Palazzo abbandonato a Kuala Lumpur |
Mi chiedo cosa li stampino a fare i menù, qui in Malesia. Ancora prima che tu ti sieda, già il cameriere vuol sapere cosa ordinerai. Magari tu gli dici “Scusa, ho bisogno due minuti”, e fai la faccia dispiaciuta di chi chiede comprensione. Allora lui ti guarda come se fossi un animale buffo: “Ok” ti risponde. Ma non si muove. Aspetta, con la punta della matita sul foglio di carta. E quindi tu, che hai dei problemi con la lingua e nessuna esperienza di cucina asiatica, finisci col puntare il dito su una pietanza a caso. È più o meno così che a Kuala Lumpur ci siamo beccati la diarrea.
Al Korner, un ristorante immenso all’angolo tra due strade, fanno cucina indiana, cinese e malese. La gente entra e esce a sciami, dato che non ci sono pareti esterne a dividere lo spazio occupato dai tavoli di plastica dal marciapiede affollato. Sul soffitto girano pigramente le pale unte dei ventilatori e, in fondo alla sala, un televisore trasmette il GP di Spagna. Per un lungo minuto provo a reggere la tensione e a concentrarmi sul menù, ma mi sento addosso lo sguardo di quel tale, in piedi nelle sue infradito a pochi centimetri dal tavolo. “Tandoori chicken”, dico puntando il dito sul menù. Laura invece ripiega su un più conservativo riso con carne. Ciò che mi viene servito, in un piatto di plastica rigida e dopo una lunga attesa, è un pezzo di pollo dal colore violaceo, così tenero che si taglia con un grissino e così piccante da far invidia al cibo messicano. Anche Laura, errore fatale, ne assaggia un boccone. Quella notte stessa mi sveglieranno i crampi alla pancia.
Non posso dire che sia per scelta, quindi, se a Kuala Lumpur ci restiamo cinque giorni (quattro in più del previsto). Abbiamo bisogno di rimetterci in sesto.
La città è enorme. Il cemento è ovunque si rivolga lo sguardo, anche in alto, e non fa che amplificare la sensazione di soffocamento data dal clima equatoriale e dal rumore dei motori, surriscaldati nelle code tra un cantiere e un semaforo.
Bighelloniamo in giro cercando di sfuggire il caldo, su e giù dalla piccola monorotaia (solo due vagoni) e dentro e fuori dagli enormi centri commerciali (quello più vicino al nostro albergo è di nove piani). Se ci aspettavamo (chissà poi perché) una città arretrata, quello che troviamo è una città poliglotta e tecnologica. Poliglotta perché quasi tutti i suoi abitanti, siano essi malesi, cinesi o indiani, oltre alla loro lingua madre e al malese, parlano anche l’inglese. Tecnologica nel senso che è difficile guardarsi attorno e trovare qualcuno che non stia facendo scorrere il dito sullo schermo di uno smartphone o di un tablet.
È davvero impressionante, ma allo stesso tempo settoriale. Mentre siamo alla ricerca di una chiavetta USB nella quale archiviare le migliaia di foto che Laura continua a scattare, ci ritroviamo in un centro commerciale di cinque piani, tutto dedicato alla tecnologia. I prezzi sono molto convenienti e ci viene l’idea di comprare un eReader (che pesa meno dei libri di carta e, soprattutto, ci consentirebbe di tornare a leggere in italiano). Ma in esposizione non vediamo altro che computer portatili, tablet e telefoni cellulari. E tutti gli accessori del caso. Chiediamo in giro: dal primo piano ci mandano al quarto, poi al terzo. Alla fine ci arrendiamo, e la sensazione è che non sappiano proprio di cosa stiamo parlando. Al Korner non ci siamo fatti più vedere. Per mangiare andiamo sempre dai cinesi, e la scelta è ampia tra i tanti ristoranti di Jalan Alor, una strada sovrastata da centinaia di lanterne rosse che la sera si riempie di odori di carne e pesce alla griglia, di tavoli apparecchiati e di pentoloni fumanti. La folla invade il poco spazio rimasto al centro della strada, rendendo difficile il transito delle auto. L’ambiente ci piace, e soprattutto sappiamo che dai cinesi possiamo sempre trovare riso bianco e pollo. Quasi riesco a battere sul tempo il cameriere, fingendo di guardare il menù e ordinando a tempo record, ma ho ancora tanto da imparare. Tempo tre giorni e stiamo di nuovo bene, pronti per ripartire. Verso il mare del nord. Arrivati a Kuala Besut ci troviamo una stanza per la notte e compriamo i biglietti per la barca che l’indomani mattina ci porterà sull’Isola di Perhentian. Passiamo una notte infernale, sudati sotto le pale traballanti del ventilatore. Verso mezzanotte sento dei rumori in corridoio, poi vedo girare la maniglia della nostra porta. Infine uno spiraglio di luce sempre più ampio illumina brutalmente la stanza. Salto seduto sul letto, in mutande, e abbaio qualcosa verso l’intruso. Laura si sveglia, si spaventa, urla anche lei. Il malintenzionato è in realtà un povero giapponese col cappellino rosso e il trolley, e ha sbagliato stanza. Richiude cerimoniosamente la porta, con un mezzo inchino, e se ne va. “Ci siamo dimenticati di chiudere!” “Eh già.” “Ti alzi tu?” “No.”
