ingrato parlar male. Però la verità è questa: “Felice di averti conosciuta, America Latina. Arrivederci e grazie.” come si dice in questi casi; e lo si dice immaginandosi già girati di spalle mentre ci si allontana. Ho sete di silenzio, di strade in cui la gente comunichi con le parole e non con il clacson. Ho scoperto che mi piace la pacatezza, magari ipocrita e di certo occidentale, di chi ti si avvicina piano e ti dice “Mi scusi...”. Non mi va più di essere chiamato a fischi, che mi si urli con insistenza “Amigo” con il solo scopo di vendermi qualcosa. Vorrei che non mi mancasse mai più l'acqua da sopra la testa proprio nel momento in cui ho finito di insaponarmi, mi piacerebbe vivere in un luogo dove l'abbiano già scoperta l'acqua calda. Vorrei addormentarmi fissando un soffitto che non sia macchiato di vernice ai bordi,  incontrare sulla mia strada un imbianchino che abbia tra i suoi strumenti di lavoro lo scotch e i giornali. Mi piacerebbe essere servito da un artigiano che pensi alla qualità e solidità del frutto del suo lavoro, non solo a dargli un'apparenza che porti il massimo guadagno con il minimo sforzo. Non voglio mai più vedere gente che vernicia di grigio una vite e te la rivende per nuova: basta con i ritocchi, le pezze, il fil di ferro. Non mi voglio più trovare a pensare che è meglio non avere una cosa che vale, perché di certo te la ruberanno.
Nel bene e nel male, sono figlio dell'occidente. Mi preoccupo di me stesso nel sentirmi a mio agio nei rari centri commerciali che trovo da queste parti, quando posso trascorrere momenti a tu per tu con le merci, prendermi il tempo di contemplarle e valutarle senza che questo implichi relazioni umane. Mi sorprendo sempre più spesso a cercar di ritagliare il mio spazio individuale, nel posto in cui vivo e in quello in cui lavoro, uno spazio piccolo ma geometrico, che sia facile per me da pensare e organizzare. Non mi vergogno di quella che chiamano “la freddezza degli europei” e che sento mia, non la cambierei con la teatralità vuota che chiamano “calore latino”, la quale non fa che viaggiare su un diverso binario dell'umana ipocrisia.

Sono pensieri così, chiedo scusa. Ma, da buon occidentale, non dimentico di fare il punto. Primo: ho bisogno di tornare tra i miei simili, e non mi riferisco agli italiani: mi basterebbe non essere una mosca bianca, continuamente esposta agli sguardi e agli imbrogli. Perché puoi diventare competente e disinvolto quanto vuoi, ma quella è una differenza che non si può cancellare. Secondo: la novità è che ce ne andiamo, tra un po'. Ce ne andiamo in Nuova Zelanda. E come sempre siamo convinti che là, là sì che sarà tutto diverso.

