A Su-Ngai Kolok passiamo accanto ad
alcuni soldati in divisa mimetica che presidiano l'entrata della
stazione. Le mitragliatrici sono la prima cosa che notiamo entrando
in Thailandia e la gente, almeno in questo piccolo paese di
frontiera, sembra aver fatto l'abitudine all'esercito e alle mascelle
serrate dei militari.
Attraversiamo i binari sotto il sole,
camminando su tavole di legno messe a patchwork per dare una parvenza
di passerella. In biglietteria scopriamo che un treno diretto per
Bangkok ci sarebbe, ma ci mette 20 ore ad arrivare a destinazione. Il
che vorrebbe dire passarci l'intera giornata e tutta la notte. L'idea
non ci piace affatto, visto lo stato dei treni che ci sfilano
davanti.
Il bigliettaio indossa una divisa
impeccabile in stile militare, con tanto di cappello. Ma in inglese
sa dire solo i numeri, quindi è difficile spiegargli che, anziché
andare direttamente a Bangkok, vogliamo fare una tappa intermedia.
Non importa dove, ma vogliamo scendere dal treno di pomeriggio. Alla
fine tiriamo fuori la mappa dallo zaino e puntiamo il dito su
Phatthalung (nient'altro che un nome per noi, ma ad una distanza che
sembra essere un quarto della strada per Bangkok). Il bigliettaio ha
capito: “5:00 pm” dice sorridendo.
Credo sia la prima volta che mi
avventuro in un paese senza preoccuparmi di imparare una sola parola,
o senza procurarmi un dizionario. Forse perché mi sento solo di
passaggio, già proiettato in Cina. Forse per pura pigrizia, o magari
per l'arroganza propria di quelli che “con l'inglese vai
dappertutto”. Fatto sta che mi trovo a rimproverarmi per ragioni
etiche e che, presto, me ne pentirò per ragioni pratiche.
Le sei ore in treno sono lunghe come
sei giorni. La carrozza è vecchia di decenni, con le pareti interne
in legno e i sedili spaziosi ma scomodi. Si viaggia con le finestre
aperte,mentre grossi ventilatori in fila al centro del soffitto
girano senza sosta alla massima velocità. Ma né l'una né l'altra
cosa aiutano: finestre aperte e ventilatori non fanno che spararci
addosso raffiche di aria calda, procurandoci uno dei peggiori mal di
testa della nostra vita. Il paesaggio fuori dal finestrino è quasi
sempre verde: foreste interrotte da qualche villaggio o piccola
città. Le moschee della Malesia qui lasciano il posto ai templi
buddisti, coi loro tetti rossi e le statue dorate.
Mentre il treno rallenta, entrando
nella stazione di Phatthalung, un tale sui 50 ci guarda caricare gli
zaini in spalla per dirigerci verso l'uscita del vagone. Ci ripete
per due volte il nome della stazione, evidentemente convinto che
stiamo per scendere alla fermata sbagliata: che cosa ci vanno a fare
due turisti con lo zaino a Phatthalung? Buona domanda.
Quando arriviamo in un posto
sconosciuto, abbiamo una strategia: uno di noi sta fermo in un punto
sicuro con gli zaini mentre l'altro va in esplorazione e alla ricerca
di una sistemazione per la notte. Oggi tocca a me. Appena fuori dalla
stazione mi guardo intorno nel tentativo – vano – di individuare
la scritta “Hotel”. Mi rendo conto che oggi non sarà facile:
tutte le insegne sono in alfabeto Thai. Provo a chiedere in giro, ma
mi rendo conto, con un certo imbarazzo, che nessuno sa una parola
d'inglese. Alcune persone capiscono cosa sto cercando e mi indicano
con le dita strade e svolte da prendere, ma non potendo fare
riferimento alle insegne non ho davanti altro che file di edifici
tutti uguali. Alla fine busso ad una serranda dietro la quale mi
sembra esserci la hall di un hotel. È in realtà una gioielleria, ma
l'errore mi porta comunque alla soluzione, dato che il gioielliere
parla un po' d'inglese (e si compiace di poterlo finalmente fare con
qualcuno).
L'albergo ha ampi corridoi e larghe
scalinate. Malgrado le macchie di muffa sulle pareti della stanza e
le bruciature da sigaretta sui mobili, si capisce che deve aver
conosciuto tempi migliori. Comunque poco importa: è solo per una
notte, visto che domani riprenderemo a muoverci verso Bangkok.
La prima cosa che mi viene in mente,
appena sganciato lo zaino sul pavimento della stanza, è buttarmi
sotto l'acqua fredda della doccia. E sotto l'acqua fredda della
doccia, un minuto più tardi, mi ritrovo al buio: è saltata la
corrente. Dietro al pallido fascio di luce di una torcia elettrica
(ma perché le pile sono sempre scariche in queste circostanze?)
decidiamo di uscire in cerca di cibo. L'intera città è al buio,
illuminata ad altezza pube dai fari delle automobili e dei motorini.
