martedì 28 maggio 2013

Terrorismo da Lonely Planet (Km 1 in Thailandia)

Nel taxi che da Kuala Besut (Malesia) ci porta a Rantau Panjang (confine thailandese) nessuno apre bocca. Il ragazzo cileno siede davanti mentre la sua giovane sposa, seduta accanto a noi sul sedile posteriore, si addormenta a bocca aperta a pagina 114 della biografia di Steve Jobs. Il tassista, mani serrate sul volante, schiena piegata in avanti e occhi stretti, porta a termine le sue manovre ai limiti dello scontro frontale. Ma non fosse per quelli che vengono in senso contrario, che si buttano di lato per lasciargli strada, la sua carriera – e forse la nostra – sarebbe finita da tempo. Fuori dal finestrino scorrono palme a perdita d'occhio e poche case isolate. Molte sono baracche piuttosto mal messe, in legno o lamiere ondulate, ma non mancano le case in muratura dai portici ombrosi, sotto i quali la gente cerca sollievo dal sole stendendosi su un'amaca o sedendo in compagnia.
Coi due cileni non siamo amici. La nostra è una di quelle collaborazioni tra viaggiatori nate in un secondo e lunghe un minuto: li abbiamo sentiti contrattare il prezzo del passaggio verso la nostra stessa destinazione e abbiamo chiesto loro se volevano dividere la spesa. A volte queste situazioni portano alla nascita di belle intese, conversazioni interessanti e la promessa (quasi di certo vana, ma non si sa mai) di vedersi ancora da qualche parte nel mondo. Ma non è questo il caso.
Se i nostri tentativi di iniziare conversazioni non hanno avuto successo, i nostri compagni di strada ci fanno almeno la gentilezza di prestarci la loro Lonely Planet, visto che non abbiamo idea di dove andare una volta passato il confine. E proprio alla voce “Entrare in Thailandia dalla Malesia” mi trovo a leggere che il punto in cui stiamo per passare è pericolosissimo. L'autore sconsiglia fermamente l'intera zona, riferendo di “attacchi imprevedibili” da parte di banditi.
“La vostra guida dice che è pericoloso il posto dove stiamo andando. Lo sapevi?” dico a José (non che si sia presentato, ma la sua signora lo chiama così).
“Sì,” dice lui girandosi appena verso di me “ma ormai siamo qui, non ci possiamo fare niente.”
Non fa una piega.
Inizio ad innervosirmi, a sudare, nonostante l'aria condizionata. Continuo a leggere, pressato tra il braccio di Laura e la portiera. Scopro che dopo il punto di controllo tailandese c'è un chilometro da fare a piedi prima della stazione dei treni, che è la nostra destinazione. Penso a quante cose possono succedere in un chilometro: in quella terra di nessuno mi immagino coltelli, sgommate, urla, sangue e morte sicura. E poi teschi (i nostri) lasciati a marcire nella giungla.
Non appena scesi dal taxi i cileni ci salutano e vanno per conto loro verso l'ufficio immigrazione. Li ritroviamo pochi minuti dopo, in coda poco più avanti di noi, ma continuiamo a non avere niente da dirci. Subito dopo il controllo Laura e io ci fermiamo in bagno per i soliti aggiustamenti da “zona pericolosa”: carte di credito e passaporti nascosti nelle zone più recondite e... scongiuri.
Iniziamo a camminare, di buon passo. Fa caldo, sento la fronte gocciolare di sudore, lo zaino mi pesa sulle spalle e mi costringe a piegarmi in avanti. Dei tipi con delle casacche blu ci fanno cenni in lontananza. Quando gli passiamo accanto ci propongono un passaggio in motorino fino alla stazione. “No.” dico. A priori. Ignoro le timide proteste di Laura: non ci fidiamo di nessuno.
Dopo trecento metri di marcia siamo già stravolti. Altri turisti ci superano a tutta velocità, coi capelli al vento sui motorini. “Vedrete!” penso io “Vi ritroverete in mutande in un fosso insieme ai coccodrilli!”