giovedì 14 giugno 2012

Immigrati a Talara

Talara (Perú) by night
Oggi cambiamo casa. Un'altra volta.
Dopo esser stati da Doña Eleonora, in Ecuador, avevamo accettato l'invito di Walter a raggiungerlo nella sua casa peruviana di Talara per festeggiare il suo compleanno e a fermarci quanto volevamo, dato che lo spazio era tanto e che a lui faceva tanto piacere. Avremmo fatto grigliate e passeggiate al mare, in compagnia delle sue due figlie gemelle e di Judith, la loro madre.
Ma arrivati qui abbiamo trovato una persona diversa da quella che avevamo conosciuto nei Caraibi. Walter passa la notte e il giorno sul divano, guardando il calcio alla televisione; quando non ci sono partite si dà ai film comici e lo si sente scoppiare in risate sguaiate. Se ha fame, sete, prurito alla schiena, non deve far altro che urlare “Judith!”. Lei molla tutto e corre ad esaudire il desiderio del momento.
In questa casa manca di tutto: lampadine, detersivo per i piatti, qualsiasi alimento che non sia l'indispensabile per oggi. Il lavandino della cucina perde e la lavatrice è rotta. La corrente salta di continuo e la candela, l'ultima, è quasi finita. Non ha un soldo Judith. Era lei a mandare i soldi a Walter durante il nostro viaggio nei Caraibi, vendendo cose e chiedendo prestiti. Ma lui non sembra accorgersi di niente, non sembra preoccupato. Non fa che ripetere che deve essere il lavoro a cercare lui e non viceversa, ché quando uno ha una fama e un prestigio non può abbassarsi a certi livelli. E visto che me l'ha chiesto, io gliel'ho detto che questa mi pare una cazzata. Ma quando si entra in una famiglia, magari incasinata, separata e allargata come questa, le cose sono sempre complesse, stratificate di promesse e rancori che non è dato conoscere. Non glielo dico neanche che secondo me dovrebbe provare ad alzare il culo ogni tanto, e farselo da solo il caffè; o che dovrebbe provare a chiedersi da dove viene il cibo che mangia ogni giorno e preoccuparsi di ciò che manca alla sua famiglia. E a Judith, che in confidenza ci fa capire che non ne può più, non glielo dico neanche che se lui è così, forse, è anche perché gliel'ha sempre concesso. Le vorrei cantare: “Tu ti lamenti, ma che ti lamenti? Pigghia nu bastuni e tira fora li denti!”. Ma non sono affari miei. E se proprio dobbiamo dirla tutta, in questa casa ci mancano solo due turisti invitati da un'ospite occasionale.
Per qualche giorno abbiamo provato a stare qui, dando una mano con la spesa, la cucina, i lavandini che perdono e le lampadine. Ma non è il caso di rimanere oltre, tanto più che le cose peggiorano: Walter minaccia di andarsene in Argentina, dall'altra sua famiglia, e c'è aria di litigio. In questo momento, mentre facciamo gli zaini, lui è nell'altra stanza, sdraiato a pancia in giù. Le gemelle, una per gamba, gli stanno radendo i polpacci. Ha appena ordinato a Judith che gli porti un succo di frutta, quasi si è scocciato perché non ci sono dolci in casa. Ci tocca disturbarlo, per salutare e ringraziare tutti.

Già da qualche giorno Laura lavora come cameriera in un ristorante uruguayano. Io ho comprato per due euro una bicicletta da un tale chiamato Rambo e l'ho dipinta di rosso. Ho cazzeggiato per un po' lungo la strada costiera, salendo e scendendo dalle montagne aride e disseminate di spazzatura. Ho fatto il meccanico per un giorno e mi hanno pagato tre euro. Poi mi sono fermato alla pizzeria Don Maximo, la più rinomata di Talara. Ho parlato col titolare e mi sono spacciato per uno chef italiano, uno che di pizza ne sa a bizzeffe. Lo so che non si fanno queste cose, che non si dicono le bugie; ma il tale mi ha offerto vitto, alloggio e uno stipendio limitatamente misero. Ora passo le mie serate preparando pizze immangiabili, nel clima frenetico di una cucina. Quando c'è tempo mi chiedono di preparare qualche specialità e io, sotto gli occhi sospettosi dello chef (quello vero) mi metto all'opera.
Così ora siamo qui a Talara, ci prendiamo un po' di tempo per decidere sul da farsi. L'unica cosa che ci preme è di non perdere la leggerezza.

L'abito non fa il monaco. Però, ragazzi, che classe!

