giovedì 31 gennaio 2013

Quel giorno è domani. Si riparte

Tre mesi sono abbastanza. Uno si adagia, si abitua. 
Quando ti fermi in un posto dopo un lungo viaggio, posi lo zaino sul pavimento e prendi un bel respiro. Rimani imbambolato davanti ad un armadio vuoto che ti pare immenso. "Cazzo, ci potrei abitare dentro!" pensi. E invece c'è un'intera stanza a disposizione, e nell'armadio ci metti le cinque magliette logore che ti sono rimaste, le mutande dall'elastico mollo e il coltellino svizzero. Il resto è eco. Ti senti uno che ha appena fatto 100 alla ruota di Iva Zanicchi, pensi che quello spazio è molto di più di quello a cui sei abituato e di cui avrai bisogno.
Ma basta poco, nemmeno te ne accorgi. È  questione di giorni e già ti espandi, ingombri i ripiani, compri magliette e mutande al negozio dell'usato. Ti procuri libri, chiavi inglesi, creme solari, lampadine, biciclette (quattro), innaffiatoi, imbarcazioni, padelle, casse di birra...
Poi quel giorno si avvicina, anche se hai sempre fatto finta che non sarebbe successo. 
Poi quel giorno è domani, e devi ritornare a stare in uno zaino. Tagliare il superfluo, via le comodità. Sai che dopo i primi cinquecento metri a piedi maledirai ogni singolo grammo che avresti potuto lasciare. Arrivi a tagliar via le etichette dei vestiti, a temperare le matite più del necessario. Tutto per non sentirti schiacciare la colonna vertebrale, per non sentire quel dolore alle spalle che ti fa venir voglia di lasciar cadere lo zaino a terra e proseguire senza.

Ma questa volta c'è una notizia buona e una cattiva.
Quella buona è che abbiamo una macchina, almeno finché siamo in Nuova Zelanda. Quindi è vero che entro domattina dobbiamo finire tutte le birre, ma è anche vero che possiamo concederci il lusso di portare qualcosa con noi.
La brutta notizia è che abbiamo quella macchina. "Un mezzo davvero affidabile, lo uso tutte le domeniche per andare in chiesa" aveva detto il precedente proprietario, offrendoci il suo sorriso color senape. Sembrava sincero dietro ai suoi occhiali a specchio, mentre con una mano si aggiustava il cappello verde giallo e rosso con la faccia di Bob Marley stampata sopra e con l'altra s'infilava in tasca i 475 dollari. 
Un mezzo affidabile... In quattro mesi ecco il riassunto (si esclude l'ordinaria manutenzione):
Ottobre
- Il parabrezza si stacca dal telaio. 
- Il finestrino è bloccato.
- Lampadine e fusibili come se piovesse. E in più piove.
- Una gomma a terra nel parcheggio del supermercato.
Novembre
- Lo sterzo non gira più. E sono soldi.
- C'è da convincere l'omino delle revisioni che quel buco nel telaio causato dalla ruggine in realtà è frutto della sua fantasia. 
Dicembre
- Ci rifiutiamo di usare la macchina.
Gennaio
- Fusibili e lampadine sotto un sole cocente.

Ce la faremo ad arrivare all'Isola Sud e a tornare indietro? Durerà almeno tre mesi quel rottame? O ci ritroveremo sul ciglio della strada a pigiare la nostra roba negli zaini e a fare l'autostop?

In barca a vela sul lago di Taupo

In quanto al datore di lavoro, a Laura è andata meglio che a me. Tant'è che per salutarla e ringraziarla ci ha invitati entrambi ad un giro in barca a vela con grigliata. Ecco un breve reportage (Foto di Laura Pelliciari).