Avanziamo lungo il ciglio della strada per altri cento metri e veniamo affiancati da un vecchio magrissimo alla guida di una bicicletta con sidecar tutta arrugginita. Ci offre un passaggio. Siamo sudati fradici e la strada, a guardarla meglio, sembra una strada normale: gente che viene e che va, venditori ambulanti, bambini per mano ai genitori, biciclette, macchine, motorini... e io inizio a pensare che come al solito ho esagerato. Ci accordiamo sul prezzo e accettiamo. Il vecchio ci fa caricare gli zaini su un portapacchi posteriore e ci fa accomodare sul sidecar, con la delicatezza di girare il cuscino di finta pelle nera per non farci scottare le chiappe. Ma appena fa per montare in sella il trabiccolo si impenna e si ribalta all'indietro per il peso. Il pover'uomo è desolato e cerca di riportare le ruote (e i clienti) a terra, mentre sulla strada i turisti sfrecciano comodamente sui sedili posteriori dei motorini, voltandosi per godersi la scena. Risistemato il carico partiamo. Il vecchio deve spesso scendere a spingere, ogni volta che la strada non è in discesa. Vorrei scendere ad aiutarlo, ma lui mi fa cenno di restare al mio posto. Io e Laura sorridiamo e io mi ricordo, d'improvviso, il motivo per cui non ho mai voluto comprare una guida turistica.