Arrivati sull’isola prendiamo in affitto una casetta sulla spiaggia e proviamo a rilassarci per qualche giorno: passiamo il tempo leggendo, guardando film e facendo bagni nel brodo caldo e cristallino che è il mare da queste parti. Noleggiamo anche una canoa, con la quale solchiamo lentamente le acque alla ricerca di spiagge nascoste. Ma, soprattutto, mangiamo un sacco di pesce al Mama’s Place, un ristorante sulla spiaggia del quale siamo presto diventati habitué. Il pesce è fresco e cucinato ad arte, ma la vera attrazione è il loro succo di mango. Buono da far scoppiare il cervello. È piacevole trascorrere le giornate senza avere niente di particolare da fare. Spesso si finisce col combinare molto di più che nelle giornate frenetiche, nel senso che si ha finalmente il tempo di occuparsi di se stessi e di fare cose rimandate da tempo. Ma la solita inquietudine chiama, ci ricorda che c’è un viaggio da continuare, altri mari da vedere, altre grigie città da cui scappare. Il quinto giorno risaliamo in barca e torniamo sul continente. A Kuala Besut prendiamo un taxi insieme a due cileni appena conosciuti e in un’ora e mezza di sorpassi assassini siamo a Rantau Panjang, al confine con la Tailandia.
Al Korner, un ristorante immenso all’angolo tra due strade, fanno cucina indiana, cinese e malese. La gente entra e esce a sciami, dato che non ci sono pareti esterne a dividere lo spazio occupato dai tavoli di plastica dal marciapiede affollato. Sul soffitto girano pigramente le pale unte dei ventilatori e, in fondo alla sala, un televisore trasmette il GP di Spagna. Per un lungo minuto provo a reggere la tensione e a concentrarmi sul menù, ma mi sento addosso lo sguardo di quel tale, in piedi nelle sue infradito a pochi centimetri dal tavolo. “Tandoori chicken”, dico puntando il dito sul menù. Laura invece ripiega su un più conservativo riso con carne. Ciò che mi viene servito, in un piatto di plastica rigida e dopo una lunga attesa, è un pezzo di pollo dal colore violaceo, così tenero che si taglia con un grissino e così piccante da far invidia al cibo messicano. Anche Laura, errore fatale, ne assaggia un boccone. Quella notte stessa mi sveglieranno i crampi alla pancia.
Non posso dire che sia per scelta, quindi, se a Kuala Lumpur ci restiamo cinque giorni (quattro in più del previsto). Abbiamo bisogno di rimetterci in sesto.
La città è enorme. Il cemento è ovunque si rivolga lo sguardo, anche in alto, e non fa che amplificare la sensazione di soffocamento data dal clima equatoriale e dal rumore dei motori, surriscaldati nelle code tra un cantiere e un semaforo.
Bighelloniamo in giro cercando di sfuggire il caldo, su e giù dalla piccola monorotaia (solo due vagoni) e dentro e fuori dagli enormi centri commerciali (quello più vicino al nostro albergo è di nove piani). Se ci aspettavamo (chissà poi perché) una città arretrata, quello che troviamo è una città poliglotta e tecnologica. Poliglotta perché quasi tutti i suoi abitanti, siano essi malesi, cinesi o indiani, oltre alla loro lingua madre e al malese, parlano anche l’inglese. Tecnologica nel senso che è difficile guardarsi attorno e trovare qualcuno che non stia facendo scorrere il dito sullo schermo di uno smartphone o di un tablet.
