Stamane
l'ennesimo piccolo grande contrattempo mi ha guastato la giornata. Ora cammino per le strade di Saigon accanto a Laura, con le spalle
curve più del solito, come avessi addosso chili di abiti bagnati.
Dopo essere stati all'ambasciata cinese (e aver scoperto che per
varie ragioni non possiamo ottenere il visto qui, ma “forse ad
Hanoi sì”) abbiamo fatto due calcoli sui paesi che ci mancano da
attraversare e ci siamo resi conto che i nostri passaporti non hanno
abbastanza spazio libero per i timbri. Questo vuol dire guai, noie
burocratiche che vanno a complicare un quadro già abbastanza
incasinato per ottenere i visti stessi. Laos, Cina, Mongolia e Russia
(questo l'itinerario che avremmo in mente prima di rimettere piede in
Europa) pretendono almeno due pagine vergini a testa sul passaporto,
mentre noi ne abbiamo due in tutto. Questo vorrebbe dire arrivare in Laos e
poi rimanere bloccati, visto che a Vientiane non c'è un'ambasciata
italiana in cui chiedere un nuovo documento.
“Hai detto qualcosa?” mi chiede
Laura.
“Non ho aperto bocca.” rispondo
bruscamente.
In realtà stavo mugugnando tra me e
me, mandando maledizioni ai quei bastardi dei poliziotti di frontiera
(messicani, australiani e statunitensi in prima fila) che nell'ultimo
anno e mezzo, con lo scazzo proprio di chi non aspetta altro che
tornare a casa ad accendere la televisione, hanno messo timbri a caso
sul mio passaporto ancora nuovo, portandosi via intere pagine che ora
sarebbero preziose.
Ci sediamo al tavolo di un
ristorantino, in un vicolo affollato di venditori, motorini
parcheggiati e viandanti. Ordiniamo due piatti di noodles e non
diciamo una parola. Mentre aspettiamo i nostri piatti inizia a
piovere, come succede ogni giorno quasi sempre alla stessa ora (siamo
agli inizi della stagione delle piogge) e io, che sono seduto di
fronte a Laura, con le spalle al vicolo, devo spostarmi e andare a
sederle accanto per poter stare sotto la tettoia. Mangiamo in
silenzio guardando la pioggia che scende e la gente che passa,
avvolta nelle mantelle di plastica colorate. Di fronte a noi,
dall'altro lato del vicolo, un uomo è seduto a terra nel suo
minuscolo negozio e gioca coi suoi due figli piccoli. Di tanto in
tanto si affaccia un avventore per comprare una bottiglia d'acqua o
una birra, e allora lui si tira su con la forza delle braccia,
appoggiandosi all'espositore di vetro pieno di saponette e
deodoranti. Ha le gambe corte, sottilissime, e un piede girato in una
posizione innaturale che non gli permette camminare. È uno dei
tanti, e tra i più fortunati, che a oltre trent'anni dalla fine
della guerra contro gli americani ancora pagano le spese dell'uso di
armi chimiche. Il cosiddetto “Agent Orange” in particolare, usato
dagli americani per fare “terra di nessuno” grazie all'azione
devastante della diossina.* A questa schiera impressionante di
deformi, che si incontrano ad ogni angolo di strada, si uniscono le
migliaia di mutilati che, anche dopo la fine della guerra, hanno
lasciato le gambe e qualche volta le braccia sul terreno a causa
delle mine.
Col piatto ormai vuoto, aspettiamo in
silenzio che spiova, ma venti minuti più tardi dobbiamo deciderci ad
alzarci, visto che non accenna a diminuire. Attraversiamo in un balzo
il vicolo, schivati all'ultimo da un motorino in transito, e
compriamo nel piccolo negozio dell'acqua e una bevanda al cioccolato
per la colazione di domani. L'uomo ci dà il resto e ci saluta con un
sorriso, poi si risiede a terra accanto ai figli. Noi camminiamo muro
muro cercando riparo sotto le tende parasole dei negozi, ma quasi
sempre ci ritroviamo in mezzo alla strada per aggirare mercanzie in
esposizione, tavoli di ristoranti, macchine e motorini parcheggiati
che rendono il marciapiede impraticabile.
Infine viene la parte più difficile:
attraversare la strada. Aspettare non serve a niente: non ci sarà
mai un momento in cui il flusso del traffico (un fiume di migliaia di
motorini) smetterà. Il trucco è iniziare a camminare lo stesso,
senza fare l'errore di fermarsi o esitare, e aver fiducia nel
principio di autoregolazione del flusso.
*Si stima che tra il 1961 e il 1971
siano stati gettati sul territorio del Vietnam del Sud circa 77
milioni di litri di diserbanti, nell'ambito dell'operazione americana
“Ranch Hand”, mirata alla distruzione della vegetazione nella
quale i Vietcong si nascondevano. Di questi, 49,3 milioni di litri
erano di Agent Orange e contenevano più di 360 Kg di diossina,
distribuita a più riprese su oltre 2,6 milioni di acri. Anche i
soldati americani (e australiani, neozelandesi, sud-coreani e
vietnamiti dell'esercito “regolare”) hanno subito l'esposizione
all'Agent Orange, ma i civili sudvietnamiti hanno continuato – e
continuano – a pagarne le spese negli anni a causa della profonda
contaminazione del terreno. Secondo diversi studi scientifici vi
sarebbe una correlazione diretta tra l'uso dell'Agent Orange e le
malformazioni alla nascita.
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