venerdì 24 maggio 2013

I camerieri di Kuala Lumpur

Palazzo abbandonato a Kuala Lumpur
Mi chiedo cosa li stampino a fare i menù, qui in Malesia. Ancora prima che tu ti sieda, già il cameriere vuol sapere cosa ordinerai. Magari tu gli dici “Scusa, ho bisogno due minuti”, e fai la faccia dispiaciuta di chi chiede comprensione. Allora lui ti guarda come se fossi un animale buffo: “Ok” ti risponde. Ma non si muove. Aspetta, con la punta della matita sul foglio di carta. E quindi tu, che hai dei problemi con la lingua e nessuna esperienza di cucina asiatica, finisci col puntare il dito su una pietanza a caso. È più o meno così che a Kuala Lumpur ci siamo beccati la diarrea.
Al Korner, un ristorante immenso all’angolo tra due strade, fanno cucina indiana, cinese e malese. La gente entra e esce a sciami, dato che non ci sono pareti esterne a dividere lo spazio occupato dai tavoli di plastica dal marciapiede affollato. Sul soffitto girano pigramente le pale unte dei ventilatori e, in fondo alla sala, un televisore trasmette il GP di Spagna. Per un lungo minuto provo a reggere la tensione e a concentrarmi sul menù, ma mi sento addosso lo sguardo di quel tale, in piedi nelle sue infradito a pochi centimetri dal tavolo. “Tandoori chicken”, dico puntando il dito sul menù. Laura invece ripiega su un più conservativo riso con carne. Ciò che mi viene servito, in un piatto di plastica rigida e dopo una lunga attesa, è un pezzo di pollo dal colore violaceo, così tenero che si taglia con un grissino e così piccante da far invidia al cibo messicano. Anche Laura, errore fatale, ne assaggia un boccone. Quella notte stessa mi sveglieranno i crampi alla pancia.
Non posso dire che sia per scelta, quindi, se a Kuala Lumpur ci restiamo cinque giorni (quattro in più del previsto). Abbiamo bisogno di rimetterci in sesto.
La città è enorme. Il cemento è ovunque si rivolga lo sguardo, anche in alto, e non fa che amplificare la sensazione di soffocamento data dal clima equatoriale e dal rumore dei motori, surriscaldati nelle code tra un cantiere e un semaforo.
Bighelloniamo in giro cercando di sfuggire il caldo, su e giù dalla piccola monorotaia (solo due vagoni) e dentro e fuori dagli enormi centri commerciali (quello più vicino al nostro albergo è di nove piani). Se ci aspettavamo (chissà poi perché) una città arretrata, quello che troviamo è una città poliglotta e tecnologica. Poliglotta perché quasi tutti i suoi abitanti, siano essi malesi, cinesi o indiani, oltre alla loro lingua madre e al malese, parlano anche l’inglese. Tecnologica nel senso che è difficile guardarsi attorno e trovare qualcuno che non stia facendo scorrere il dito sullo schermo di uno smartphone o di un tablet.
È davvero impressionante, ma allo stesso tempo settoriale. Mentre siamo alla ricerca di una chiavetta USB nella quale archiviare le migliaia di foto che Laura continua a scattare, ci ritroviamo in un centro commerciale di cinque piani, tutto dedicato alla tecnologia. I prezzi sono molto convenienti e ci viene l’idea di comprare un eReader (che pesa meno dei libri di carta e, soprattutto, ci consentirebbe di tornare a leggere in italiano). Ma in esposizione non vediamo altro che computer portatili, tablet e telefoni cellulari. E tutti gli accessori del caso. Chiediamo in giro: dal primo piano ci mandano al quarto, poi al terzo. Alla fine ci arrendiamo, e la sensazione è che non sappiano proprio di cosa stiamo parlando. Al Korner non ci siamo fatti più vedere. Per mangiare andiamo sempre dai cinesi, e la scelta è ampia tra i tanti ristoranti di Jalan Alor, una strada sovrastata da centinaia di lanterne rosse che la sera si riempie di odori di carne e pesce alla griglia, di tavoli apparecchiati e di pentoloni fumanti. La folla invade il poco spazio rimasto al centro della strada, rendendo difficile il transito delle auto. L’ambiente ci piace, e soprattutto sappiamo che dai cinesi possiamo sempre trovare riso bianco e pollo. Quasi riesco a battere sul tempo il cameriere, fingendo di guardare il menù e ordinando a tempo record, ma ho ancora tanto da imparare. Tempo tre giorni e stiamo di nuovo bene, pronti per ripartire. Verso il mare del nord. Arrivati a Kuala Besut ci troviamo una stanza per la notte e compriamo i biglietti per la barca che l’indomani mattina ci porterà sull’Isola di Perhentian. Passiamo una notte infernale, sudati sotto le pale traballanti del ventilatore. Verso mezzanotte sento dei rumori in corridoio, poi vedo girare la maniglia della nostra porta. Infine uno spiraglio di luce sempre più ampio illumina brutalmente la stanza. Salto seduto sul letto, in mutande, e abbaio qualcosa verso l’intruso. Laura si sveglia, si spaventa, urla anche lei. Il malintenzionato è in realtà un povero giapponese col cappellino rosso e il trolley, e ha sbagliato stanza. Richiude cerimoniosamente la porta, con un mezzo inchino, e se ne va. “Ci siamo dimenticati di chiudere!” “Eh già.” “Ti alzi tu?” “No.”
Arrivati sull’isola prendiamo in affitto una casetta sulla spiaggia e proviamo a rilassarci per qualche giorno: passiamo il tempo leggendo, guardando film e facendo bagni nel brodo caldo e cristallino che è il mare da queste parti. Noleggiamo anche una canoa, con la quale solchiamo lentamente le acque alla ricerca di spiagge nascoste. Ma, soprattutto, mangiamo un sacco di pesce al Mama’s Place, un ristorante sulla spiaggia del quale siamo presto diventati habitué. Il pesce è fresco e cucinato ad arte, ma la vera attrazione è il loro succo di mango. Buono da far scoppiare il cervello. È piacevole trascorrere le giornate senza avere niente di particolare da fare. Spesso si finisce col combinare molto di più che nelle giornate frenetiche, nel senso che si ha finalmente il tempo di occuparsi di se stessi e di fare cose rimandate da tempo. Ma la solita inquietudine chiama, ci ricorda che c’è un viaggio da continuare, altri mari da vedere, altre grigie città da cui scappare. Il quinto giorno risaliamo in barca e torniamo sul continente. A Kuala Besut prendiamo un taxi insieme a due cileni appena conosciuti e in un’ora e mezza di sorpassi assassini siamo a Rantau Panjang, al confine con la Tailandia.