Prima di partire


In cerca di qualche boccone extra per il barbecue

Il nostro amico Charles, sognando Titanic

Incisione maori a cui si arriva solo via lago

Il Capitano

Il Capitano 2

Atmosfera niente male
Il barbecue

Al tramonto

lunedì 28 gennaio 2013

Huka Falls, che spettacolo

Non sarà come esserci di persona, ma ho pensato che un posto del genere non ve lo potevate perdere. Così ho preso la bicicletta, la telecamera, e mi sono inerpicato su per il sentiero...


venerdì 25 gennaio 2013

Rotorua, love is in the air


La prima volta che abbiamo varcato le porte di Rotorua, Laura e io abbiamo iniziato a guardarci con sospetto reciproco. Nessuno dei due ha osato muovere accuse specifiche, ma la verità aleggiava nell'aria. Inequivocabile. Ho abbassato un poco il finestrino, e il cigolio della manovella non ha fatto che amplificare il nostro silenzio e il nostro disagio.
“Mangiato pesante?” ho chiesto.
“Gallina che canta...” mi ha risposto.
Poi abbiamo capito: quell'odore pungente era di zolfo* e veniva dalla terra.  
Rotorua, città affacciata sull'omonimo lago, è anche nota come The Sulphur City (la Città dello Zolfo), ed è un luogo dall'impressionante attività geotermica. Qualcuno la chiama Rotten-rua, in onore delle uova marce (rotten eggs).
Comunque ormai lo sappiamo e non ci lasciamo sorprendere. Tutt'altro: ci orientiamo con l'olfatto e non abbiamo bisogno di cartelli di benvenuto. Lo sappiamo dall'odore che siamo arrivati. 
Questa volta siamo in compagnia del mio ex collega Dennis e del suo compagno Terry. Siamo qui per una gita fuori porta, per passare un po' di tempo insieme prima della nostra partenza verso l'Isola Sud. Laura e io ce ne stiamo comodi sui sedili posteriori della loro macchina e ci godiamo la loro simpatia.
“Terry, sei disgustoso!” dice Dennis. Ma Terry non raccoglie, è troppo gentile d'animo per un contrattacco e si limita a sorridere. Così Dennis si gira verso di noi e dice: “Lo sentite? È l'odore di Rotorua!”

Dopo una breve sosta in un bar sul lago di Rotorua (una grigia trappola per turisti) risaliamo in macchina e ci lasciamo portare, nemmeno noi sappiamo esattamente dove. Ci fermiamo un quarto d'ora più tardi in cima a una collina, a metà tra il lago Tikitapu (o Lago Blu, che deve il suo color turchese al fondo di riolite e pomice) e il Rotokakahi (o Lago Verde, che deve il suo color smeraldo alla scarsa profondità e al fondo sabbioso).
Io mi trovo sempre in disaccordo con gli altri sulla definizione di ciò che è blu e ciò che è verde, e così è anche oggi. Questi laghi mi sembrano verdi tutti e due, solo in modo diverso. Dennis dice che dipende dalla luce: ogni giorno i due laghi cambiano di tonalità. Resta il fatto che questo posto è incredibile e fa rabbia il non poter abbracciare tutti e due i laghi con un solo sguardo. Bisogna invece girarsi, quando guardi il blu non puoi vedere il verde e viceversa.
Un cartello avvisa che il Lago Verde, il più grande dei due, è di proprietà della Comunità Maori. È considerato sacro ed è vietato pescare, entrarci con una barca o anche a nuoto. E infatti, visto da quassù, sembra solitario e silenzioso, mentre l'altro è punteggiato di bagnanti, canoe, sciatori nautici, motoscafi. Ed è lì che anche noi siamo diretti.

Dopo un pranzo gustato ad un tavolo da pic nic sulla riva del Lago Blu, intrattenuti da un bambino maori che tirava sassate alle oche, ci rimettiamo in macchina e torniamo a Rotorua. 
Passeggiando per Kuirau Park mi sento un pollo troppo vicino alla pentola: vedo del fumo in lontananza (siamo in piena estate, il giorno è particolarmente caldo), mi avvicino e mi trovo davanti una pozza di fango che ribolle rumorosamente. E poi un'altra e un'altra ancora. E noi che ci aggiriamo su questo pianeta con il passo del padrone... Se gli girano le palle, al Pianeta, finisce che scompariamo in un battito di ciglia. 

