“Io in Cambogia voglio andare ad
Angkor.” mi aveva detto Laura. Io come al solito non avevo voglia
di fare ricerche e non avevo idea di cosa si trattasse, quindi ho
detto che mi stava bene. Chi non si informa si arrangia, giusto?
Avremmo dovuto fare una piccola deviazione verso nord per poi
continuare a scendere in direzione Phnom Penh, dove ci saremmo
fermati per le solite seccature burocratiche, in questo caso il visto
per il Vietnam. Poi però, come sempre all'ultimo, non me la sono
sentita di arrivare in un posto di cui non sapevo assolutamente
nulla, e ho fatto le mie ricerche...
“No! I sassi no!” dico appena
capisco a cosa vado incontro.
“Non ricominciare, non sono sassi.
Sono rovine.”
“Che poi, alla prova dei fatti, sono
sassi transennati. E per giunta rovinati, lo dice la parola stessa.”
“No invece! Sono luoghi in cui si è
fatta la storia, in cui rimane la testimonianza di civiltà passate.”
Non voglio avere ragione, non posso. Ma
è più forte di me: mi annoio a morte in giro per rovine, monumenti
e musei archeologici. Sarà perché di architettura non capisco
niente, di arte nemmeno. Sarà che la mia preparazione in storia
pre-coloniale è pari a zero.
Angkor Wat si rivela poi essere un
maestoso tempio indù, fatto costruire dal re khmer Suryavarman II
tra il 1113 e il 1150. Si trova immerso nel verde, insieme a numerosi
altri templi che insieme formano il sito archeologico di Angkor. Ha
un perimetro di 3,6 km, è formato da tre gallerie rettangolari
concentriche ed è circondato da un enorme fossato pieno d'acqua
verdastra su cui il tempio stesso si riflette. C'è gente che ci
arriva prima dell'alba e poi vi rimane fino al tramonto, per poterlo
fotografare con la luce migliore.
Per arrivarci da Siem Reap, la città
in cui alloggiamo, dobbiamo ingaggiare un autista per tutto il
giorno. Non c'è altra scelta, ci dicono, funziona così e basta.
L'autista ci accompagnerà di tempio in tempio e ogni volta ci
aspetterà fuori, anche per ore, seduto all'ombra della carrozza del
suo tuk tuk. Appena ci fa scendere davanti ad Angkor Wat
rimango affascinato dalla sua imponenza solitaria ed equilibrata,
dalla sua forma simmetrica ma per niente spigolosa. Ci incamminiamo
lungo il ponte che attraversa il fossato, ma a metà strada dobbiamo
rifugiarci per dieci minuti sotto un chiosco di informazioni
turistiche dal tetto di foglie di palma. Piove a dirotto.
La magia, per quanto mi riguarda,
svanisce in fretta quando mi trovo accalcato insieme a centinaia di
turisti chiassosi e a gruppi di giapponesi in posa per farsi
fotografare ad ogni angolo e... ad ogni sasso. Come puoi godere
dell'atmosfera di un luogo simile con tutto questo casino? Poi
finalmente imbocchiamo un corridoio silenzioso, dove ci accoglie un
vecchio. Ci mette in mano dei bastoncini d'incenso e ci guida verso
la statua di una divinità indù, davanti alla quale, con modi
bruschi, ci fa cenno di inginocchiarci. Dice delle preghiere, credo,
poi ci chiede di toccare la statua. Infine solleva un panno rosso
alla base, scoprendo una banconota da 10 dollari, chiaramente
invitandoci ad aggiungerne un'altra uguale. Questo è troppo, mi
girano veramente le palle.
A fine giornata siamo entrambi stanchi.
Siamo contenti di farci portare a casa e lasciare libero con anticipo
il nostro bravo e silenzioso autista, che per scrupolo ci chiede se
siamo sicuri di non voler aspettare il tramonto.
Ok, forse Angkor Wat (e il Colosseo, i
templi greci...) non è solo un ammasso di sassi, ve lo concedo. Ma
se guardo indietro al nostro viaggio, i luoghi che più hanno
suscitato il mio interesse sono stati quelli trovati per caso. Quelli
in cui ci siamo fermati per una notte mentre eravamo diretti altrove,
come San Cristobal in Guatemala o Phatthalung in Thailandia. Posti in
cui non c'è assolutamente nulla “da vedere”, eppure c'è un
mondo in carne e ossa da scoprire. Là dove la gente è spaesata
quanto te nell'incontrarti, perché non è abituata a relazionarsi
con gli stranieri. In quei posti non esistono due mondi paralleli:
quello in cui vive la gente normale e quello dorato (e salato)
inventato apposta per i turisti. Lì nessuno ti aspetta fuori dalla
stazione per proporti soluzioni facili, con l'intenzione di tenerti
dentro la bolla del turismo, in un'enclave invisibile che ha poco a
che fare con la realtà del posto in cui ti trovi. E Angkor Wat è
servita a ricordarmi la lezione: i sassi proprio non mi interessano.
Comunque è andata, sono sopravvissuto
un'altra volta. Dopo una breve escursione in tuk tuk
attraverso i villaggi di palafitte intorno a Siem Reap, dove i
bambini giocano nudi in strada e gli uomini si radunano nell'ombra
scura dei bar, si riparte per Phnom Penh, dove rimaniamo alcuni
giorni in un triste albergo accanto alla stazione dei bus, in attesa
che i visti vietnamiti siano pronti. Ammazziamo il tempo passeggiando
per una città grigia, caotica e deprimente. O forse siamo noi che
siamo sulla via della depressione, anche se non manchiamo di
sorridere quando, sul largo spiazzo pedonale sulla riva del Mekong,
ci troviamo di fronte a decine di persone che si muovono a ritmo di
musica, seguendo i movimenti del maestro di aerobica. C'è la giovane
donna in tenuta ginnica, l'anziano col cappello, l'uomo d'affari
appena uscito dall'ufficio e una serie di altri divertenti
stereotipi. E pensare che al Parco Sempione la gente fa taiji!
Quella stessa sera, per disperazione,
compriamo un pacco di pasta e la cuciniamo sul fornello elettrico
nella nostra stanza. Non ne possiamo più di riso e noodles, e da
queste parti non si trova altro (nemmeno il McDonald!). Di sicuro a
stare in Indocina si diventa più magri. Un po' per il caldo
tropicale che toglie l'appetito, un po' per la scarsezza delle
porzioni (e della scelta dei cibi), farsi un giro da queste parti può
essere una soluzione alternativa alla dieta.
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