giovedì 23 febbraio 2012

Città del Guatemala: quando si dice giungla metropolitana

In questa città distrarsi non si può, mai. Ostacoli e pericoli di ogni genere sono parte di una normalità a cui un italiano medio come me, magari un po' buffo con il suo cappello da pescatore in testa, non è abituato. La cosa è divertente, porta con sé un gusto esotico. Fino a un certo punto.
Ogni mattina usciamo di casa come i nostri carabinieri escono dalla caserma a fine turno: lasciamo una specie di fortezza con filo spinato arrotolato intorno ad ogni possibile accesso, dal livello della strada fino al tetto. Camminiamo lungo marciapiedi disseminati di cacche di cane (ma va be') e tombini aperti. E quando dico tombini aperti intendo proprio dire che a terra ci sono dei buchi profondissimi di varie dimensioni: a volte ti ci sta solo la gamba, altre ci potresti entrare tutto intero. Qui la gente è abituata: chiacchiera, gesticola. E' pensierosa a volte, proprio come noi. Ma loro hanno un sensore infilato nei piedi e collegato al cervello, noi no. Anche noi chiacchieriamo, per carità. Solo che i nostri discorsi sono invasi da parole estranee, sempre le stesse due: "Buco!", "Merda!"
E così arriviamo a destinazione, costeggiando i tantissimi negozi della zona. Qui l'esperienza dell'acquisto in un negozio è fatta di sbarre ed oscurità: alzata la serranda c'è l'inferriata, e quella non si apre mai e per nessuna ragione. Le donne impastano le tortillas, i tecnici smontano i televisori, il farmacista cerca nei suoi scaffali... ma sempre al buio della propria prigione quasi sempre senza finestre. Ci sono poi i negozi più grandi, di vestiti o di scarpe o di elettrodomestici. Quelli somigliano più ai nostri: entri, giri, c'è luce. Solo che c'è una guardia armata ogni due corsie, ogni tre lavatrici.
La presenza di persone armate in uniforme è grande e tutt'altro che rassicurante: la polizia federale, i cui uomini girano seduti sui cassoni dei pick-up, armati fino ai denti come i talebani; le guardie giurate fuori da ogni negozio che se lo possa permettere, sugli autobus, nelle portinerie; i paramilitari che, come per la polizia, chissà se ti puoi fidare. (Si sa, non ti puoi fidare.)
Dalla sede del Mojoca, ogni mattina prendiamo un bus diretto alla zona nella quale lavoreremo, ogni giorno diversa. I bus, ragazzi! Iniziamo col dire che se non sai fischiare sei fottuto, dato che quello è il segnale che si usa per prenotare la fermata. Magari dal fondo del bus, quando tra te e quel pazzo alla guida ci sono cento persone, un venditore che vende e un predicatore che predica. Inutile dire che io non so fischiare. In alternativa ho visto gente percuotere la lamiera del tetto con vigorose manate, ma ancora non mi sento pronto per una cosa del genere: è già buono, per il momento, riuscire a scampare al predicatore e al venditore. O a non cadere giù, visto che si viaggia a porte aperte.
Quando si tratta di scendere devi essere veloce: non sempre l'autista si ferma (e se sei bianco è più probabile che voglia farsi due risate mettendoti in difficoltà): a volte rallenta solo e tu devi scavalcare tutti e saltare giù senza ammazzarti. Anche qui come in Messico ci sono gli scarti automobilistici degli Stati Uniti. I chicken bus sono per la maggior parte vecchi scuolabus, troppo vecchi o troppo rotti: qui ricominciano una nuova vita.
Oggi al Tanke è passato un tipo con una sospensione per camion appoggiata alla spalla, a mo' di mazza da baseball. Noi avevamo già finito le attività e i ragazzi si godevano il loro meritato pranzo seduti sul marciapiede. Il tale, alito alcolico e camicia vinaccia a quadri, è venuto proprio da me e Laura, non saprei dire perchè: forse gli sembravamo i meno collusi con quella marmaglia, o i più ingenui della situazione. Ci ha detto che qualche giorno prima i ragazzi lo hanno picchiato e derubato. Ci mostra il naso rotto e ci fa sapere che quel ferro l'ha portato per fargliela vedere. Gli dico solo che non mi sembra il caso, ma lui continua il suo discorso carico di irrevocabile odio. Intorno nessuno dei nostri sembra accorgersi di lui, nessuno interviene o si interessa. Non so se è vero quello che l'uomo racconta, ma è certamente possibile. Quello che è certo è che ci saranno altre botte, da una parte o dall'altra.