sabato 18 maggio 2013

Singapore è Disneyland con la pena di morte


Atterriamo a Singapore alle sette di sera, ora di cena. Il che è perfetto, dato che siamo affamati e che abbiamo un'ora di tempo libero. Un'ora per aspettare che un altro volo, proveniente da Kathmandu, atterri. Chiamiamole coincidenze.
Tra un'ora incontreremo Tomi e Tei, una coppia di finlandesi al rientro di uno dei loro numerosissimi viaggi. Abitano a Singapore, sono scienziati informatici e lavorano per l'Università Statale. Cos'hanno a che fare con noi? Coincidenze. E la disposizione all'incontro di cui si gode quando si viaggia o si vive lontano da casa.

Wanaka, Nuova Zelanda. Una coppia varca la soglia del Francesca's Italian Kitchen, il miglior ristorante in città. Chiedono un tavolo, ma non hanno prenotato e devono accontentarsi di sedere al banco. Ordinano antipasti misti e una pizza al barista Zack, un americano del Colorado. Accanto a loro c'è una cameriera gentile, dal forte accento italiano, che trascrive l'ordine per trasmetterlo alla cucina. Mentre trascrive nota che l'uomo sa quello che dice: dice “Bruschetta”, non “Bruscedah”, come le capita di sentire ogni giorno. Così la cameriera italiana si avvicina al barista del Colorado e dice sottovoce: “Scommettiamo che sono italiani?” Perde la scommessa. Viene fuori che i due sono finlandesi e tutti insieme si fanno una bella risata.
Due giorni dopo i due tornano al Francesca's. Questa volta hanno prenotato e si godono il tavolo fino a chiusura. Verso le undici rimangono gli unici avventori in sala. La cameriera italiana è stanca, vuole andare a casa e si avvicina per chiedere se vogliono ordinare altro. I due sono sazi, ma fanno volentieri due chiacchiere sui soliti argomenti noti ai viaggiatori: da quanto tempo sei qui, dove sei stato prima, dove andrai dopo. La cameriera dice che la sua prossima tappa è Singapore, ed ecco la prima coincidenza: i due a Singapore ci vivono, e la invitano a stare a casa loro. (Col suo compagno di viaggio, s'intende!)

Così eccoci in attesa della prossima coincidenza: i due finlandesi tornano proprio oggi da un viaggio in Nepal, proprio un'ora dopo il nostro arrivo. Laura fa le presentazioni: “Tei, Tomi, Andrea.” “Nice to meet you!”
Insieme prendiamo un taxi. Tomi è un fiume in piena di entusiasmo e informazioni, e lungo il tragitto ci racconta qualche aneddoto su Singapore. Ingaggia anche una disputa col taxista riguardo al raggio d'estensione della Città: “40 Km” dice Tomi “Sono almeno 60!” dice l'altro.
Quando arriviamo a casa loro rimango a bocca aperta. È un appartamento ultra-moderno, in un complesso residenziale nuovo di zecca dal nome “Reflections”, le cui palazzine si riflettono, appunto, in una serie di fontane: vasche di vetro incastonate tra giardini curatissimi, illuminate durante la notte da luci colorate. Vi sono guardie armate all'ingresso, eserciti di giardinieri continuamente all'opera, due piscine e una palestra. Cancelli, ascensori e porta di casa si aprono e si chiudono grazie ad un'unica chiave elettronica. All'interno dell'appartamento tutto è bianco e lucido e funzionale, compresa la cucina a scomparsa (se non me l'avessero mostrata non sarei stato in grado di trovarla). L'ufficio di Tomi, per così dire, è una chaise long di pelle nera in fondo alla quale, dalla parte dei piedi, c'è il monitor di un computer dotato di mouse a tastiera senza fili.
Il tour della casa continua. Ci mostrano la nostra stanza e il nostro bagno.
“C'è anche il rifugio anti-bomba” dice Tomi mostrandomi lo sgabuzzino.
“Come scusa?” dico io, convinto di aver capito male.
Me lo ripete. Ha detto proprio “anti-bomba”. Mi fa notare la porta d'acciaio rinforzato, i muri spessi e la presa d'aria con relativa protezione d'acciaio.
“E cosa ve ne fate di un rifugio anti-bomba?” chiedo, dato che non mi risulta che Singapore sia o sia stata di recente al centro di conflitti armati. Tomi dice “Non lo so”, ma mi informa che tutte le case di Singapore ne hanno uno, anche se probabilmente finisce sempre per essere usato come sgabuzzino.