“...e solo il silenzio come un sudario si stenderà 
fra il cielo e la terra, per mille secoli almeno, 
ma noi non ci saremo.”
(Lo so: che palle, ancora con questo Guccini.)

È ormai quasi sera e siamo tutti e quattro stanchi. Puntiamo verso Taupo, la città in cui viviamo da ormai tre mesi e che sarà casa nostra ancora per poco.




*Ad essere precisi si tratta di solfuro diidrogeno e, stando a Wikipedia, “si forma per decomposizione delle proteine contenenti zolfo da parte dei batteri, si trova pertanto nei gas di palude, nel petrolio greggio e nel gas naturale. È, insieme ai mercaptani, il responsabile dello sgradevole odore delle feci e delle flatulenze.”

sabato 19 gennaio 2013

Papaveri, carote e libertà provvisoria


La chiamano Tall Poppy Syndrome, Sindrome del Papavero Alto. “Se sei meglio degli altri” dice Chris fendendo l'aria con la mano tesa “ti tagliano via! Ti riportano allo stesso livello come fanno con i papaveri.” Lui ne fa una questione di classe: sostiene che qui in Nuova Zelanda imperi la working class, che lo standard prescriva il seguire le partite di rugby, bere fiumi di birra e ascoltare musica pop. “E io sono sempre stato diverso.” dice, “Per questo, anche se sono nato e vissuto qui, mi sento uno straniero.”
Infilzo un paio di gnocchi con la forchetta e me li infilo in bocca. Mi rabbuio. Oggi è stato il mio ultimo giorno di lavoro al Taste Café e sono deluso da questi ultimi tre mesi. Non sono un papavero alto, ma mi sento reciso. Nell'entusiasmo. 
Come spiegarlo senza vittimismo? Difficile. Diciamo che ho fatto del mio meglio, e qualche volta meglio degli altri. Ho messo tutta la cura possibile tanto nel fregar padelle quanto nel cucinare uova, ma i miei slanci sono andati perduti nell'apparente indifferenza dei colleghi. I miei rotondissimi crostini di parmigiano finiranno nel giro di una settimana e poi si tornerà a quelli maciullati e bruciacchiati che si facevano prima. Quando sono arrivato avevo molto da imparare e si vedeva. Ma a nessuno è venuto in mente che potessi avere anche qualcosa da insegnare. Guai! Insegnare sembra essere una parolaccia da queste parti. Al di là di tutto, io volevo solo partecipare, questo è quanto.
Non mi sento un papavero alto, ma piuttosto una delle tante carote che ogni giorno passano nel frullatore di quella maledetta cucina. Grattugiata una, sotto un'altra. È questione di uno, due secondi e nessuno fa caso ai meriti di ciascuna carota, a quanto fosse succosa o rinsecchita, di un arancione brillante o spento. Sotto un'altra, punto. 
“L'unica cosa positiva del lavorare al Taste” ho detto a Dennis “è che abbiamo conosciuto te e Terry!” E lui è scoppiato in una delle sue risate. Chissà se mi ha preso sul serio... A pensarci bene sono anche contento di aver conosciuto Leo, il cuoco cinese, un po' pasticcione ma buono come il pane. Abbiamo parlato spesso io e lui, seduti sulle cassette del latte nel retro della cucina, tra i bidoni dell'immondizia e le scope. Mi ha raccontato il suo punto di vista sulla Cina, davvero troppo piena di gente. Mi ha detto di quella volta che, ubriaco, è finito nei guai per aver picchiato un tassista e un poliziotto. Mi ha parlato del suo disamore per i giapponesi, ladri di isole che apparterrebbero alla Cina. Mi ha confidato il suo sogno di aprire un ristorante tutto suo. Gli auguro di riuscirci un giorno.