venerdì 8 giugno 2012

Doña Eleonora

Sulla porta della sua casa, a  Machala dell'Ecuador, Doña Eleonora ci accoglie con cortesia ma con un calore incerto. D'altra parte non ci conosce. Ci fa accomodare nel salotto al pian terreno, sui divani di legno intarsiato e velluto verde. Ha circa 70 anni e un occhio ridotto a una fessura per via di una recente operazione alla cataratta. “Scusatemi,” dice, “il dottore mi ha detto che non devo fare sforzi. Altrimenti mi avreste trovata in cucina a prepararvi la zuppa di pollo!” Parliamo un po' di com'è andato il nostro viaggio, dei problemi che abbiamo avuto a Panama, delle ultime notti passate sugli autobus. Poi ci accompagna di sopra, ci mostra un letto singolo in corridoio e dice “Accomodatevi, qui potete riposare quanto volete”.
Doña Eleonora è madre di Miriam, la nostra vicina di casa di San Giorgio su Legnano, originaria di Machala. Quando, ormai un anno fa, le avevamo parlato del nostro proposito di viaggiare in Ecuador si era offerta di prestarci la sua casa, dato che era vuota: “Dico a mia mamma di darvi le chiavi” aveva detto. Ma ora la sua casa, attaccata a quella in cui ci troviamo, è in affitto.
Miriam è una donna gentile, onesta, piena di casini. Si sbatte lavorando di giorno e di notte, corre a destra e a sinistra per Tomy, il suo ultimogenito di otto anni. E anche a lei come a noi tocca sorridere a quelle teste di cazzo degli altri vicini, per mantenere un minimo di pace condominiale. Sono curioso di vedere casa sua, il posto che ha deciso di lasciare e il posto in cui, forse, un giorno tornerà.
Anche Doña Eleonora ha lavorato in Italia per dieci anni, e in Italia si trovano tutti i suoi figli. È sola qui e per via delle mutate leggi sull'immigrazione non è in condizioni di poter ottenere un visto per raggiungere la famiglia. Del resto a Machala, grazie al denaro guadagnato lavorando come badante nel nostro Paese, se la passa relativamente bene: ha una casa grande e ben ristrutturata in cui non manca niente ed è padrona di altre due fette dell'edificio che dà in affitto. Mi stupisco quando mi dice che sta dando una mano alla figlia a pagare le rate della macchina: avevo sempre pensato che fossero gli emigrati a mandare i soldi a casa.

A casa di Doña Eleonora ci sistemiamo un po': è quasi un mese che viaggiamo all'insegna della precarietà abitativa e alimentare.  Laviamo l'infinità di vestiti sporchi che si sono accumulati negli zaini, riposiamo. Poco a poco anche la nostra ospite si rilassa e chiacchiera volentieri: ci parla di quand'era in Italia, di come non voleva imparare la lingua ma lo ha dovuto fare, dei casini dei figli. Sembra contenta di avere un po' di compagnia, di poter parlare con qualcuno.  Noi ascoltiamo volentieri un punto di vista nuovo su storie che ci suonano familiari e ci fa un certo effetto sentirle nominare con precisione luoghi come Busto Arsizio, Legnano, Rescaldina; luoghi tanto vicini e tanto lontani.
Tre giorni dopo, comunque, decidiamo di andar via. Non per un motivo particolare, solo perché ci sembra tempo. Doña Eleonora è gentile ma ha le sue abitudini, i suoi giri: non è abituata a situazioni come questa. Per esempio, se esce di casa prima che noi ci svegliamo chiude a chiave la porta e finché non torna restiamo chiusi dentro. E se esce mentre noi non ci siamo, rimaniamo chiusi fuori. Fino ad ora ci eravamo abituati a gente che ci lasciava le chiavi di casa con tranquillità, ma se ci mettiamo nei panni di questa donna anziana e sola che non ci ha mai visti prima la capiamo benissimo. E non vogliamo metterla in difficoltà.
“Grazie per la sua ospitalità. È stato un piacere conoscerla, arrivederci.”
“Buon viaggio, che vi vada bene e che Dio vi protegga.”