Singapore è Disneyland con la pena di morte. Così almeno la descrive il giornalista William Gibson. Di sicuro è la città più moderna e funzionale che abbia mai visto: architettura dalle forme improbabili, slanciate verso l'alto; trasporti pubblici veloci e puntuali che coprono tutto il territorio; immensi centri commerciali nei quali è più facile perdersi e prendersi una polmonite che trovare quello che si cerca. Singapore è il luogo in cui si può aprire una società in dieci minuti, ma è anche il luogo in cui puoi ritrovarti completamente nudo, piegato a novanta gradi e legato ad un trespolo, pronto per la fustigazione. Per reati quali furto, stupro e traffico di droga, ma, a discrezione delle autorità, anche per le infrazioni del codice della strada. E poi, sì: c'è la pena di morte.
È una città multiculturale, in cui vivono fianco a fianco (ma ciascuno nel suo quartiere) persone di origine cinese, malese, indiana... Tutti sono cittadini di Singapore, e spesso comunicano tra loro in inglese. Ci sono anche molti occidentali, attirati dalle opportunità che questa Disneyland offre.
Benché conti oltre cinque milioni di abitanti, (quasi un milione in più dell'intera Nuova Zelanda!), il traffico sembra sostenibile. Tomi mi spiegherà il perché: non basta possedere una macchina e una patente per poter circolare: è necessario comprare una – costosissima – licenza. Ecco spiegato perché in giro, a parte i taxi e i motorini, si vedano quasi solo auto di lusso.
La città è molto pulita e non ricordo di essere entrato in un bagno pubblico senza inciampare nell'addetto alle pulizie intento nel suo lavoro. È ancora Tomi a suggerire una possibile spiegazione: qui la legge non prevede alcun salario minimo, quindi bisogna darsi da fare per sbarcare il lunario.

A Singapore rimaniamo sei giorni, e sono abbastanza. Il nostro fedele compagno è il caldo, che qui a due passi dall'equatore incolla i vestiti alla pelle e rende faticosi anche i pensieri. A complicare le cose ci si mette l'aria condizionata, che ci investe sulla soglia di ogni edificio o mezzo di trasporto gelandoci addosso il sudore. Per poi ripiombare sotto un caldo pesante come un macigno, e così via.
Teniamo un ritmo rilassato, direi vacanziero. Ci svegliamo tardi e usciamo per fare un giro da qualche parte: un giorno al Museo delle Civiltà Asiatiche, un altro lungo il Singapore River. Poi una visita a China Town, una a Little India...
Il quinto giorno prendiamo un autobus a caso e arriviamo fino al capolinea, decisi a vedere coi nostri occhi i luoghi in cui vive la gente normale (quella che dopo aver curato i giardini dei ricchi e pulito i cessi dei centri commerciali del centro torna a casa a far da mangiare). Fuori dal centro la città cambia faccia, ma non di molto. I grattacieli avveniristici lasciano il posto ad altrettanto alti palazzoni dai balconi tutti uguali, coi loro panni stesi come bandiere alle aste che sporgono dalle finestre. Sono immensi formicai di cemento, ma almeno dall'esterno non c'è traccia di degrado: non c'è spazzatura in giro, gli intonaci sono intatti e la poca erba tagliata di fresco. Accanto ad un palazzo un cartello dice “Allerta crimine”. Leggendo oltre, si capisce che fa riferimento ad un'attività di prestiti non autorizzata segnalata in quella zona in un determinato periodo di tempo.
L'ultimo giorno è un sabato. Con Tomi e Tei andiamo a Wetland, un parco naturale in cui avvistiamo lucertole giganti, coccodrilli, lontre e un orribile serpente. Assistiamo anche alla scena di alcuni ragazzi cinesi che, camminando in infradito, mentre cercano di avvistare una lucertola nel fiume che gli scorre accanto, quasi inciampano in un'altra lucertola, ben più grande, che se ne sta tranquilla a scaldarsi in mezzo al sentiero. Quando se ne accorgono fanno un salto all'indietro.
Ripartiamo la domenica mattina con un autobus diretto a Kuala Lumpur, Malesia. E sono sei ore di maledetta aria condizionata.