venerdì 17 febbraio 2012

Il tuffo

http://www.giovanniporzio.it/gp/index.php?page=article&id=82
Sei sul trampolino, sei sulla scogliera, poco importa. Ci sei andato di tua spontanea volontà, perchè il volo ti piace. Non sai esattamente come sarà, o come impatterai, per esperto tuffatore che tu sia convinto di essere: c'è sempre un margine di imprevisto, qualcosa che ancora non conosci sul conto del grande mare. La cosa sicura è che tra pochi secondi sarà tutto diverso, poche storie: dall'asciutto al bagnato (sarà fredda, questo già lo sai); dall'attesa nervosa al darsi da fare per guadagnarsi la riva.


Venerdì scorso io e Laura abbiamo incontrato Gérard Lutte, fondatore del Mojoca (Movimiento de Jovenes de la Calle). Un annetto fa, mentre preparavo uno dei miei ultimi esami universitari, avevo letto il suo "Principesse e sognatori nelle strade in Guatemala" e lo avevo tenuto a mente. Mi ero anche scritto i recapiti sul taccuino rosso che ora ci portiamo dietro. E così, dopo qualche mese di contatti via mail, eccoci lì nel suo ufficio, insieme a Glenda e Diana, due ragazze che hanno vissuto in strada e che ora occupano le cariche più importanti del movimento. Gérard ha 83 anni e una voce incerta, pur nella forza dei suoi argomenti. Dopo una vita di letture e scritture (da buon professore universitario) non ci vede quasi più e io gli afferro la mano mentre guarda in una direzione indefinita davanti a sé: sono contento di conoscerlo e glielo dico. Lui ci parla in spagnolo, e quello che dice è che secondo lui il nostro posto è nell'équipe di strada, quella che va a cercare i ragazzi nei luoghi in cui vivono e propone loro di partecipare alle attività del movimento. Ne avevamo parlato, Laura e io, diverse volte: mica ci metteranno in strada così dal niente, dicevamo. Non conosciamo i luoghi, la gente, la lingua, la cultura... Ci metteranno a fare i braccialetti scooby doo. (Questo lo pensavo io, nel mio abituale ottimismo.) E invece è tutto il contrario, e meno male. Si comincia lunedì mattina.
Dopo un week end passato nella nostra nuova stanza, alla pensione della signora Ernestina, arriva il momento: la sveglia suona e noi ci alziamo. Prendiamo la 13 calle, andiamo al numero 2-41, dove ci aspetta una colazione abbondante seduti alla lunga tavolata dei tanti frequentatori della sede del Mojoca. Conosciamo i nostri colleghi dell'équipe di strada, che oggi come ogni giorno si divideranno in due gruppi: Laura andrà con Alfonzo al Parque Central, io con Erick in un quartiere della zona 3 che si chiama Bolivar, e più precisamente in un posto chiamato Tanke. Ed ecco com'è stato il tuffo.