venerdì 1 giugno 2012

Odissea nei Caraibi, capitolo III: falsi traguardi

Allora non scherzava il vecchio! Mentre ci allontaniamo dal molo dell'isola Narganà a bordo di una lancia, poco distante dal punto in cui ieri io e Rafael abbiamo nuotato, passiamo accanto ad un coccodrillo enorme e serafico, che gioca a nascondersi e riemergere con gli occhi sul filo dell'acqua. Ma siamo vivi, abbiamo ancora tutti gli arti al loro posto. E poi siamo di buon umore stamattina perché ce ne stiamo andando in Colombia, finalmente. 
Panama è una maledizione, è un furto. Una nave cargo che passi per il Canale, oltre a dover essere costruita su misura, può pagare circa 500 mila dollari di pedaggio, a seconda del peso. A due turisti pezzenti come noi, che generalmente in situazioni analoghe se la cavano con meno di trenta dollari, per attraversare il paese da nord a sud tocca spendere più di 500 dollari tra alloggi, ricerca di informazioni, autobus e passaggi in barca. Meno male che pesiamo poco.
Ma scordiamoci il passato. Il mare è una meraviglia di colori cangianti e il vento scompiglia i capelli a chi ce li ha, porta via la polvere dagli zaini e cancella le tracce delle nostre lunghe attese. Passiamo attraverso isole dalla sabbia chiarissima, alcune grandi quanto basta per contenere tre palme e le loro radici. Ogni isola ha un proprietario, generalmente un occidentale danaroso. Non so bene a chi ci si debba rivolgere, se ci sia un punto vendita o un'asta su ebay, ma la cosa mi pare ripugnante. È come se a Britney Spears un martedì pomeriggio di novembre, dopo la ceretta, venisse l'idea di comprarsi l'Isola d'Elba e qualcuno gliela vendesse per davvero.

Navighiamo per circa sei ore a velocità sostenuta, decollando su ogni onda prendendo sonore culate contro la panca di legno ad ogni atterraggio. La nostra rotta si incontra con quella della gente del luogo, a pesca con le canoe a remi, e con quella di certe tartarughe giganti che, secondo il tale che guida la lancia, hanno appena deposto le uova e sono dirette in Australia. A bordo insieme noi ci sono due ragazze olandesi, vestite di Ray Ban, canottiera e pantaloncino inguinale, partite stamane da Panama City.
A Puerto Obaldia ci fermiamo per il controllo della polizia di frontiera e per farci fare il timbro di uscita da Panama sul passaporto. Nel cortile della caserma ci fanno mettere gli zaini a terra, aperti, e tutti noi ci mettiamo in fila contro la recinzione, mentre un cane antidroga annusa i bagagli. Poi si passa al controllo manuale. Un controllo piuttosto meticoloso per tutti, ma soprattutto per Walter, unico sudamericano del gruppo. Il poliziotto rovista dappertutto e trova un flacone. Lo apre e si rovescia nella mano una decina di grosse pastiglie, di diversi colori. E queste?” dice. Walter inizia a spiegargli che è uno sportivo professionista, che ha giocato con questo, che ha allenato quell'altro, che quelle pillole sono sostanze innocue. Inizialmente il tipo è diffidente, lo guarda severo con la bocca serrata al di sopra del giubbotto antiproiettile. Poi, sotto voce, gli dice “Ma non hai qualcosa per... per migliorare le prestazioni...” “Ma è chiaro compadre!” gli risponde Walter in tono complice. “Senti, se prendi quella bianca ti rimane duro tutta la notte, dai retta a me. Prendi, prendi compadre!” aggiunge offrendogli la pastiglia in regalo. Quello sorride, come quando si accetta di scherzare con qualcuno. Ma intanto la pastiglia la prende e se la mette in tasca. “Mi raccomando, un'ora prima” gli dice Walter mentre ci allontaniamo. Poco dopo ci confiderà che la pillola bianca era un rilassante muscolare: “Lo diamo ai giocatori dopo le partite, per farli dormire almeno dodici ore.”