martedì 14 maggio 2013

Ultimi mesi in Nuova Zelanda: le foto

Il viaggio che da Taupo ci ha portati a Wanaka, nell'Isola sud. I nostri quasi tre mesi a Wanaka.

sabato 11 maggio 2013

Da Wanaka a Singapore, via Sydney


1-3 maggio
Abbiamo lasciato Wanaka sotto un tappeto di foglie, giusto un attimo prima che arrivasse l'inverno. Le giornate erano ormai brevi e le cime intorno al lago bianche di neve. Ma le infinite gradazioni di gialli e di rossi non si erano ancora spente, e a seconda della posizione del sole ogni albero cambiava faccia e colori. Colori che non avevo mai visto prima.
A Wanaka abbiamo lasciato un mondo che era ormai il nostro. Luoghi, abitudini e soprattutto persone. Due sere prima di partire abbiamo cenato con Gersende e Cyril, una coppia di francesi con cui avevamo fatto amicizia e che avrebbe poi preso alloggio nella roulotte in cui vivevamo noi, in cambio di qualche ora di lavoro al campeggio. Rimarranno lì per l'inverno, come noi siamo rimasti per l'estate. Anche loro, stregati da quel luogo, non hanno voluto sentire ragioni. Vani sono stati i miei consigli di spostarsi in un luogo magari più “contaminato” dal turismo, ma meno disperatamente isolato. Anche loro hanno bisogno di risparmiare qualche soldo prima di riprendere il viaggio e tuffarsi in Indocina.
Alla cena erano invitati anche Nick e Karen, una coppia di inglesi che da qualche giorno avevano preso il nostro lavoro al campeggio, mentre noi recuperavamo energie e regalavamo cose in giro per rendere gli zaini di nuovo leggeri. Anche Nick e Karen passeranno l'inverno a Wanaka, anche loro risparmieranno soldi per viaggiare ancora. Ma non in Asia, perché è da là che arrivano. Hanno passato alcuni mesi in Corea del Sud, dove lui ha lavorato come ingegnere, e poi hanno viaggiato per tutta l'Indocina. La loro prossima tappa sarà l'America del Sud.
A Wanaka abbiamo lasciato anche Natsuko, che da un paio di settimane aveva comprato un furgone Ford e si era trasferita in una zona remota del campeggio, dove i suoi animali possono scorrazzare liberamente. “Stare nel bungalow è troppo costoso e il mio conto va sempre più giù” ci aveva detto durante uno dei tè pomeridiani presi insieme nella nostra roulotte. Peccato che ora stia arrivando l'inverno, che da quelle parti è decisamente rigido. Per il momento si arrangia scaldando il piccolo ambiente del furgone con taniche d'acqua bollente, dato che dove ha deciso di stare non c'è elettricità. Ma a scaldarla, immagino, sono soprattutto gli animali. Yashi, il cane dagli occhi grandi, e i suoi quattro gatti. Ognuno di loro ha un piccolo spazio dedicato nel piccolo abitacolo, a seconda delle sue esigenze. Il gatto Kyu, con problemi di deambulazione, può salire e scendere dal letto a suo piacimento grazie a una rampa fatta di due cuscini e una tavola bodyboard.
La sera prima di partire abbiamo cenato da Francesca's, il ristorante di cucina italiana in cui ha lavorato Laura. Insieme a noi c'erano Nicolas e Silvia, suoi colleghi italiani, entrambi giovanissimi (19 anni lei, 24 lui) che hanno deciso di andarsene dall'Italia e farsi una vita altrove. In Nuova Zelanda per il momento, poi chissà.

