mercoledì 26 novembre 2014

Divieto di sosta. Cronaca di un ritorno

Divieto di sosta su cielo lombardo
Quattordici mesi fa un aereo della Etihad, partito da Pechino una manciata di ore prima, mi ha scaraventato a terra all'aeroporto di Malpensa. Alla vigilia di un viaggio è logico essere carichi di aspettative. Ma non c'è meta sulla faccia della terra che metta allegria e angoscia come la propria casa, soprattutto se si è lontani da tanto tempo. Era il 16 luglio e faceva caldo. Il cielo non era limpido come nelle migliaia di volte in cui avevo immaginato quel momento, ma di un grigio piatto che definirei tipicamente lombardo.

Da allora non ho scritto più una riga. Non che non avessi nulla da riferire, ma questo era nato come un diario di viaggio, in cui si raccontava di luoghi remoti, gente bizzarra incontrata per strada, aneddoti ed equivoci linguistici. Non mi sentivo in diritto di ammorbare la gente sulle poche soddisfazioni del mio ritorno.
Balle. La verità è che non mi sentivo più in grado di raccontare, ora che non c'erano più nomi esotici dietro ai quali farmi forte. Sì, perché il fatto di essere lontani da casa, per qualche ovvio motivo, conferisce un'autorevolezza e un credito spropositati. È bello, ma anche imbarazzante.

Mi rendevo conto però che tacere era come asserire che lo straordinario non alberga nel quotidiano, che viene sempre e solo dall'altrove. Invece, come ho scoperto a mie spese, il ritorno può essere un'esperienza più sbalorditiva di molte partenze. Di sicuro più anonima, inosservata, difficile da raccontare. Tutti possiamo farci un'idea di una traversata in barca in un mare caraibico. Ma come potevo spiegare di quella volta che sono rimasto due ore in un bosco, con la schiena appoggiata ad un albero, inebetito dall'idea di non avere più un posto da chiamare casa? Ero di nuovo in Italia da circa tre mesi e mi ero accorto che il luogo a cui avevo pensato di tornare non era che un'illusione cresciuta durante la lontananza. Le mie radici, rimaste sospese per tutto quel tempo, non attecchivano più al terreno d'origine. 

Cosa mi ha riportato a casa?  Un sentimento inedito; un impasto dalle percentuali incerte di nostalgia, stanchezza e mal di schiena. C'era la frustrazione per la continua precarietà logistica e la voglia di tornare, più saggio e più forte, per iniziare una nuova vita.
Inizialmente il ritorno è stato un tuffo piacevolissimo in tonnellate di pizza, nella famiglia, nei vecchi amici. E una serie di visite nei luoghi che, in preda alla nostalgia, mi ritrovavo di fronte quando chiudevo gli occhi in Guatemala, in Nuova Zelanda, in Cina: il cortile in cui giocavo da bambino, un sentiero nel bosco, un casello autostradale. A migliaia di chilometri di distanza mi capitava di sentirne gli odori, di percepirne i suoni.
Poi la festa è finita. Tante rimpatriate, tante birre, tanti “Allora, racconta!”. Tante pacche sulle spalle. Ma in fondo agli sguardi leggevo sottotitoli amari alla parola bentornato: “Ora basta barare con la storia del giramondo, ora si gioca alle stesse regole. E sono cazzi tuoi.”

Avevo le idee troppo chiare. Aspettative troppo alte. Pensavo: se ho raggiunto con successo certi obiettivi – casa, lavoro, relazioni sociali – in paesi che non erano il mio, qui di sicuro sarà più facile. Sono nato e cresciuto qui, conosco la lingua parlata e quella taciuta. Basta sapere dove voglio arrivare e ci arrivo.
Ho provato a prendermela comoda, a fare tesoro delle lezioni imparate là fuori. Grazie a Michael, negli Stati Uniti, avevo capito che il lavoro che fai ti deve piacere: non puoi sprecare il tuo tempo a ingoiare bocconi amari per soldi. Con Steve, in Nuova Zelanda, avevo imparato che non devi per forza abitare in mezzo al cemento solo perché sei nato alle soglie di Milano. Grazie ai ragazzi di strada di Città del Guatemala avevo intuito che anche ciò che è molto difficile non è impossibile.
Sceso da quell'aereo avevo un'insana fiducia in me stesso che mi portava a pensare che non c'era alcuna fretta di mettersi in coda alle otto del mattino su qualche Statale. Una fiducia però sfiancata da una domanda insistente, che mi sentivo rivolgere cento volte al giorno. “Hai trovato lavoro?” Condita, a seconda di chi la poneva, con note di sincera preoccupazione, considerazioni sulla crisi e sulla vergogna del sistema politico italiano, offerte di impiego buone per tamponare in attesa di un lavoro vero... Ma non ero disposto ad accontentarmi di un lavoro qualsiasi. Preferivo godere del mio tempo piuttosto che venderlo ad altri senza criterio.

Ma il punto non era il lavoro. Il punto non era il luogo in cui abitavo. Il punto era l'abisso emotivo nel quale ho rischiato di affogare. 
Ci ho riflettuto e queste sono le mie conclusioni: puoi anche essere il primo uomo sulla Terra a scoprire l'origine dell'Universo; puoi incontrare Dio alla sagra del cinghiale e vedere che faccia ha. Ma se non sei in grado di dirlo agli altri non ti serve a niente. La tua vita resta uguale a prima e tu rischi di impazzire. 
Io per fortuna non vado spesso alle sagre di paese. Mi ero solo chiarito un poco le idee su come volevo vivere. Ma non ho saputo entrare in sintonia con chi in quei due anni era rimasto a casa, spiegare quello che pensavo e volevo. Mi sentivo alieno, un cavallo dal benzinaio.

A distanza di tempo continuo a sentirmi così. Dicono che gli alcolisti restano alcolisti per sempre, anche se non toccheranno mai più un goccio. Per me è lo stesso: potrò anche restare qui fino all'ultimo dei miei giorni, ma in cuor mio sono uno che vuole partire. Partire come tendere a qualcosa di meglio, come ricerca continua che non dà alcuna importanza alla meta. 
Ci penso affacciato all'unica finestra di casa mia, quella del bagno, dove il panorama è un muro grigio che delimita una casa abbandonata dall'altro lato della stretta via. Mi appoggio coi gomiti al davanzale, un po' scomposto a causa della lavatrice che mi lascia appena lo spazio per la gambe. Oggi piove, l'acqua anima il quadro alterandone la trama, deformando i contorni e diluendo i colori. Attaccato al muro grigio con quattro viti, proprio all'altezza del mio sguardo, c'è la metafora perfetta: un divieto di sosta. È così che mi sento. In lontananza mi par di vedere la sagoma di un uomo col cappello di ghisa. Ha in mano un blocchetto per le contravvenzioni. Non posso stare fermo qui ancora a lungo.