Attraversiamo le bancarelle del mercato seguendo la corrente: gli
ambulanti continuano ad arrostire carne e la gente continua a
comprarne, come se tutto fosse normale. Come se ci fosse la luce. Sul
marciapiede della via principale prendiamo posto al tavolo metallico
di un ristorante, illuminato da una candela consumata per metà.
Ordiniamo a gesti e onomatopee una zuppa di riso e pollo. Intorno al
nostro tavolo la città continua al buio la sua esistenza ed è
questo fatto, più della mancanza di luce, a rendere la situazione ai
miei occhi surreale. A pochi metri di distanza c'è un passaggio a
livello (che per fortuna continua a funzionare grazie ad un
generatore di emergenza). Le sbarre si chiudono e veniamo investiti
dalla luce rossa intermittente del semaforo, mentre auto e motorini
si accatastano in una fila scomposta e rumorosa. Ripartiranno qualche
minuto dopo in un rombo polifonico, lasciandosi alle spalle l'odore
dei gas di scarico.
Il mattino seguente cerchiamo il modo
di andarcene con un autobus visto che ieri, al nostro arrivo, abbiamo
scoperto con un certo sconforto che i treni per Bangkok partono solo
di pomeriggio. È stata quindi una pensata inutile quella di fermarci
per riprendere a viaggiare con la luce del giorno ed evitare di farlo
di notte. Consultiamo il tabellone con la mappa della città, appena
fuori dalla stazione. Accanto all'icona del treno, a indicare appunto
la stazione, ce n'è un'altra raffigurante un autobus, ma non è
chiaro dove sia esattamente. Proviamo a chiedere alla gente, ma ci
ritroviamo sempre nella stessa situazione di incomunicabilità. Dopo
vari tentativi una ragazza ci fa capire con qualche parola d'inglese
che il posto che vogliamo raggiungere è lontano e dobbiamo andarci
con la moto. (“Questa è una piccola città,” mi ha spiegato ieri
il gioielliere “non ci sono taxi. Solo moto-taxi.”) La ragazza
chiama uno dei moto-taxisti in attesa fuori dalla stazione e gli
spiega in thai dove vogliamo andare. Il tipo si passa una mano sui
capelli pettinati all'indietro, poi si sistema gli occhiali fumé con
le dita rinsecchite che gli spuntano da un paio di guantini da
ciclista. Sembra venuto fuori da un film italiano degli anni ottanta.
“Sono 100 bath,” traduce per noi la ragazza, “50 a testa.”
“Ok” dico, ormai curioso di sapere come diavolo pensa di portarci
tutti e due in moto. Con un sidecar? Ingaggerà un collega e andremo
su due mezzi diversi? La risposta è ovvia quanto disarmante. Una
manciata di secondi dopo eccoci tutti e tre schiacciati l'uno dietro
l'altro, lanciati a 50 Km/h per le strade della città in sella ad un
piccolo scooter Honda dal rumore di taglia-erba. L'unico a mettersi
il casco è il nostro autista, ma lo toglierà poco dopo per
ravviarsi i capelli e fare una telefonata. Il mio stupore non dura
che un minuto: il tempo di venir sorpassati da un altro scooter, a
bordo del quale ci sono mamma, papà e due bambini nel mezzo. Più
uno più piccolo davanti, sulle ginocchia del papà.
La stazione dei bus è davvero fuori
mano, ma ormai siamo qui e tanto vale chiedere informazioni. Il
problema è sempre lo stesso: le insegne con le destinazioni sono in
thai e in thai parlano tutti gli addetti di tutte le compagnie. La
cosa più difficile,comunque, è far capire al nostro moto-taxista
che deve aspettarci: all'arrivo pago la prima parte della corsa e gli
faccio cenno con la mano aperta di aspettare. Ma lui pensa sia un
saluto e ripete lo stesso gesto chinando il capo, mentre l'altra mano
già gira l'acceleratore . “No, no, wait!” gli dico. Lui sembra
confuso. Scende di sella e entra con noi per chiedere ai bigliettai
che gli traducano quello che diciamo. È una scena patetica: facciamo
il giro di tutti gli sportelli di tutte le compagnie di autobus, ma
nessuno ci capisce e il nostro uomo è sempre più confuso (e noi
sempre più mortificati). Alla fine approfitterà di un momento di
nostra distrazione per andarsene.
Con gli impiegati della compagnia di
autobus comunichiamo a gesti, con molta fatica, e riusciamo a capire
prezzi e orari. Ma ci rendiamo conto che non è una soluzione
praticabile: come ci arriviamo alla stazione, all'alba, con gli
zaini... e in motorino? Ci rassegniamo al treno.
Ma sul sito delle ferrovie ci aspetta
una bella sorpresa: esistono vagoni letto con aria condizionata. Così
arriviamo a Bangkok il mattino seguente, non proprio freschi ma
nemmeno distrutti.
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