Prima di partire per un lungo viaggio credi di stare facendo qualcosa di eccezionale, qualcosa che molti hanno sognato, ma che pochi hanno avuto il coraggio di fare prima. Invece ne abbiamo incontrate tante di anime fuori posto, lontana da casa e dagli affetti. Gente che ha viaggiato per anni, magari a più riprese. Persone che hanno chiamato casa la Norvegia, e poi allo stesso modo la Thailandia o l'Australia. Qualcuno sembra aver perso l'orientamento e non sapere più su quale sedia appoggiare il sedere, qualcun altro invece mostra una lucidità assoluta e la consapevolezza che dovunque vai, alla fine, è sempre con te stesso che te la devi vedere.
C'è chi si muove per soldi, chi per cercare se stesso, chi semplicemente per curiosità o per “vedere il mondo prima di sistemarsi”. E in Nuova Zelanda più che altrove ne abbiamo incontrati molti, soprattutto provenienti da quei paesi in cui la gente normale può permettersi il lusso di avere un vuoto da colmare: europei, statunitensi, canadesi, australiani, giapponesi... Pochi italiani, questo sì.
Ma tutta questa gente, di cui anche noi facciamo parte, non ha molto a che fare con i migranti veri e propri, certamente più numerosi. Loro viaggiano una volta sola e per sempre e si spostano per altri motivi, che hanno più a che fare con la necessità di far fronte a mancanze materiali che con la sete di conoscenza o carenze spirituali. Per quanto riguarda la Nuova Zelanda, molti migranti vengono dall'Asia: cinesi e indiani, per citare i più evidenti, arrivano in flussi regolari e popolano quartieri, aprono negozi, iniziano una nuova vita a metà tra quella vecchia (a cui probabilmente non torneranno mai) e quella nuova.

Abbiamo lasciato Wanaka ed era quello che per lungo tempo abbiamo desiderato. Ogni giorno fissando il calendario e soppesando con lo sguardo la mole crescente dei giorni andati contro quella sempre più sottile dei giorni rimasti.
Il giorno della partenza ci siamo svegliati in fibrillazione per le poche cose che restavano da fare. Ma allo stesso tempo avevamo già addosso une leggerezza ritrovata, quella tipica del primo giorno di vacanza. Una lunga vacanza, in luoghi dai nomi evocativi come Australia, Singapore, Malesia, Thailandia... E poi Vietnam, Laos, Cina. E ancora!
A Queenstown passiamo due giorni e due notti in attesa del volo per Sydney. Il nostro ostello, il Queenstown Adventure, è il più bello che abbia mai visto: divani, mega schermi, una cucina enorme e accogliente, ambienti freschi e puliti. Addirittura una camera di sicurezza con serratura a combinazione all'interno della quale ognuno ha un suo armadietto, che a sua volta può essere chiuso a chiave. Dentro ad ogni armadietto c'è una presa (due per quelli più grandi) in cui caricare cellulari e laptop. Questa sì che è cura per i particolari. Nella stessa camera di sicurezza sono appese mountain bike e biciclette da corsa, disponibili gratuitamente. Altrettanto gratuitamente si possono fare telefonate internazionali. Insomma, questo sì che è un buon inizio, decisamente in linea con le nostre nuove regole.
Durante il giorno passeggiamo per le strade del centro, sotto un cielo pesante di pioggia. Ci rendiamo conto che il posto è più bello e interessante di come l'avevamo giudicato durante la nostra prima visita e facciamo inutili considerazioni sulla nostra scelta, forse sbagliata o forse no, di stabilirci a Wanaka e non proprio a Queenstown. Ma ormai è andata, e anche se è stata dura ora abbiamo in tasca più o meno la stessa somma che avevamo quando siamo partiti dall'Italia. Potremmo ricominciare tutto daccapo, se lo volessimo.