C'è un muro bianco pieno di murales, intorno a un terreno comunale in abbandono. C'è un cancelletto fatto di rete metallica, chiuso e rivestito di stracci per frenare gli sguardi estranei. Ma per noi si apre ed io entro, i cani mi ronzano in sciami all'altezza delle ginocchia. C'è una tettoia sopra le nostre teste, e un rettangolo di cemento sotto ai nostri piedi. Ed è per questo che loro vengono qui.
Loro. Quelli che sono lungo il perimetro del rettangolo, seduti su vecchi divani recuperati chissà dove. Tengono in mano la bottiglietta di solvente, imbevono il piccolo straccio con gesto esperto, senza regalare niente al pavimento, e se lo portano alla bocca. Merda e solvente: sono gli odori che il mio cervello registra nella memoria, l'etichetta per richiamare alla mente questo posto. I ragazzi fanno fatica, sono lenti nei movimenti, biascicano nel parlare. Ma mi danno la mano nel loro modo di giovani di strada, mi salutano. Si fidano perchè conoscono quelli dell'équipe, perché con noi c'è Byron che è uno di loro, il loro rappresentante. Mi dicono il loro nome, anche se è difficile capire le loro parole impastate dal torpore del solvente. Yo soy André, dico. Mucho gusto.
(Mi chiamo André dalla notte di Capodanno, quando a Città del Messico ho dovuto spiegare a un ragazzino che non sono gay. Non mi ha creduto.)
I ragazzi iniziano ad alzarsi per raccogliersi in strada, dove faremo le attività: le loro compagne Stefany e Sandra li stanno già aspettando. Tra soli dieci minuti li ritroverò tutti pieni di vigore e voglia di scherzare. Ma intanto io ed Erick andiamo a fare un giro qua intorno: non tutti dormono sotto la tettoia del Tanke. Un gruppo è sempre un gruppo, ancor più quando è marginale. E se c'è un gruppo, ci sono anche gli outsiders.
Incontriamo una bambina di dieci anni con un bambino più piccolo, forse il fratello. Sono storditi dal solvente tutti e due e lei si mostra diffidente e protettiva. Mentre Erick le spiega chi siamo spinge via il piccolo e fa in modo di andarsene, non si fida, ha paura. Così ci avviciniamo ad un altro ragazzo, seduto al lato della strada in compagnia del suo solvente: gli parliamo, ci presentiamo. Non riesce ad orientare gli occhi dove vorrebbe, le palpebre sembrano pesargli come tende di velluto. Il suo modo di parlare è ben oltre la caricatura del più fradicio degli ubriachi, ma una cosa riesce a dirla ad Erick, che gli propone di partecipare alle attività: io voglio solo mangiare, dice. E se lo dice è perchè sa che prima si fanno le attività e solo dopo si mangia: questa è la regola del Mojoca, la partecipazione. Comunque, chissà perchè, quando già ce ne stavamo andando, mi viene di tendergli una mano, fingendo di non aver capito quel che ha detto. Io gli do la mano e lui la prende, si tira su. Barcolla, lo prendo al volo un paio di volte mentre continua ad inalare il solvente. Cammina con noi fino all'altro lato della strada, dove c'è un ragazzo seduto a terra, appoggiato alla colonna sporgente di un muro. Dall'altra parte della colonna un cumulo di escrementi assediato dalle mosche, proprio come lui. Non ne vuole sapere di alzarsi e così ce ne andiamo. Dopo pochi metri già ci perdiamo la mia nuova conquista: Erick gli ribadisce che deve partecipare e lui se ne va. Alla fine della spedizione torneremo con tre ragazzi, due dei quali in luglio diventeranno - per la quinta volta, per quanto riguarda lui - genitori.
La mattinata passa in fretta, tra lo shampo collettivo e gli esercizi di matematica. Rientriamo al Mojoca, traballando sull'autobus affollato. Mi chiedo se anche Laura ha visto quello che ho visto io. Fra poco glielo chiederò, a tavola.
A proposito, cosa ci sarà da mangiare?