Siamo arrivati. La lancia ci lascia a Capurganà, in Colombia. In tasca ci è rimasto meno di un dollaro, abbiamo speso tutto per poter arrivare qui. Ma qui dovrebbe finire il nostro incubo. Dico dovrebbe, perché dopo aver fatto il giro del paese ci rendiamo conto che non c'è nessun bancomat, come invece ci avevano assicurato. Né tanto meno ci sono strade per incamminarsi in cerca di altre soluzioni. Ancora una volta ci si può muovere solo via mare. I nostri stomaci si sono ormai ristretti e la delusione è tanta: ci eravamo rilassati, eravamo pronti per una lauta e dignitosa cena. E invece no, invece pane un'altra volta. E un uovo diviso in due.
Poi ci ricordiamo di avere trenta euro infognati da qualche parte e troviamo un vecchio antipatico che accetta di cambiarli. Ma con quelli non ci paghiamo che l'alloggio e neanche la metà del costo del passaggio fino a Turbo, il centro abitato in cui troveremo strade e servizi (o almeno così dicono). 
Le olandesi intanto si sono unite a noi e la cosa mi pare strana, nel senso che mi sembrano abituate ad altri standard. Invece vogliono dividere una stanza con noi quattro, la più economica possibile, dicono. Inizialmente penso che sia per la lingua, visto che non sanno una parola di spagnolo; penso che si sentano più sicure con noi. Ma il motivo vero è che sono rimaste senza soldi anche loro. E anche Walter, tra bibite fresche, laute mance e caffè è rimasto quasi al verde. L'unico che ha un po' di soldi (ma non certo abbastanza per tirar fuori tutti dai guai) è il tedesco, Rafael. E pensare che Walter lo sfotte perché non capisce le barzellette e perché si nasconde negli angoli per tirare fuori il portafoglio. “Intanto” gli dico io “è l'unico che se ne può andare da qua autonomamente.” “Questo è vero” mi risponde Walter. Poi, accennando col capo verso il culo di una delle olandesi che ci ondeggia davanti, aggiunge: “Certo che noi, cerchiamo soluzioni e incontriamo nuovi guai.” E in effetti, cosa c'è di peggio che essere in Colombia, in quattro e senza soldi? Essere in Colombia, in quattro, senza soldi e con due persone bionde a carico. Ma non possiamo mica dir loro “Arrangiatevi, ognuno per la sua strada.” Non sarebbe giusto. E poi se io e Laura siamo arrivati fin qui è anche all'aiuto delle tante persone corrette e generose che abbiamo incontrato, non ce ne dimentichiamo.

Il tipo dietro la scrivania della biglietteria dice “Dica.” E io penso “E che cazzo gli dico?” Poi prendo un bel respiro, gli spiego con calma la situazione e gli chiedo se non sia possibile, per sua grazia, pagare metà ora e il resto appena arriviamo, dopo aver prelevato. Mi aspetto un no, un'altra delle tante porte in faccia a cui in questi giorni abbiamo fatto l'abitudine. Ma il tipo dice “Quanto avete?”
Così torno dai miei compagni di viaggio, che sono seduti in cerchio sul terreno davanti alla porta della nostra stanza. Spiego in spagnolo che forse siamo salvi; Rafael traduce in inglese per le due ragazze. Poi contiamo quanti soldi abbiamo in tutto: arriviamo a poco meno della metà del prezzo del passaggio. Torno dal tipo della biglietteria e gli mostro la cifra, scritta su un foglietto stropicciato. Lui accetta; calcoliamo insieme l'ammontare del debito e ci diamo appuntamento a domani mattina.

Così è come abbiamo attraversato Panama e siamo arrivati a Turbo, dove una ressa di ragazzi aspettavano urlanti sul molo per portare valige, accompagnare gente agli autobus o al ristorante, chiamare un taxi in cambio di una mancia. Io mi faccio portare al bancomat e finalmente pago il mio debito. C'è poco da fare: mi sento meglio coi soldi in tasca.
Pochi minuti dopo succede che Rafael ci saluta: ha deciso di andare con le olandesi a Cartagena, mentre noi proseguiamo con Walter verso il Perù. Questo fatto, brusco e improvviso, mi coglie impreparato: mi rendo conto che mi ero affezionato a quel ragazzo riservato e autonomo che amava nuotare coi coccodrilli.
Ma così è, l'autobus parte e non c'è tempo per niente, solo per una stretta di mano e un saluto. Un minuto dopo esserci seduti sul bus che ci porta verso Medellin, Walter ha già preso posto accanto a una donna piacente sui quaranta, con un sacchetto sulle gambe. Si chiama Maria e il sacchetto è il suo unico bagaglio. Stava andando a Panama col marito, ma alla frontiera il marito l'hanno fatto passare e lei no, così che ora sta tornando verso casa, a Bogotà. Lei e Walter parlano, ridono e scherzano per tutta la durata del viaggio. Arrivati a Medellin Maria decide di non proseguire per Bogotà, almeno non subito. In centro, all'albergo Casa blue, prendiamo due camere doppie.

[FINE]