3-6 maggio
Atterriamo a Sydney verso mezzogiorno. Sebbene si trovi a poche ore di volo da Queenstown, qui la giacca a vento e la felpa non servono. Abbiamo tre giorni e nessun programma preciso, se non guardarci attorno nell'attesa del prossimo volo.
Il nostro ostello, il D*Lux, è il più squallido che abbia mai visto, tanto per riportarci in contatto con la realtà. Letti sgangherati, mobili sfondati, porte che non si chiudono. Lo stabile è molto vecchio e l'insegna gialla all'esterno, malgrado conti ben quattro stelle, si distingue dalle altre lungo la strada per la sua decadenza. Ma, al di là delle apparenze, il fatto è che tira una brutta aria. C'è molta gente che ci vive in pianta stabile e altra gente che ci lavora – svogliatamente – in cambio di un posto letto. Tutte queste persone formano un mondo a parte, che mal si amalgama con quello dei clienti occasionali che, come noi, non sanno dove sono padelle e fiammiferi. E nessuno glielo dice.
Depositati i bagagli ci tuffiamo nella città. Siamo affamati e compriamo un kebab lungo la strada, ma non è facile trovare un posto in cui sedersi a mangiarlo. Le città come questa non sono fatte per sedersi. Sono fatte per orbitarci dentro come topi da corsa. I palazzi altissimi sono alveari da cui entrare e uscire alacremente a orari stabiliti. Ma, effetto collaterale forse sfuggito ai loro architetti, dalla solitudine serale di quei balconi si gode di un punto di vista distaccato sulla distesa di luci impazzite che si muovono là sotto. Un punto di vista che quotidianamente ricorda alle persone il tipo di vita che hanno scelto. Forse, avere un balcone oltre il ventesimo piano aiuta a fare autocritica, a rinnovare le proprie scelte di vita. O a farla finita (magari cambiando casa).
Per le strade di Sydney ricompare tutto ciò che in Nuova Zelanda sembra non esistere. Nemmeno ad Auckland o a Wellington, per quanto abbiamo potuto notare noi. La gente che vive in strada, tanto per cominciare. Non lontano dall'ostello c'è un vecchio un po' matto che sta tutto il giorno ad uno sportello bancomat, fingendo di prelevare e facendo complimenti a tutte le donne che passano. Incontriamo tanti senza tetto, di solito muniti di trolley a cui legano materassi arrotolati, per facilitare gli spostamenti durante il giorno. Ci sono poi i clacson e folle di persone che camminano in fretta senza guardarsi intorno.
Una cosa che notiamo è che la gente sorride molto meno di quanto non facesse in Nuova Zelanda. A cominciare dal poliziotto dell'Immigrazione all'aeroporto. Passaporto in mano e zaino in spalla gli ho detto “Salve!” “Togliti il cappello” mi ha risposto.
I tre giorni a Sydney scorrono all'insegna del turismo: lunghe passeggiate, visita al Museo di arte moderna, all'acquario e allo Zoo. Facciamo anche un assaggio di cucina vietnamita in un ristornate, tanto per preparare il palato per i prossimi mesi in Indocina. Ma tre giorni sono davvero pochissimi, e prima ancora di renderci conto di essere davvero a Sydney, un nuovo aereo ci catapulta in un'altra grande, sbalorditiva città: Singapore.