sabato 11 febbraio 2012

Guatemala, è deciso

San Cristóbal de las Casas
Il 4 febbraio, alle nove e mezza della sera, Dianne e Carlos ci salutano alla stazione dei bus di Puebla. Pacche vigorose sulle spalle per i maschietti, occhi lucidi per le femminucce. Raccomandazioni, numeri di telefono sul nostro taccuino rosso. Poi si sale a bordo, guardiamo dal finestrino i nostri amici in piedi sulla banchina, loro aspettano la nostra partenza. Sarà l'autista, uno che in fin dei conti in questa storia non c'entra niente, a tagliare il cordone ingranando la retromarcia e portandoci via di là.
E così "Ciao Puebla", dopo più di un mese. Ciao Dianne, che mi hai soprannominato Milaneza, per quante me ne sono mangiate. Ciao multisala Cinemex, anche se dei tuoi film in spagnolo non ho capito un cazzo. Ciao Parco comunale (io li odio i parchi, ma quello lì no perchè ha le erbacce che spuntano dalle crepe del vialetto). Ciao omino del gas, che ci avevi proprio rotto le palle con il tuo megafono alle otto di mattina. Ciao padrona di casa, che volevi rubarci i soldi del deposito. Ciao piccola Sam, che hai ricevuto "in eredità" lo zaino di Laura, per i tuoi viaggi futuri. Ciao Estudiantino, vicino di stanza, e scusa se abbiamo usato la tua connessione Internet senza chiedertelo. Ciao a tutti, ormai è deciso: si va in Guatemala. E già che ci andiamo, ci andiamo lentamente, ci concediamo le nostre digressioni.
Sull'autobus che da Puebla ci porta a Salina Cruz (sull'Oceano Pacifico) non si dorme male. E del resto ormai ci siamo abituati. L'idea è di fermarci un paio di giorni al mare, a fare bagni e a prendere il sole, ma non abbiamo fatto i conti col vento che ti butta la sabbia negli occhi. Giriamo da una spiaggia all'altra con i Taxi collettivi, ma gli abitanti del posto ci fanno notare che non abbiamo scelto la località migliore: loro stessi, se vogliono andare al mare, vanno da un'altra parte.
Così il giorno dopo prendiamo altri bus fino a Tuxtla Gutiérrez, capitale del Chiapas. All'Hostal San Miguel passiamo la notte svegli a guardare sei puntate de "La nuova squadra Spaccanapoli", così che il giorno dopo siamo freschi e pronti di buon mattino per l'escursione con la lancia nel Canyon del Sumidero. Un posto incantevole, ma mi sarebbe garbato di più navigare un po' al di sotto dei 180km/h... Ho un sacco di foto ricordo, tutte mosse.
Tappa successiva a San Cristóbal de las Casas, luogo in cui mangiamo i tamales più buoni del mondo. Luogo, anche, in cui tocchiamo il punto più basso a livello di alloggi: cose che preferisco non raccontare. Dico solo che è stato logisticamente impossibile dormire. Per la prima volta in vita mia ho sperato che la sveglia suonasse presto e mettesse fine all'incubo puzzolente di quella topaia.
Per fortuna la sveglia è alle 5:30: alle 6:30 aspettiamo il pullmino per Guatemala City (che arriva invece alle 8). Il viaggio è lungo, pieno di intoppi e ritardi, cambi di mezzi e trasbordi di zaini. Alla frontiera cerchiamo invano di far valere i nostri diritti, di non farci rubare soldi, ma siamo forse troppo timidi e inesperti: ci lasciamo scucire 20 pesos a testa. Pochi soldi, ma mi gireranno le palle per qualche ora. Arriviamo a destinazione che è notte. In albergo non risulta la nostra prenotazione e noi non abbiamo moneta locale. Non accettano pesos nè carte di credito. Dopo una giornata del genere ci manca solo di restare per strada di notte, con gli zaini pieni e la pelle bianca, in una delle zone più pericolose di una delle città più pericolose del mondo (questo ci hanno detto tutti, per farci stare tranquilli). La tipa alla reception chiama il gestore, che per fortuna si lascia impietosire e ci dà una stanza, con la promessa di prelevare e pagarlo l'indomani mattina.
Ed ora, insomma, eccoci qua, a Città del Guatemala. Qui resteremo per tre mesi, a lavorare come volontari per il Mojoca, un movimento di ragazzi di strada.