In ogni caso la parentesi è chiusa, il mio contratto anche. Sono di nuovo un uomo libero, almeno finché non finiscono i soldi. Diciamo che sono in libertà provvisoria. 
Non ho avuto occasione di dire good bye a Darren, il mio datore di lavoro (che poi è un modo carino per dire che non mi ha neanche salutato) e questo fatto mi riporta al luglio scorso, ad un altro ultimo giorno di lavoro. Eravamo a Talara, Perù, e io avevo fatto il pizzaiolo da Don Maximo per circa un mese. Sedevamo sul marciapiede fuori dal locale, in cerchio. Marcos, il proprietario, aveva provveduto alla birra e al Pisco. In abbondanza. C'eravamo tutti, dallo chef ai ragazzini delle consegne. Di tanto in tanto spuntava fuori qualche pizza fumante e la si faceva girare. La despedida dell'italiano era un pretesto per stare insieme. Un altro stile, un altro mondo.


mercoledì 9 gennaio 2013

Body Fuel vs Taste Café

In questa trasmissione televisiva, andata in onda su un canale nazionale, un'attrice entra nei bar più in vista di Taupo con una camera nascosta e ne testa la qualità. "Ma lo sai che il Body Fuel è risultato il migliore?" mi dice Charles, mentre aspettiamo che Youtube carichi il video. "Ah, bravi!" dico io. E in effetti fanno un figurone, e Laura ha l'onore di lavorare in quello che - trasmissione a parte - sembra essere considerato il miglior caffè in città. Ma poi il video continua e scopro che sono entrati anche al Taste, dove lavoro io. Che figuraccia.




p.s. Please Dennis, don't fire me for this. Not yet.

giovedì 3 gennaio 2013

Dog sitters


Lei si chiama Bonny, un'esemplare irruente di setter inglese dagli occhi maledettamente persuasivi. Lui è Monty, un bonaccione piccolo e nero di razza indefinita. (Ma da quando è stato nominato capo del governo tecnico, le ciotole languono.) Per dieci giorni Laura ed io dovremo dividere con loro il televisore da 60 pollici e la pelle del divano. 
Oggi per esempio non lavoro, e fuori piove. Con una tazza di caffè in mano mi piazzo sul divano ed eccoli che arrivano, tutti e due. Cercano sempre il contatto, il calore, l'affetto. Il cibo.
Sono i cani di Steve, il proprietario del caffè in cui lavora Laura, e questa è la sua casa. Starà via per una decina di giorni e ci ha chiesto se per noi fosse tanto incomodo spostarci qui, dove purtroppo ancora manca una Jacuzzi. “Ma la vista non è male, e c'è Sky”, ha detto per rimediare. “E ovviamente vi pago” ha aggiunto. Che dire... E facciamolo quest'atto di carità, pover'uomo.

Su un canale dal nome Rialto danno “La solitudine dei numeri primi” di Costanzo e poi “Baaria” di Tornatore (entrambi in italiano, e la cosa mi disorienta un poco). Ma l'occhio evade dalla cornice del televisore. Cade oltre le vetrate, dove le nuvole si muovono rapide, trasformando il lago ora in una lastra di grigio acciaio, ora in una porzione di mare caraibico. Mi distraggo poi a guardare Bonny, che ha rubato un intera tavoletta di cioccolato, l'ha scartata e se l'è mangiata. Mi toccherà pulire. Poi mi volto alla mia destra, verso una cucina che per attrezzatura e per dimensioni potrebbe fare invidia a certi ristoranti.
E mi ritrovo a pensare che mi piacerebbe davvero avere una bella casa, con tanto spazio a disposizione. Niente lusso, intendiamoci. Intendo spazio per la creatività, i progetti, i cambiamenti. Spazio per mettere in cantiere ciò che mi passa per la mente. Ma il pensiero successivo è: no. Meglio sbattere il ginocchio contro il comodino che restare schiacciato sotto un mutuo. Tra lo spazio e il tempo, se proprio devo scegliere, scelgo il tempo. Tempo libero, per godere delle cose gratuite che ancora restano a disposizione degli esseri umani.

“Fabbricare, fabbricare, fabbricare
Preferisco il rumore del mare 
Che dice fabbricare fare disfare
Fare e disfare è tutto un lavorare
Ecco quello che so fare.”
(Dino Campana)