Nel taxi che da Kuala Besut (Malesia)
ci porta a Rantau Panjang (confine thailandese) nessuno apre bocca. Il
ragazzo cileno siede davanti mentre la sua giovane sposa, seduta
accanto a noi sul sedile posteriore, si addormenta a bocca aperta a
pagina 114 della biografia di Steve Jobs. Il tassista, mani serrate
sul volante, schiena piegata in avanti e occhi stretti, porta a
termine le sue manovre ai limiti dello scontro frontale. Ma non fosse
per quelli che vengono in senso contrario, che si buttano di lato per
lasciargli strada, la sua carriera – e forse la nostra – sarebbe
finita da tempo. Fuori dal finestrino scorrono palme a perdita
d'occhio e poche case isolate. Molte sono baracche piuttosto mal
messe, in legno o lamiere ondulate, ma non mancano le case in
muratura dai portici ombrosi, sotto i quali la gente cerca sollievo
dal sole stendendosi su un'amaca o sedendo in compagnia.
Coi due cileni non siamo amici. La
nostra è una di quelle collaborazioni tra viaggiatori nate in un
secondo e lunghe un minuto: li abbiamo sentiti contrattare il prezzo
del passaggio verso la nostra stessa destinazione e abbiamo chiesto
loro se volevano dividere la spesa. A volte queste situazioni portano
alla nascita di belle intese, conversazioni interessanti e la
promessa (quasi di certo vana, ma non si sa mai) di vedersi ancora da
qualche parte nel mondo. Ma non è questo il caso.
Se i nostri tentativi di iniziare
conversazioni non hanno avuto successo, i nostri compagni di strada
ci fanno almeno la gentilezza di prestarci la loro Lonely Planet,
visto che non abbiamo idea di dove andare una volta passato il
confine. E proprio alla voce “Entrare in Thailandia dalla Malesia”
mi trovo a leggere che il punto in cui stiamo per passare è
pericolosissimo. L'autore sconsiglia fermamente l'intera zona,
riferendo di “attacchi imprevedibili” da parte di banditi.
“La vostra guida dice che è
pericoloso il posto dove stiamo andando. Lo sapevi?” dico a José
(non che si sia presentato, ma la sua signora lo chiama così).
“Sì,” dice lui girandosi appena
verso di me “ma ormai siamo qui, non ci possiamo fare niente.”
Non fa una piega.
Inizio ad innervosirmi, a sudare,
nonostante l'aria condizionata. Continuo a leggere, pressato tra il
braccio di Laura e la portiera. Scopro che dopo il punto di controllo
tailandese c'è un chilometro da fare a piedi prima della stazione
dei treni, che è la nostra destinazione. Penso a quante cose possono
succedere in un chilometro: in quella terra di nessuno mi immagino
coltelli, sgommate, urla, sangue e morte sicura. E poi teschi (i
nostri) lasciati a marcire nella giungla.
Non appena scesi dal taxi i cileni ci
salutano e vanno per conto loro verso l'ufficio immigrazione. Li
ritroviamo pochi minuti dopo, in coda poco più avanti di noi, ma
continuiamo a non avere niente da dirci. Subito dopo il controllo
Laura e io ci fermiamo in bagno per i soliti aggiustamenti da “zona
pericolosa”: carte di credito e passaporti nascosti nelle zone più
recondite e... scongiuri.
Iniziamo a camminare, di buon passo. Fa
caldo, sento la fronte gocciolare di sudore, lo zaino mi pesa sulle
spalle e mi costringe a piegarmi in avanti. Dei tipi con delle
casacche blu ci fanno cenni in lontananza. Quando gli passiamo
accanto ci propongono un passaggio in motorino fino alla stazione.
“No.” dico. A priori. Ignoro le timide proteste di Laura: non ci
fidiamo di nessuno.
Dopo trecento metri di marcia siamo già
stravolti. Altri turisti ci superano a tutta velocità, coi capelli
al vento sui motorini. “Vedrete!” penso io “Vi ritroverete in
mutande in un fosso insieme ai coccodrilli!”
Avanziamo lungo il ciglio della strada
per altri cento metri e veniamo affiancati da un vecchio magrissimo
alla guida di una bicicletta con sidecar tutta arrugginita. Ci offre
un passaggio. Siamo sudati fradici e la strada, a guardarla meglio,
sembra una strada normale: gente che viene e che va, venditori
ambulanti, bambini per mano ai genitori, biciclette, macchine,
motorini... e io inizio a pensare che come al solito ho esagerato. Ci
accordiamo sul prezzo e accettiamo. Il vecchio ci fa caricare gli
zaini su un portapacchi posteriore e ci fa accomodare sul sidecar,
con la delicatezza di girare il cuscino di finta pelle nera per non
farci scottare le chiappe. Ma appena fa per montare in sella il
trabiccolo si impenna e si ribalta all'indietro per il peso. Il
pover'uomo è desolato e cerca di riportare le ruote (e i clienti) a
terra, mentre sulla strada i turisti sfrecciano comodamente sui
sedili posteriori dei motorini, voltandosi per godersi la scena.
Risistemato il carico partiamo. Il vecchio deve spesso scendere a
spingere, ogni volta che la strada non è in discesa. Vorrei scendere
ad aiutarlo, ma lui mi fa cenno di restare al mio posto. Io e Laura
sorridiamo e io mi ricordo, d'improvviso, il motivo per cui non ho
mai voluto comprare una guida turistica.
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