È davvero impressionante, ma allo stesso tempo settoriale. Mentre siamo alla ricerca di una chiavetta USB nella quale archiviare le migliaia di foto che Laura continua a scattare, ci ritroviamo in un centro commerciale di cinque piani, tutto dedicato alla tecnologia. I prezzi sono molto convenienti e ci viene l’idea di comprare un eReader (che pesa meno dei libri di carta e, soprattutto, ci consentirebbe di tornare a leggere in italiano). Ma in esposizione non vediamo altro che computer portatili, tablet e telefoni cellulari. E tutti gli accessori del caso. Chiediamo in giro: dal primo piano ci mandano al quarto, poi al terzo. Alla fine ci arrendiamo, e la sensazione è che non sappiano proprio di cosa stiamo parlando. Al Korner non ci siamo fatti più vedere. Per mangiare andiamo sempre dai cinesi, e la scelta è ampia tra i tanti ristoranti di Jalan Alor, una strada sovrastata da centinaia di lanterne rosse che la sera si riempie di odori di carne e pesce alla griglia, di tavoli apparecchiati e di pentoloni fumanti. La folla invade il poco spazio rimasto al centro della strada, rendendo difficile il transito delle auto. L’ambiente ci piace, e soprattutto sappiamo che dai cinesi possiamo sempre trovare riso bianco e pollo. Quasi riesco a battere sul tempo il cameriere, fingendo di guardare il menù e ordinando a tempo record, ma ho ancora tanto da imparare. Tempo tre giorni e stiamo di nuovo bene, pronti per ripartire. Verso il mare del nord. Arrivati a Kuala Besut ci troviamo una stanza per la notte e compriamo i biglietti per la barca che l’indomani mattina ci porterà sull’Isola di Perhentian. Passiamo una notte infernale, sudati sotto le pale traballanti del ventilatore. Verso mezzanotte sento dei rumori in corridoio, poi vedo girare la maniglia della nostra porta. Infine uno spiraglio di luce sempre più ampio illumina brutalmente la stanza. Salto seduto sul letto, in mutande, e abbaio qualcosa verso l’intruso. Laura si sveglia, si spaventa, urla anche lei. Il malintenzionato è in realtà un povero giapponese col cappellino rosso e il trolley, e ha sbagliato stanza. Richiude cerimoniosamente la porta, con un mezzo inchino, e se ne va. “Ci siamo dimenticati di chiudere!” “Eh già.” “Ti alzi tu?” “No.”
Arrivati sull’isola prendiamo in affitto una casetta sulla spiaggia e proviamo a rilassarci per qualche giorno: passiamo il tempo leggendo, guardando film e facendo bagni nel brodo caldo e cristallino che è il mare da queste parti. Noleggiamo anche una canoa, con la quale solchiamo lentamente le acque alla ricerca di spiagge nascoste. Ma, soprattutto, mangiamo un sacco di pesce al Mama’s Place, un ristorante sulla spiaggia del quale siamo presto diventati habitué. Il pesce è fresco e cucinato ad arte, ma la vera attrazione è il loro succo di mango. Buono da far scoppiare il cervello. È piacevole trascorrere le giornate senza avere niente di particolare da fare. Spesso si finisce col combinare molto di più che nelle giornate frenetiche, nel senso che si ha finalmente il tempo di occuparsi di se stessi e di fare cose rimandate da tempo. Ma la solita inquietudine chiama, ci ricorda che c’è un viaggio da continuare, altri mari da vedere, altre grigie città da cui scappare. Il quinto giorno risaliamo in barca e torniamo sul continente. A Kuala Besut prendiamo un taxi insieme a due cileni appena conosciuti e in un’ora e mezza di sorpassi assassini siamo a Rantau Panjang, al confine con la Tailandia.
Haha, I know exactly what you are talking about of the Malaysian servers. Sometimes, we intentionally studied the menu extra long to see if they really wanted to stay by the table waiting. At some point they gave up and moved away, but as soon as we lifted our eyes from the menu, they were back!
RispondiEliminaI think the reason they do it is that the menus in most of the places are quite standard and people know what they want to eat, so they don't really need to study the menu.
Yeah, probably you're right. But damn, I'm white, I have a backpack, I wear sunglasses and a strange hat... How should I know their "standard menu"?
EliminaAnyway, I'm getting better: I try to take my time and at the same time I try to be faster.
Exactly, people are very poor in knowing what others don't know if it is very obvious to themselves. It takes some travelling and meeting people from other cultures to see this. On the other hand, this server standing by the table may have thought it is just polite to be attentive and be there to serve you! But then again, the server may not have thought you are any different from other customer he had (which I think is good!)
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